In prima linea nei conflitti, le foto di Gabriele Micalizzi raccontano la cruda realtà della guerra - THE VISION
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L’11 febbraio del 2019 il fotoreporter milanese Gabriele Micalizzi è diventato noto al grande pubblico per essere sopravvissuto all’impatto di un missile lanciato dai combattenti dell’Isis in Siria, durante una delle tante guerre che ha voluto documentare negli ultimi quindici anni. Appostato con la sua macchina fotografica con alcuni militari di vedetta al seguito delle Forze Democratiche Siriane che combattevano per liberare gli ultimi villaggi occupati dall’Isis, è stato colpito di striscio, protetto dal soldato che aveva di fronte. Oltre alla vita, ha rischiato di perdere la vista, salvata dalla scocca della macchina fotografica che impugnava e da un intervento d’urgenza al ritorno in Italia, per fortuna con solo una falange in meno della mano destra. Ora guarda nel mirino con l’occhio sinistro e scatta con un altro dito.

Non è stata la prima volta in cui Gabriele ha rischiato la vita, ma sicuramente quella in cui ci è andato più vicino. Era già successo in Egitto, nel 2011, mentre stava in piedi su uno spartitraffico in piazza Tahrir, per documentare la rivolta contro Mubarak e lo scoppio delle Primavere arabe, un bersaglio perfetto nel cuore degli scontri tra due schieramenti che hanno dato il via a uno dei fenomeni che più hanno segnato la geopolitica d’inizio decennio. Calci, pugni, coltellate, spari, molotov sono stati il suo reale battesimo di guerra, dopo un primo viaggio in Afghanistan meno complesso del previsto e un’esperienza nella guerriglia urbana thailandese. La domanda che sorge spontanea guardando le sue immagini – scoprendo il racconto che c’è dietro, fatto di rischi e sacrifici – è: “Gabriele, perché lo fai?”. La sua risposta è spontanea, sintetica e appare tanto ambiziosa quanto scontata: “Per la Storia”. Una storia che continua a procedere e insieme a ripetersi e per questo va raccontata. In quelli che sono i teatri di conflitto, infatti, nessuna vittoria è mai definitiva, come dimostra il ritorno dei talebani in Afghanistan e la situazione in Ucraina. 

“Quello che mi dà forza ogni giorno, e penso sia così per molti giornalisti,” mi spiega meglio Gabriele – nato a Milano nel 1984, con una moglie, due figlie, poco tempo per la vita privata e molti sacrifici e privazioni – “è il pensiero di non lavorare tanto per un magazine, ma per la Storia in sé”. Reporter di conflitto dal 2008, in quello stesso anno fonda insieme ad Alex Majoli, Andy Rocchelli [ndr. morto nel 2017 durante un servizio nel Donbass, lasciando un segno nella memoria di molti reporter, in particolare del suo migliore amico che me lo racconta, mentre viaggia in macchina dopo un servizio] e altri fotografi il collettivo CESURA, con sede a Pianello Val Tidone, sui colli piacentini, lontano dal caos della città e dove confrontarsi sulla ricerca artistica, sui dilemmi etici, su come raccontare i fenomeni sociali che scuotono e riguardano la contemporaneità. Qualche anno prima Gabriele aveva fatto esperienza nel giornalismo locale milanese per un’agenzia fotografica che gli affidava soprattutto i casi di cronaca nera, imparando a non lasciarsi impressionare dal sangue e dalla violenza e che arrivare prima degli altri può fare la differenza. Qualche anno dopo, nel 2016, ha vinto la prima edizione di Master of Photography, un programma alla MasterChef con Oliviero Toscani a designare in seguito a prove sempre più complesse il miglior fotografo italiano.

Nel periodo post convalescenza, dopo l’incidente del 2019, anche a causa della pandemia, Gabriele è tornato come ai tempi della gavetta a lavorare sul territorio milanese, seguendo tra i vari lavori anche la situazione tra droga e prostituzione del parchetto di Rogoredo – famosa piazza di spaccio nei pressi dell’omonima stazione. I progetti commerciali per fotografi italiani e internazionali che si specializzano nel reportage dalle zone di conflitto sono il contraltare necessario che permette loro di finanziare i viaggi prima ancora di ricevere un incarico, che in realtà arriva sempre meno spesso, perché è meno rischioso comprare il lavoro dei reporter una volta che è già stato realizzato, senza prendersi alcuna responsabilità sulla loro vita e sui rischi che corrono.

Per seguire e documentare i conflitti armati ci vuole un’oggettiva predisposizione. “Ho sempre avuto un carattere irrequieto e impulsivo,” mi racconta Gabriele, che prima di scegliere la macchina fotografica era stato tatuatore e writer, in Italia e all’estero. Si vede nelle sue immagini, raccolte sempre nel bel mezzo della scena, in prima linea, in movimento, in fuga da qualcuno o da qualcosa, spesso, a costo della vita,  accanto ai soldati o ai possibili bersagli. Come diceva uno dei reporter più noti di tutti i tempi, Robert Capa, ucciso da una mina: “Se le tue fotografie non sono abbastanza buone, significa che non sei abbastanza vicino”. Nelle foto di Gabriele Micalizzi si vede la polvere alzarsi tra gli spari dei mortai o i fumi dei gas lanciati per disperdere le folle, si scorgono le bandiere e i bastoni di chi manifesta tutt’intorno e le macchie di sangue e sudore di vittime e combattenti, si respirano l’adrenalina e la paura di chi non ha alternative alla guerra. In queste immagini, dalla Libia all’Ucraina, dalla Siria all’estremo Oriente, non c’è pietà né catarsi, si percepiscono il freddo della tundra e dei cadaveri, il calore delle macerie appena esplose e la stanchezza di chi resta. “Mi è stato insegnato a essere un autore, ad avere un forte punto di vista: non tanto perché uno influisca sulla storia che sta raccontando, ma perché il modo in cui la racconta –  ogni dettaglio, ogni inquadratura – è fortemente identitario”. In fotografia, infatti, per Gabriele non c’è nulla di oggettivo e l’autorialità appare quindi fondamentale. “Per svilupparla,” mi dice, “bisogna guardarsi dentro, riconoscere la propria persona”. 

“La paura manca solo ai folli,” continua. “In guerra il rischio non si può davvero mai calcolare, per quanto si sia esperti,” ma diventa comunque fondamentale trovare le proprie strategie per gestire ansia, pensieri ed emozioni. “Siamo lì per raccontare, e dobbiamo sempre tenerci un passo indietro a livello emotivo. Si impara con il tempo”. L’accettazione della morte viene di conseguenza. Non bastano l’istinto e l’esperienza, o un buon fixer [ndr. persona locale che dietro compenso organizza gli spostamenti, l’accesso a contatti e spesso anche le traduzioni in lingua di un reporter straniero], ci vogliono tanto studio, competenze di geopolitica e basi culturali solide per leggere gli eventi e muoversi nella giusta maniera all’interno di un Paese straniero. Quando si è in viaggio va documentato tutto, comprese le scene più crude. 

L’etica del fotogiornalista interverrà una volta tornati a casa, nel decidere che alcune di quelle immagini sono troppo scabre per essere mostrate. Così, come sostiene Gabriele, il fotografo finisce per essere non tanto le fotografie che scatta, ma quelle che sceglie di non pubblicare.


Questo articolo fa parte di PARALLAX, il nuovo Vertical di THE VISION dedicato alla fotografia e al fotogiornalismo, e realizzato in collaborazione con Fujifilm Italia. L’intervista a Gabriele Micalizzi è stata curata da Alessandra Lanza.

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