Non credo che esista una persona nel mondo contemporaneo che non abbia mai avuto almeno un poster appeso nella sua cameretta da teenager. Che si tratti di uno sportivo, di una boy band, di una cantante pop o della locandina di un film è davvero difficile immaginarsi un luogo di intimità adolescenziale spogliato da quegli altarini carichi di ammirazione e venerazione, desiderio di emulazione e speranza per un futuro simile. Che si tratti di pezzi di carta con su stampato un idolo musicale da collezionare grazie a un numero di Cioè o anche solo l’affezione che si prova a una certa età per figure di riferimento da idolatrare, siamo cresciuti in un contesto culturale, quello del secondo dopoguerra, fatto principalmente di simboli, immagini, sovraesposizione: dall’arrivo della televisione in poi, è impossibile non venire bombardati dalla presenza di personaggi a cui, in un modo o nell’altro, ci affezioniamo. Con la musica questo processo avviene in modo particolarmente intimo e viscerale, dal momento che è facile trovarsi a pensare che quel cantante, quella band, quell’artista stesse parlando esattamente di noi, se non addirittura con noi. Nella mia esperienza, questo senso di legame spirituale ed estetico – e in molti casi anche sentimentale, non nascondiamoci dietro a un dito, chi non è stato fangirl? – è avvenuto con molti musicisti e musiciste, ma in particolare con una band che, potremmo dire senza problemi, rappresenta la quintessenza di questo modo contemporaneo di concepire non solo l’arte ma anche gli artisti, ossia i Beatles. E come tutti i fan dei Beatles, oltre a sviluppare un’ossessione per il dettaglio di qualsiasi traccia rilasciata dalla band di Liverpool e una vera e propria devozione alla loro musica che mi ha spinta sino a un pellegrinaggio nella loro città natale, odiavo Yoko Ono.
Negli ultimi giorni, tra le varie notizie di fine estate, si è tornato a parlare di John Lennon e del suo assassino, Mark David Chapman, e del prolungamento della sua carcerazione. Era inevitabile dunque che non si tornasse a parlare anche della vedova di Lennon e, per non deludere le aspettative, anche stavolta il punto della questione si è focalizzato su di lei: “La pacifista che tifa ergastolo”, titola per esempio un pezzo del giornalista e presentatore Nicola Porro, snocciolando sul suo blog tutte le ragioni per cui in sostanza è legittimo odiare Yoko Ono e chiedersi chi sia costei con fare sprezzante.
Tornare a riflettere su un personaggio che avevo ormai archiviato, così come ho riposto la collezione di vinili dei Beatles in un armadio – senza ovviamente perdere l’amore per questa band, ma di certo ridimensionando l’ossessione compulsiva per l’oggettistica correlata – è stato interessante, dal momento che ho potuto apprezzare ciò che potrei definire un’evoluzione nel mio pensiero a riguardo, cosa che non posso purtroppo dire di molti altri. Se da adolescente, infatti, la correlazione tra l’esistenza di Yoko Ono sul pianeta Terra e la fine dei Beatles si fondava sulla logica inoppugnabile del “Era una strega che ha rovinato tutto”, oggi per fortuna riesco ad andare un po’ più in là, motivo per cui mi sono abbondantemente interrogata non solo sulla nascita di questa leggenda malefica e ultra semplicistica – di cui in rete si parla molto con interi thread dedicati – ma anche sul rapporto stesso che c’è tra noi “persone normali” e i poster che abbiamo appeso nelle camerette, che definiscono in qualche modo la nostra percezione della realtà, nel bene e nel male.
Mettendo da parte la questione che riguarda un ergastolo, un omicidio avvenuto a New York quasi quarant’anni fa e tutto ciò che ne è conseguito a livello mediatico e simbolico, vista la grandezza di John Lennon nell’immaginario pop del Novecento, rimane il fatto che ancora oggi, per moltissime persone, Yoko Ono sia un mistero talmente fitto e incomprensibile che si è deciso all’unisono di attribuirle un ruolo preciso, ossia quello del parafulmini per la frustrazione malsana e incontrollabile che si genera dall’adorazione di un mito e l’offuscamento della razionalità che ne consegue.
Esattamente come per una religione in cui il mistero della fede funge da risposta a molti quesiti spinosi, anche per quanto riguarda l’odio e il fastidio per Yoko Ono – la radice di questo male condiviso e di cui io per prima mi ritengo colpevole – ha origine nella parte più irrazionale del nostro giudizio. Dal momento che di Yoko Ono in sé, cioè della donna nata in Giappone nel 1933, si tende a parlare sempre poco, mentre si parla molto di come la sua presenza abbia determinato la fine di un’amicizia e di un sodalizio artistico incredibilmente prezioso come quello tra Lennon, McCartney, Harrison e Starr.
Se i Beatles sono infatti l’incarnazione perfetta della mitologia contemporanea, del divismo portato alla sua massima espressione – nonché forse nella sua epoca e declinazione migliore, quella degli anni del boom e delle rivoluzioni – Yoko Ono è la personificazione di un’idea ingenua e primordiale di donna, tanto da essere definita appunto una strega, che corre in aiuto di una semplificazione estrema della realtà. I Beatles sono il bene, Yoko Ono il male. Quattro musicisti di Liverpool sono i miei miti, i miei riferimenti, i miei idoli, una donna giapponese che non capisco nemmeno bene cosa faccia ha guastato la festa, rovinando il gioco a tutti con i suoi sortilegi.
Tutti cerchiamo dei punti di riferimento, delle bussole che ci indirizzino verso la comprensione di una storia, e non c’è dubbio che Yoko Ono, dal canto suo, non abbia negli anni contribuito alla crescita esponenziale di questa sua demonizzazione con una serie di comportamenti discutibili. C’è la questione Julian Lennon, per esempio, il figlio di John che ha dovuto comprare all’asta i cimeli di suo padre; c’è la questione legata alla firma dei brani in ballo con Paul McCartney. Ci sono di certo una serie di elementi che, come nella vita di chiunque, rendono Yoko Ono un essere umano dotato sia di intenzioni positive che di sentimenti egoistici, ma ciò continua a non essere sufficiente per spiegare la mole d’odio che l’ha ricoperta negli anni.
Yoko Ono, senza entrare troppo nel merito della sua produzione artistica, è stata un membro attivo della scena americana sperimentale, proponendo performance come la famosa Cut Piece, in cui sul palco si faceva tagliare i vestiti dal pubblico per simboleggiare la mercificazione del corpo femminile. Simbolo della musica, del rock, della rivoluzione di costume che era in atto negli anni Sessanta da un lato, artista simbolica e concettuale che destrutturava il linguaggio e le sue espressioni dall’altro, non è così strano che John Lennon e Yoko Ono si siano innamorati al punto da diventare una cosa sola. Solo che, per quanto romanzata possa essere la storia dei Fab Four, a separarli non fu una strega ma, come tutto nella società consumistica e materialista che loro stessi criticavano, i soldi.
Chiunque conosca bene i Beatles sa che già negli ultimi album si percepisce chiaramente la spinta individuale di ciascuno di loro, l’esigenza – incompatibile con l’enorme successo planetario della band – di poter continuare senza che un ego ipertrofico si scontrasse con l’altro. Inoltre, c’era anche una questione molto più concreta e noiosa che riguardava la scelta del nuovo produttore dopo la morte di Epstein e altri mille dettagli contrattuali, imprenditoriali e per nulla romantici che si sono frapposti tra i Beatles e gli anni Settanta – per fortuna, aggiungo io, visto il rischio in cui cade una cosa molto bella trascinata per troppo tempo.
Se John Lennon viveva in simbiosi con Yoko Ono e se questa aveva accesso a tutto ciò che riguardava i Beatles, il problema dunque non era certo la sua invadenza, ma semmai cos’erano diventati loro come band. Quel fastidioso sentimento da “Bros before hoes” che riguarda in particolare il modo in cui gli uomini percepiscono la minaccia di un’intrusione femminile in un branco chiuso è il sottofondo di tutta questa vicenda. Perché è molto più facile attribuire la colpa a un simbolo – perlopiù femminile, e quindi tradizionalmente circondato da quest’aura di stregoneria – che ammettere che un mito si sia infranto o che sia semplicemente diventato qualcos’altro. Cosa che tra l’altro è avvenuta anche in altre storie musicali, come per esempio quella di Kurt Cobain e Courtney Love, prontamente eletta a causa della sua morte dalla fanbase del cantante grunge: non l’eroina, non la depressione, non il disagio palpabile in tutte le note e le parole da lui scritte, ma Courtney Love.
La questione Yoko Ono come simbolo supremo dell’odio irrazionale verso qualcuno che ci appare incomprensibile ci pone davanti a un interrogativo sul presente che può essere interessante, perché non solo smaschera le tendenze più istintive dello spettatore – quelle più facili da pilotare, e di cui non a caso diversi politici si servono oggi senza alcun pudore o ritegno – di fronte a qualcosa che non capisce o non vuole capire, ma anche quanto solida sia l’esigenza di una narrazione favolesca e falsata della realtà.
Yoko Ono in quanto simbolo – e quindi non la moglie a cui hanno assassinato il marito sulla porta di casa, non l’artista che girava nuda davanti ai fotografi, non la cantante che urlava versi incomprensibili – è la parte più becera e infantile del nostro desiderio, quella che cerca incondizionatamente una divisione netta tra bene e male, quella che è crollata nel momento in cui sono venuti fuori scandali sessuali a Hollywood e ci ha fatto strabuzzare gli occhi davanti a tutti i personaggi coinvolti in un coro di indignazione di fronte a un re nudo che noi avevamo vestito di impeccabile moralità per puro wishful thinking – e invece, sorpresa, non è quasi mai così.
John Lennon non era un santo né un santone né un guru, era un musicista straordinario. Yoko Ono non è una strega né una maledizione che si è abbattuta sulla band più famosa di sempre, ma un’artista che ha sposato uno dei personaggi più iconici di sempre. Continuare a utilizzarla come parafulmini rabbioso significa continuare a perdere di vista il punto: i nostri idoli sono poster, sono volti sulle magliette, sono album che ascoltiamo fino alla nausea, ma non sono altro che figure, proiezioni di ciò che devono sembrare, a volte in modo più sincero a volte in modo totalmente fittizio. Il nostro compito da fan, spettatori ed estimatori non è quello di pretendere che la storia prenda la piega che vogliamo noi, magari riversando decenni di odio superficiale e misogino verso una donna come Yoko Ono, o meglio verso ciò che rappresenta; il nostro compito è semmai liberarci da stupide leggende e rispettare la vita privata di persone che non conosciamo e mai conosceremo per non alimentare ancora questo cliché insopportabile della donna strega che guasta la festa. Perché le relazioni tossiche e gli stalker esistono, la stregoneria e le maledizioni giapponesi no.