Quello che doveva essere uno dei provvedimenti più importanti del governo Meloni in tema migrazioni, ossia il protocollo Italia-Albania – che prevede l’esternalizzazione di rimpatri e procedure di asilo – è naufragato ancor prima di entrare in funzione. Il Tribunale di Roma ha infatti ordinato la liberazione delle dodici persone rimaste rinchiuse nei centri in Albania, in seguito alla deportazione coatta effettuata dalla Guardia Costiera italiana. Ripercorrendo l’iter che ha portato a questo clamoroso fallimento, è possibile notare come le gravi criticità di questo progetto fossero già state segnalate in partenza.
Il 14 ottobre, la nave Libra della Guardia Costiera italiana deporta sedici persone soccorse in mare provenienti da Bangladesh ed Egitto. Di fatto, la nave della Guardia Costiera italiana rappresenta il territorio italiano, l’Italia si è quindi resa artefice di una deportazione dal proprio territorio che, come già evidenziava l’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) nel 2023, è “[…] vietata dalle norme europee ed internazionali a cui lo stesso Protocollo prevede di conformarsi ed è del tutto estraneo allo spirito e alla lettera delle norme costituzionali”. Stando alle procedure di deportazione, è proprio sulla nave italiana che avverrebbero le procedure di screening: “sulle persone da trasferire, soccorse in mare, è stato fatto un primo screening a bordo per verificare che abbiano i requisiti previsti dal protocollo: provenienza da Paesi sicuri, maschi, adulti, non vulnerabili”, si legge su Repubblica.
Tuttavia tali screening presentano numerose criticità in quanto vengono fatti sommariamente – lo si era già visto nel 2022, quando le Ong Geo Barents e Sos Humanity fecero ricorso contro lo sbarco selettivo imposto dal ministro dell’Interno Piantedosi, costringendo diverse persone a rimanere a bordo, nonostante le condizioni di massima vulnerabilità. Ciò che ha provato l’arbitrarietà e la superficialità di tale selezione è proprio il fatto che quattro delle sedici persone deportate in Albania sono state ricondotte in Italia subito dopo poiché due erano minori e due soggetti vulnerabili. Ricordiamo che il governo Meloni aveva affermato che minori e soggetti vulnerabili non sarebbero stati deportati, eppure si tratta di “parole smentite dagli atti pubblicati dalla prefettura di Roma che ha richiesto al futuro ente gestore delle strutture, la cooperativa Medihospes, di predisporre specifiche attività proprie per i minori. Un aspetto grave e inaccettabile, osserva l’avvocata Giulia Crescini, socia dell’(Asgi)”, si legge su Altreconomia.
Il numero di persone migranti si riduce quindi a dodici che, in tempo record, ottengono un diniego per l’ottenimento della protezione internazionale. Maso Notarianni, di Arci, ha sollevato dubbi sulla rapidità delle procedure. “La velocità e fretta nella procedura accelerata sulle richieste d’asilo è sospetta e non è compatibile con la sentenza della Corte”, dice, annunciando che insieme agli avvocati ne chiederanno conto al governo. “Questa fretta non è compatibile neanche con le condizioni in cui sono le persone: vengono tutti da un anno di detenzione e torture in Libia, e qui non hanno trovato un ambiente amichevole”, riporta Domani. Tali dubbi emergono anche e proprio alla luce della sentenza del Tribunale di Roma che, come è noto, non ha convalidato il trattenimento delle dodici persone in questione poiché, appellandosi a una sentenza della Corte di Giustizia Ue (CgUe) del 4 ottobre, non provengono da un Paese sicuro.
Come riporta Questione di Giustizia, la CgUe ha affermato che: “la designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende […] dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione […], tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno”. Inoltre, ed è questa la parte ancor più rilevante, “le condizioni stabilite in tale allegato devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato affinché quest’ultimo sia designato come paese di origine sicuro”. Ciò significa che l’Italia non può includere un dato Paese nella lista dei “Paesi sicuri” soltanto per alcune parti di territorio. Dato che i giudici nazionali sono tenuti ad applicare le normative Ue, contrariamente a quanto viene propagandato dagli esponenti di governo, non esiste alcuna prevaricazione.
Se da un lato è lo stato italiano che stila la lista dei paesi considerati “sicuri”, dall’altro lo stesso è tenuto a verificare che in nessun caso, e in nessuna regione di essi, avvengano torture, persecuzioni, discriminazioni nei confronti di minoranze di vario genere, come peraltro stabilito dalla Direttiva Ue n. 32 del 2013, all’articolo 38. Non è evidentemente il caso di Bangladesh ed Egitto e, come ha già riportato l’Asgi, “sembrerebbe che il Governo abbia classificato come ‘sicuri’ i Paesi da cui provengono più richiedenti asilo […]. Pare che non si sia tenuto conto di comprovate situazioni di instabilità e/o di violazione dei diritti umani nei nuovi Paesi aggiunti”. Infatti, ricordiamo che con un decreto del maggio scorso, il ministero degli Affari esteri aveva modificato tale lista, ampliandone il numero “e includendovi stati nei quali, leggendo le relative schede fornite dalla Farnesina, avvengono gravi violazioni dei diritti umani”, scrive la giurista Vitalba Azzollini.
Nonostante il governo si dica pronto ad adottare un altro decreto per legittimare tali operazioni e aggirare le leggi Ue, sfugge in che modo esso possa prevalere sulla sentenza del Tribunale di Roma e conseguentemente su quella della Corte di giustizia dell’Ue. Da un lato il governo Meloni cerca di adottare il pugno duro mostrandosi irremovibile sulle migrazioni, dall’altro, oltre a far finta di non conoscere le norme europee e internazionali in materia, cerca di omettere o nascondere i costi di questo protocollo – della durata di cinque anni, per cui si arriverebbe a spendere 653 milioni di euro, riporta Openpolis. Posto il fatto che centri di detenzione e deportazioni andrebbero comunque contro i diritti umani fondamentali delle persone migranti anche a costo zero, dovrebbe far riflettere che gli stessi politici che fino a qualche anno fa si lamentavano del costo dei famosi “35 euro al giorno” per l’accoglienza di persone migranti, oggi siano ben felici di spendere “[…] una media di 138mila euro al giorno, necessaria a pagare viaggi, diarie, vitto e alloggio del personale interforze, dei funzionari prefettizi, di quelli del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), del personale sanitario di frontiera (Usmaf) e di quello dell’istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti (Inmp)”.
Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi ha affermato che “pagheremo nove volte quello che paghiamo l’accoglienza in Italia, per ottenere un effetto dissuasivo del 2%, ovvero nullo”. Nel frattempo, le opposizioni si stanno preparando a due ricorsi: uno (di Pd, M5s, AvS) alla Commissione Ue, promosso dall’eurodeputata Cecilia Strada, la quale in un’interrogazione parlamentare chiederà se sarà avviata una procedura d’infrazione contro l’Italia in quanto il protocollo per il rimpatrio forzato delle persone migranti in un Paese terzo non è previsto dalle norme comunitarie. Il secondo (di Italia Viva e M5s) è una denuncia alla Corte dei Conti per danno erariale, in cui Meloni verrà indicata come responsabile dello spreco di denaro pubblico.
In tutto ciò, le grandi assenti sono le voci di coloro che sono stati strumentalizzati e arbitrariamente deportati da un Paese all’altro più volte e che ora si trovano a Bari, in un centro di accoglienza. Secondo quanto riportato dall’Ansa “sono apparsi impauriti e sotto choc, con il timore di parlare anche tra di loro per evitare qualsiasi problema che possa mettere a rischio il loro percorso giuridico e la permanenza in Italia”. Anche alcuni legali delle persone trattenute hanno affermato che ci sono state gravi violazioni del diritto alla difesa, tra richieste di contatti agli uffici senza risposta, difficoltà nel comunicare con le persone rinchiuse. “Mi hanno sempre parlato in inglese, non capivo cosa mi dicessero, né sulla nave, né dopo”, riporta Repubblica che ha avuto modo di intervistare Dulal (nome di fantasia), originario del Bangladesh.
“Ci hanno fatto salire sulla nave militare, non ci hanno spiegato niente. O meglio, ci hanno detto troppe cose in poco tempo. […] Ci hanno dato un foglio in una lingua che non capivamo, ma non sappiamo che tipo di procedure seguire”, continua Dulal. In queste poche righe è evidente l’arbitrarietà e l’assenza di trasparenza di tali operazioni, in cui la volontà dei diretti interessati viene di fatto annullata, senza nemmeno alcuna possibilità di interfacciarsi con mediatori culturali o interpreti a bordo. Dulal racconta di poter rischiare la vita in Bangladesh, che la repressione del dissenso è durissima e che prima di imbarcarsi nel Mediterraneo è persino stato imprigionato in Libia e torturato. E ancora: “nessuno ha cercato i segni di torture, solo eventuali sintomi di malattie infettive o scabbia, e tanto è bastato per dichiararlo compatibile con il trattenimento”.
Questo primo esperimento di deportazione e detenzione in Albania è stata un’operazione fallimentare e inutile. Giuridicamente, il progetto con l’Albania è nato morto, lo si sapeva, eppure lo si è legittimato per puro marketing politico di estrema destra, in barba alle normative e alle sentenze Ue. Un gioco politico disumano in cui le persone migranti sono sempre e comunque il capro espiatorio senza possibilità di appello né di obiezione.