Come “Tommy” degli Who racconta ancora oggi il disagio della nostra generazione

È il 1965, e il quartiere londinese di Belgravia è un punto di ritrovo decisamente troppo costoso per la working class che tira a campare ai margini della città. È un sobborgo esclusivo per pochi eletti, in cui svettano enormi ville bianche in stucco e terrazze da capogiro. Belgravia è il nuovo parco giochi degli altoborghesi che animano la City, progettato ad hoc per attirare i notabili e le alte sfere della metropoli. Anche il ventenne Pete Townshend, chitarrista e leader degli Who, una delle band più promettenti dell’intera scena britannica, si è trasferito nel quartiere di recente, riversando i primi proventi della sua attività musicale nell’affitto di un lussuoso appartamento da 12 sterline a settimana, a due passi da Chesham Place. Per Pete, un musicista ventenne completamente assorbito dalla Swinging London, dalla subcultura Mod e dai primordi delle pulsioni rivoluzionarie che sfoceranno nel Sessantotto, l’ambientamento nella nuova realtà non è per nulla semplice: ai suoi occhi, i professionisti che sfilano per le strade di Belgravia appaiono come spettatori inconsapevoli, degli inetti intrappolati nel passato: nessuno sembra rendersi conto che, di lì a qualche anno, la società inglese – ed anzi, l’intero Occidente – vivrà uno sconvolgimento senza precedenti.

Il 13 ottobre di quell’anno gli Who si riuniscono negli IBC Studios di Portland Place per incidere un brano destinato a diventare un vero e proprio inno generazionale. La canzone l’ha scritta Pete, durante i lunghi viaggi in autobus che scandirono il tour estivo della band in Olanda e Scandinavia. Come riportato dallo stesso Townshend nella sua autobiografia Who I Am, l’ispirazione per la stesura del testo gli venne durante una delle sue malinconiche passeggiate nel quartiere di Belgravia: “La maggior parte dei giovani che abitavano intorno a me in quel ricco quartiere di Londra studiava da futura classe dirigente, da potenti di domani. Le loro abitudini e aspettative obsolete mi sembravano trappole mortali, mentre io mi sentivo vivo e non solo perché ero giovane. Ero vivo davvero perché svincolato dalle tradizioni, dalla proprietà e da certe responsabilità”.

Il singolo si intitola “My Generation”, ed è un’accusa diretta attraverso cui Pete vuole trasmettere il proprio disgusto verso il conservatorismo e la spocchia dei propri vicini di casa ai suoi coetanei, che vivono ben al di là dei salotti patinati di Belgravia, nei quartieri operai di West London. Il brano fa esplodere un conflitto generazionale latente e introduce elementi di innovazione atipici per i tormentoni da hit parade del tempo, come l’iconico assolo di basso di John Entwistle e l’esplosione di rabbia contenuta nel verso che Roger Daltrey urla a squarciagola a conclusione di ogni strofa (“spero di morire prima di diventare vecchio”). Gli Who hanno scelto la strada più tortuosa e hanno fatto centro: sono riusciti a piazzare nelle prime posizioni delle classifiche britanniche un brano orecchiabile ma dall’immensa valenza politica e sociale, apertamente anticlassista e con una verve polemica ben visibile, ben lontano dall’autoreferenzialità delle solite canzoni d’amore fini a se stesse di molti colleghi del tempo: “My Generation” fa da apripista al movimento punk e diventa la colonna sonora di una generazione che si sente tradita.

Quattro anni dopo, quando la band è ormai consacrata al successo mondiale, Townshend avverte la necessità di compiere un ulteriore passo in avanti in termini di sperimentazione: non vuole realizzare l’ennesimo contenitore composto da una decina di canzoni sconnesse tra loro, ma ibridare musica e letteratura per provare a raccontare delle storie compiute. Il risultato sarà la pubblicazione di Tommy, quarto album in studio degli Who e primo esempio di rock opera in senso stretto, preceduto soltanto da alcuni esperimenti embrionali come S.F. Sorrow dei Pretty Things. L’album narra delle vicende di Tommy Walker, un bambino nato nel primo dopoguerra, del suo talento ultraterreno nel flipper e del suo percorso verso l’illuminazione. Con Tommy, il confine tra musica e letteratura sfuma definitivamente: l’album si trasforma in un medium narrativo autosufficiente, in grado di raccontare una storia con una struttura coerente e dei personaggi ben caratterizzati.

Tommy è il culmine di un lungo processo di maturazione artistica, incentivato dal manager degli Who, Kit Lambert, strenuo sostenitore del fervore creativo di Townshend. Pete aveva già dato prova delle proprie abilità di composizione e scrittura in Quads, una rock opera prototipica, ambientata in un futuro distopico in cui i genitori possono scegliere arbitrariamente il sesso dei propri figli. Anche The Who Sell Out (1967), il primo concept album della band, inno d’amore alle stazioni radio pirata che operavano off-shore nel Regno Unito, è ben rappresentativo della genialità del leader degli Who: i brani che lo compongono sono intervallati da finti spot pubblicitari in cui Townshend e soci tentano di vendere ai propri ascoltatori qualsiasi tipo di cianfrusaglia, come un flacone di deodorante Odorno, una confezione di fagioli in scatola Heinz, un tubetto di crema idratante Medac o l’ultimo video-corso di culturismo di Charles Atlas, che condensano la più feroce delle critiche alla mercificazione culturale e alla riduzione dell’arte a mero prodotto di consumo.

La volontà di uscire dalla comfort zone delle canzoni da tre minuti di durata non è l’unica motivazione alla base dell’opera. Townshend ha concepito Tommy come un’occasione per chiudere i conti con gli angoli più bui del proprio passato. Il disco è una specie di seduta psicanalitica in cui Pete analizza se stesso attraverso l’epopea di Tommy, resa necessaria da anni di depressione e silenzi prolungati. La vicenda biografica di Townshend permea la quasi totalità delle 24 tracce che compongono il disco: proprio come Tommy, Townshend è un figlio della guerra, pur non avendola vissuta direttamente – è nato infatti il 19 maggio del 1945, due settimane dopo il VE Day e quattro mesi prima della Giornata della vittoria sul Giappone che concluse la seconda guerra mondiale. Ad accomunarli è anche un passato scandito da traumi mai denunciati direttamente: nella sua autobiografia, Townshend fa riferimento alle molestie che subì da uno sconosciuto quando viveva da sua nonna Denny: “Fui mandato a vivere da una nonna mentalmente instabile che rimorchiava uomini nel deposito dei bus e nella stazione della metro davanti casa”, ricorda. Fu proprio uno di quegli signori, un raccapricciante “zio con i baffetti alla Hitler” – molto simile al sadico Uncle Ernie che si diverte a seviziare Tommy nel brano “Fiddle About” – ad abusare di lui, condannandolo a un futuro pieno zeppo di sedute psicoterapeutiche e di dubbi sulla propria sessualità, sulla religione e sulle sue relazioni sentimentali.

Anche la storia di Tommy ha origine da un turbamento. A raccontarlo è il terzo brano dell’album, “1921: Walker”, il padre aviatore della RAF dato per disperso durante il conflitto ritorna a casa dopo quattro anni d’assenza e scopre che sua moglie, Nora, convive con un altro uomo; accecato dalla rabbia, Walker lo uccide, proprio mentre Tommy assiste alla scena dal riflesso di uno specchio. Per tranquillizzarlo, i genitori provano a convincerlo che l’omicidio non sia mai avvenuto: “You didn’t hear it / You didn’t see it / You won’t say nothing to no one / Never in your life”. Traumatizzato dalla morte di quello che credeva essere il suo vero padre, Tommy sviluppa una forma di autismo che lo priva della vista, dell’udito e della voce, acquisendo le sembianze di quel “Deaf, dumb and blind boy” citato in diversi brani del disco.

L’ulteriore fattore di comunanza tra i due è la ricerca di una via di fuga da una condizione di alienazione che sembra ineluttabile: mentre Pete individua la propria ancora di salvezza nella musica, Tommy trova conforto soltanto dalle vibrazioni che provengono dal flipper: il suo talento da “Pinball Wizard”, raccontato nell’omonima canzone, gli offre una possibilità di riscatto importantissima e gli insegna a guardare il mondo da una prospettiva precedentemente sconosciuta.

Tommy risente anche dell’avvicinamento di Townshend alla filosofia orientale, in particolare agli insegnamenti del maestro spirituale indiano Meher Baba. L’influenza di Baba è esplicita nel finale dell’opera, quando Tommy riacquista udito, vista e voce e la sua esperienza sensoriale di liberazione lo trasforma in una sorta di entità messianica adorata da una fitta schiera di discepoli. L’incontro spirituale tra i due ebbe luogo nel 1967, quando Pete assunse la sua ultima pasticca di LSD sull’aereo di ritorno dal Festival di Monterey, subendo un bad trip talmente potente da indurlo a salutare per sempre il mondo degli allucinogeni e a individuare altrove una risposta al dolore che lo tormentava. L’avvicinamento alla dottrina di Baba avvenne quando il suo amico Mike McInnerney (che disegnò l’artwork di Tommy) gli regalò The God Men, un saggio del giornalista britannico Charles Purdom in cui venivano analizzati proprio i discorsi di Meher Baba. Townshend rimase colpito dallo sciopero della parola che Baba intrattenne dal 1925 al 1969, anno della sua morte: “Il silenzio di Meher Baba era pieno di immaginazione. Era un monito più forte e rivoluzionario di tante parole e di tanta musica rock. Il suo è stato un grido silenzioso e nitido, una riflessione sul mondo e sull’esistenza molto ampia, universale. È ciò che pensai per Tommy”. Townshend strinse un legame fortissimo con Baba, tanto da considerarlo il nume tutelare e il principale ispiratore di Tommy, dedicargli un bellissimo articolo pubblicato sulla rivista Rolling Stone e il singolo “Baba O’Riley”.

Sono trascorsi cinquant’anni dalla pubblicazione della prima rock opera della storia: gli echi psichedelici della Summer of Love di San Francisco sono ormai lontanissimi e i baby boomers sono animati da pulsioni decisamente meno rivoluzionarie, ma Tommy ha superato a pieni voti la prova del tempo ed è ancora uno dei migliori trattati sull’alienazione mai prodotti. Anche se le sue sonorità potrebbero risultare demodé all’orecchio di un ascoltatore di oggi, il messaggio espresso dal quarto album in studio degli Who è estremamente attuale. Ora come nel 1969, l’incomunicabilità rimane una delle grandi piaghe del nostro tempo, ed è ancora una delle disfunzioni sociali maggiormente approfondite in moltissime opere audiovisive contemporanee. La situazione di isolamento di Tommy ricorda quella in cui si trova BoJack Horseman nella puntata-capolavoro Fish Out of Water quando, durante la première di un festival cinematografico sottomarino, incontra Kelsey, la regista che ha fatto licenziare anni prima. BoJack avrebbe la possibilità di riappacificarsi con lei, ma il bigliettino su cui appunta la sua struggente richiesta di perdono (“In questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo”), e che potrebbe liberarlo dal suo senso di colpa, viene irrimediabilmente rovinato dall’acqua, che disperde l’inchiostro e rende le parole illeggibili: il mutismo e la cecità contratti da Tommy, che gli impediscono di tradurre in verbo il proprio disagio, non sono altro che il corrispettivo metaforico delle difficoltà relazionali e dell’alienazione con cui facciamo ancora i conti tutti i giorni.

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