Durante il suo intervento alla manifestazione del 7 giugno di Black Lives Matter a Piazza del Popolo a Roma, il sindacalista Aboubakar Soumahoro ha ricordato “quante persone non riescono più a respirare”, riferendosi a donne, gay, lesbiche, immigrati, persone soffocate da leggi e sistemi discriminanti e da una certa politica che ha deciso di cavalcare il consenso attraverso la stigmatizzazione, l’odio e il razzismo. Ma per sconfiggere il sistema razzista non è utile, ha proseguito, cristallizzarsi nella contrapposizione tra razzisti e antirazzisti. Perché la via di uscita più efficace dal razzismo “è la giustizia sociale”.
Non sono tanti quelli che in questo Paese hanno il coraggio di parlare di giustizia sociale, anche nelle file della sinistra, e anche dei sindacati. Da tempo ha smesso di farlo la Cgil, il più grande sindacato italiano. Il segretario Maurizio Landini è intervenuto nei giorni scorsi agli Stati generali del Governo Conte, presentando un articolato piano per lo sviluppo, ma dall’inizio della pandemia ha mantenuto un basso profilo rispetto a tutti i dibattiti e le linee di conflitto sociale più importanti emerse in questi mesi: dalla questione dei lavoratori essenziali, alla penalizzazione delle donne e dei giovani, alla lotta per la regolarizzazione dei braccianti e degli immigrati senza permesso di soggiorno.
Soumahoro e i suoi compagni di lotta, invece, sono riusciti a riportare questi temi al centro della cronaca. Il sindacalista ivoriano ha ormai abituato da tempo le persone che lo seguono a prese di posizione nette e coraggiose sui temi del lavoro, della giustizia e del razzismo in Italia. Sociologo, vive in Italia da ormai 20 anni e l’opinione pubblica lo ha conosciuto dopo l’assassinio del suo compagno sindacalista di origine maliana Soumaila Sacko, avvenuto due anni fa in Calabria e ancora oggi senza responsabili. Martedì 16 giugno, Soumahoro si è incatenato davanti a uno degli ingressi della romana Villa Pamphilj, sede degli “Stati generali” dell’economia, e ha proclamato lo sciopero della fame e della sete fino a quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non avesse ascoltato “il grido di dolore e le sofferenze degli invisibili e degli esclusi”.
Le richieste presentate da Soumahoro e dal suo sindacato, l’Unione sindacale di base (Usb), sono precise e dettagliate, e hanno tutte un respiro politico che va al cuore della questione dell’immigrazione ma senza perdere una visione più ampia della giustizia sociale e del lavoro, guardando all’intera popolazione italiana.
La prima richiesta è “riformare la filiera agricola con l’adozione di una patente del cibo, per garantire un cibo eticamente sano alle persone, e per liberare contadini, agricoltori e braccianti dallo strapotere dei giganti del cibo che favoriscono lo sfruttamento e il caporalato, sia quello digitale, sia quello dei colletti bianchi”. Soumahoro, ricevuto dal presidente del Consiglio dopo circa otto ore di protesta, ha riferito che a Giuseppe Conte l’idea della patente del cibo – ovvero un’indicazione in etichetta che riporti la provenienza del prodotto e che non è stato ottenuto attraverso lo sfruttamento dei lavoratori – è parsa “bellissima”. Più che “bellissima” sarebbe un’idea rivoluzionaria, e molto scomoda. Permetterebbe infatti l’emersione di un’alternativa alle politiche aggressive della Grande Distribuzione Organizzata, la cui forza si basa sulla capacità di imporre le proprie condizioni sui prezzi e sulla qualità dei prodotti agricoli da portare sugli scaffali. Il potere contrattuale di questi colossi del mercato è tale da condizionare non soltanto il benessere e la dignità di milioni di lavoratori, ma anche la salute dei cittadini e il volto stesso delle città e del tessuto sociale, stravolto negli ultimi decenni dalla continua comparsa di poli commerciali legati alla Gdo, a spese del commercio al dettaglio, e della vita dei quartieri.
La patente del cibo avrebbe perciò conseguenze a cascata sulla vita e sul lavoro di milioni di persone, la maggior parte delle quali italiane. Non a caso ha riscosso il plauso dell’Associazione Rurale Italiana (Ari), che raccoglie e organizza le microimprese di agricoltura contadina in Italia, quelle composte da una sola persona o un solo nucleo familiare. Questa tipologia di micro-impresa rappresenta circa un terzo dell’intera imprenditoria agricola nazionale. Insieme ad altre associazioni e realtà, l’Ari si batte da decenni per l’adozione di un modello agricolo ecologicamente sostenibile, non basato sullo sfruttamento intensivo che impoverisce il cibo e chi lo coltiva e causa l’abbandono dei terreni non adatti alle grandi monocolture.
Quando si parla di lavoro – come ribadisce il messaggio di Soumahoro – c’è un sistema intero da ripensare, a vari livelli e su vari piani, e migliorare le condizioni di vita dei braccianti e degli immigrati senza diritti è un tutt’uno con il garantire maggiore dignità agli stessi lavoratori italiani sfruttati, malpagati e umiliati. Per questo non è degna, a suo avviso, una “regolarizzazione delle braccia” come quella voluta dalla ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, pensata per le esigenze contingenti delle aziende e non per quelle delle persone, che durante la pandemia da Coronavirus avrebbero avuto diritto alla sanatoria innanzitutto allo scopo di potersi prendere cura della propria salute e di quella pubblica, come ogni altro cittadino italiano. Quello dei braccianti del 21 maggio scorso è stato l’unico sciopero di rilievo avvenuto durante questi primi mesi del 2020 e ha riscosso molta simpatia da parte di una parte dell’opinione pubblica, grazie anche alla capacità di Soumahoro di usare in modo diretto e chiaro i mezzi di comunicazione, in particolare i videomessaggi per diffondere le sue battaglie.
La regolarizzazione degli immigrati con un permesso di soggiorno dovuto all’emergenza sanitaria e poi rinnovabile per attività lavorativa è un’altra delle richieste presentate a Conte il 16 giugno. L’ultima richiesta riguarda un Piano di Emergenza Lavoro a tutela di tutte le persone che hanno perso o rischiano di perdere il lavoro e rimanere disoccupate o inoccupate per via dell’emergenza sanitaria. Si tratta, anche in questo caso, di un provvedimento che guarda all’insieme della società italiana, all’interno della quale non è più possibile separare in modo netto la discussione sull’immigrazione da quella sul lavoro: come dimostrano i due casi del rider picchiato dalla polizia a Milano perché chiedeva di salire con la bicicletta sul treno – come suo diritto –, o la morte del bracciante Mohammed Ben Ali a Foggia, ucciso dall’incendio della baracca in cui abitava, le condizioni degli invisibili sono in realtà quelle che fanno luce sulla realtà di sfruttamento del lavoro che in questo Paese ha ormai assunto un connotato endemico, ampio e trasversale, che riguarda giovani, donne, precari. Il presidente Conte ha chiesto a Soumahoro di presentare un articolato Piano sul lavoro, “cosa che faremo con il contributo di ognuna e di ognuno di voi”. Se la proposta di contribuire alla stesura del piano sarà presa sul serio dalle realtà dell’associazionismo, del sindacalismo e dalle persone comuni, potrebbe nascerne un’esperienza molto interessante: non soltanto una possibilità di coinvolgimento democratico e plurale su temi che riguardano la vita delle persone nel concreto, ma anche un’altra idea e pratica della politica e della leadership politica.
Per esempio, cosa accadrebbe se l’idea della “patente del cibo” venisse ampliata ad altri settori produttivi? E se lavoratori e acquirenti cominciassero a pretendere una “patente del libro” – uno dei settori in cui più pesano la precarietà e povertà strutturali dei lavoratori – per certificare che anche quel libro acquistato non è stato prodotto attraverso lo sfruttamento o l’auto sfruttamento del lavoro? O cosa succederebbe se finalmente, complice anche lo stop imposto dalla pandemia, si riflettesse sulla struttura speculativa del sistema turistico di questo Paese, in cui dietro le apparenti eccellenze si nascondono realtà endemiche di sfruttamento? Sono questi gli argomenti che milioni di lavoratori e lavoratrici si aspettano di vedere proposti sui tavoli di discussione dai leader politici di una sinistra che non ha ragione di esistere se non si occupa di giustizia sociale ed economica.
Anche per questo la sinistra sta scomparendo, afflitta dall’incapacità di proporre soluzioni coraggiose e giuste nell’arena del confronto politico. È ormai un anno che gli elettori del Partito democratico e di Liberi e Uguali aspettano di vedere quella discontinuità promessa da Nicola Zingaretti all’inizio della nuova stagione di governo. Nel frattempo, i decreti sicurezza voluti da Salvini continuano a rimanere in piedi, le persone a morire in mare e nei campi, disperate per la mancanza di diritti. Il progressismo borghese fa molta fatica a fare i conti con il suo fallimento, acuito con la pandemia da Coronavirus che ha mostrato il volto misogino e razzista della sua cultura di riferimento. Anche i grandi sindacati parlano ai politici e ai potenti, ma fanno sempre più fatica a rivolgersi alle persone comuni. Non c’è da stupirsi, in un quadro simile, che sempre più italiani e italiane guardino ad Aboubakar Soumahoro come il leader più credibile, più attrezzato e più sincero per poter guidare un riscatto di dignità e giustizia in questo Paese: c’è bisogno di lui per recuperare la speranza in un cambiamento. C’è bisogno di lui e di tante altre e tanti altri leader che ne seguano le orme.