A chiunque si sia ritrovato, almeno una volta nella propria vita, in un ambiente culturale “alternativo” – qualunque cosa quest’espressione significhi – o a contatto con persone che ascoltano musica rock, frequentano festival o comprano vinili, sarà capitato di imbattersi almeno quella volta in una di quelle magliette tutte nere su cui pulsano alcune sottili radiazioni bianche.
La probabilità che a un qualsiasi concerto in un qualsiasi circolo Arci ci sia almeno una persona con indosso la suddetta t-shirt è talmente alta da aver generato diversi meme sul tema. L’immagine in questione, divenuta parte di un’iconografia precisa da sbandierare come marchio d’appartenenza al lato giusto della barricata dei gusti musicali, è la copertina di un album che potremmo definire un’opera d’arte e che ha cambiato per sempre certi canoni della nostra cultura pop. Unknown Pleasures, infatti, non rappresenta solo il debutto di una band divenuta famosa praticamente ovunque nel mondo, i Joy Division, ma un vero e proprio punto di svolta per tutto quello che è venuto dopo a livello sia di composizione che di contenuti. Quarant’anni dopo la sua uscita, il 15 giugno del 1979, il primo album di un gruppo di ventenni di Manchester che a stento sapevano reggere gli strumenti ha segnato il passaggio da un’epoca musicale a un’altra, profondamente influenzato e connesso al contesto storico e sociale in cui ha avuto genesi, eppure destinato a non invecchiare.
Di quel periodo, infatti, la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, non è facile riuscire a estrapolare contenuti che non siano divenuti stantii o che non diano oggi l’impressione di essere datati, fin troppo pregni dello spirito del tempo che hanno abitato per non essere rivisti anni dopo come una sorta di caricatura. I Joy Division si collocano all’alba di uno dei decenni più cupi e dimenticabili del Regno Unito, quello thatcheriano, denso di repressioni, guerra, privatismo e di quel sentimento di odio viscerale che provano ancora molti inglesi verso la famosa Iron Lady – tanto da distribuire volantini di giubilo che alludono al Mago di Oz nel giorno della sua morte, “The witch is dead”. La band inglese, in questo contesto non proprio roseo, in una città industriale che era ancora ben lontana dall’idea di rinascimento culturale e sociale, ha dato alla luce una di quelle opere che riescono a essere al contempo pregne e rappresentative del momento in cui sono state concepite, ma anche universali e “riciclabili”. Unknown Pleasures, al contrario delle giacche in acetato fluo che al massimo possiamo ritirare fuori in chiave ironica, ha quella invidiabile e tanto ricercata capacità di mettere d’accordo quasi tutte le generazioni, o perlomeno quelle abbastanza vicine da poter avere un dialogo musicale. E come quasi tutte le opere che riescono in questa operazione ai limiti della fantascienza – di unire e non dividere il genere umano – alla base non c’è altro che la casualità.
Quella di come sia venuto alla luce quarant’anni fa Unknown Pleasures è una storia abbastanza comune nel mondo della musica rock alternativa: un gruppo di appena ventenni suona nel tempo libero, mette un annuncio alla ricerca di un cantante e a quell’annuncio risponde Ian Curtis, all’epoca un ragazzo sposato che lavora nei servizi sociali come assistente per disabili. Alle spalle di questo progetto c’è un movimento che ha di recente invaso il Regno Unito, aprendo le piste per una nuova era della musica leggera, che si veste di borchie e anfibi per spaccare gli strumenti ed esibirsi con canzoni pessime, scritte intenzionalmente male. Il punk dei Sex Pistols e di tutte quelle altre band che negli anni Settanta hanno deciso di fare il dito medio alla Regina e alle istituzioni in generale è la base per tutto ciò che diventerà la produzione artistica degli anni a venire – se non da un punto di vista formale e contenutistico, sicuramente per la rottura netta con certi schemi. Ma la musica dei Joy Division, sebbene si muova in quel contesto di rivoluzione e rottamazione di vecchie imposizioni ritenute limitanti e borghesi, ha un ingrediente nuovo che aggiunge il fattore determinante della loro innegabile rilevanza storica: non si tratta solo di sputare sulle icone e di suonare il basso come se fosse un manico di scopa da imbracciare e percuotere, ma ci si cala più giù, a fare un giro in una dimensione inesplorata e oscura. È l’inizio del post-punk, il punto di partenza per un decennio in cui convivono in modo schizofrenico paillettes, traslucenza e consumismo sfrenato di eroina, buio e depressione profonda.
Se si parla dei Joy Division, del fatto che si tratti di una band così importante, è impossibile non tenere conto della storia di Ian Curtis. Non che gli altri membri del gruppo – Bernard Sunmer, Peter Hook e Stephen Morris – siano da meno, considerato che hanno poi fondato un’altra delle band più influenti degli anni Ottanta e Novanta, i New Order. Ma la loro parte del racconto è inevitabilmente oscurata dalla peculiarità di quella del cantante, per una serie di motivi che, se da un lato hanno determinato la tragedia personale di un ragazzo morto suicida a ventitré anni, dall’altra fanno sì che si tratti di una di quelle biografie tanto dense da sembrare scritte apposta per creare un nuovo mito. Un mito che in questo caso è quello del disagio esistenziale insanabile di Curtis, messo nero su bianco nei suoi testi e cantato con un timbro vocale distinguibile tra milioni di voci. Nella sua raccolta di scritti del 2014 Ghost of my life, il filosofo, saggista e blogger Mark Fisher, anche lui morto suicida nel 2017 dopo anni di depressione, dedica un capitolo ai Joy Division e in particolare alla malattia mentale di Ian Curtis, riassumendo in modo emblematico il senso della carriera di questo cantante e del modo in cui tutto quel senso di vuoto e inadeguatezza, accompagnato dalle crisi epilettiche, abbia preso forma nella musica di Unknown Pleasures e poi di Closer, uscito solo dopo la morte del frontman. Fisher racconta come la musica dei Joy Division abbia avuto l’incredibile capacità di racchiudere in sé tutto quel senso di disperazione catatonica verso un futuro impossibile, verso il crollo delle certezze che aveva luogo in quel presente ancora attuale, nel momento di passaggio dall’occidente fordista, socialdemocratico e industriale, a quello neoliberista, informatizzato e ultra consumistico. “There’s nothing except the inside, but the inside is empty”. La sensazione che quei due anni in cui Ian Curtis ha scritto e poi cantato i famosi testi della sua band siano una sorta di punto di inizio per una crisi globale non è solo un vago sentore percepito: il corso della nostra storia e gli eventi che si sono susseguiti, i cambiamenti che la nostra società ha imbracciato, sono tutt’ora palpabili e caratterizzanti del nostro milieu.
Non che Curtis fosse il primo musicista rock a scrivere e a cantare di tristezza, disagio, malinconia. Lou Reed, Iggy Pop, Jim Morrison: i cantori del nichilismo, ovvero gli idoli di Curtis, ci avevano già pensato negli anni Settanta a dar voce a questo senso di inadeguatezza. Ma la loro infelicità e frustrazione esistenziale aveva sempre una fonte, una causa che la determinasse. Il senso di vuoto e rassegnazione, la mancanza di illusioni, di desideri, di pulsioni vitali raccontati da Curtis sono invece qualcosa di nuovo: è la descrizione di una malattia mentale, della depressione e del bipolarismo da cui il cantante era affetto e di cui poi morirà giusto appena prima di cominciare un tour negli Stati Uniti e di decollare veramente come band – cosa che succederà comunque, ma quando lui sarà già morto. Non c’è sentimento se non quello della vacuità, non c’è un oggetto causale che stia al centro della sofferenza malinconica e impotente suonata dai Joy Division, ma solo questo profondo e oscuro senso di inguaribile impotenza, messo per iscritto in testi che se fossero stati interpretati con più attenzione probabilmente avrebbero dato il segno chiaro di ciò che sarebbe avvenuto di lì a breve con il suicidio di Curtis. Eppure, come sempre capita quando un artista è tormentato da qualcosa di irrimediabile, la presenza nella sua vita di depressione ed epilessia si è convertita in modo perfetto nel materiale grezzo per la sua creatività. Per questo strano, ironico e tragico gioco in cui noi ascoltatori e spettatori possiamo godere di una catarsi di riflesso attraverso la sofferenza di chi le ha dato forma in un’opera d’arte, anche la musica di Ian Curtis e dei Joy Division è al contempo straziante per ciò che racconta ma bellissima per il modo in cui lo fa. Così come è sia disturbante che affascinante guardare il cantante muoversi sul palco come se fosse in preda a una delle sue crisi epilettiche, mentre dà forma fisica sia alla sua malattia impossibile da nascondere che a quella interiore, invisibile ma presente in modo fin troppo invadente. She’s lost control, una delle canzoni più famose dei Joy Division, parla proprio di una ragazza che Curtis aveva conosciuto in un centro di assistenza per disabili, anche lei affetta di epilessia e anche lei incapace di contenere questo mostro.
Ma i Joy Division non sono soltanto una band che ha dato una forma musicale a temi come la depressione, l’alienazione e il senso di disagio sociale delle città industriali del Nord del Regno Unito. Nelle loro canzoni, e nella grande rivoluzione di Unknown Pleasures c’è anche un punto di svolta fondamentale dal punto di vista formale e compositivo. Grazie all’aiuto fondamentale del loro produttore, Martin Hannet, che ha avuto intuizioni geniali come il riverbero applicato al rullante del batterista che rende così caratteristico e distinguibile il sound della band, i Joy Division hanno dato vita nel loro album di debutto e in quello successivo a un’idea di musica pop e rock che appartiene solo a loro, e che è servita di esempio per molti dei loro successori. Quei ritmi incalzanti e incessanti, così ripetitivi da martellare le orecchie di chi ascolta e che fondono suoni analogici con suoni elettronici in modo ancora seminale e scarno; quel modo di tracciare le linee di basso che tagliano i suoni come lame metalliche di qualche industria siderurgica, quella voce baritonale che fa a pugni con le note stridenti della chitarra. Tutte queste suggestioni che si ritrovano oggi in Unknown Pleasures sono le stesse di quarant’anni fa, senza aver perso mai un briciolo del loro valore e della loro importanza per ciò che è venuto dopo. E anche la casualità e l’ingenuità con cui i quattro elementi di questa band hanno tirato fuori un disco così importante e immortale è fondamentale per il suo ruolo nella storia della musica leggera.
Oggi quella copertina è una maglietta da abbinare a una borsa di tela della Rough Trade, ma negli anni Ottanta i Joy Division si erano persino rifiutati di fare merchandising proprio per opporsi all’iper-commercializzazione di qualsiasi cosa. L’ironia della sorte ha voluto che proprio quell’immagine che tanto voleva ribellarsi e distaccarsi dal senso di oppressione consumistica e superficiale sia diventata un simbolo di questa mentalità. Ma Unknown Pleasures prima di essere un logo è soprattutto un disco, e i dischi si ascoltano, non si indossano.