Quando ero adolescente giocavo in una piccola squadra di pallavolo della mia città, Catania, e ogni volta che c’era una partita mi sentivo sempre molto in imbarazzo a indossare la divisa. Si trattava di un completo Legea, con quei colori e quei caratteri che trasudano acrilico e provincia: mai avrei pensato che poco più di dieci anni dopo avrebbero invece assunto tutt’altro significato, quasi un passepartout per una dimensione comunicativa idiosincratica tra persone che sono sempre al passo coi fenomeni di internet. Se oggi dovessi indossare quella tuta Legea azzurra con gli sponsor locali stampati in bella mostra davanti e dietro per qualche evento nelle città dove poi mi sono trasferita per sfuggire a quel senso di periferia del mondo che spesso infonde il Meridione, di certo non farei la figura della pallavolista malcapitata e provinciale. A caricare di senso questi abiti – tralasciando qualsiasi forma di argomentazione rispetto al fatto che sì, i vestiti che indossiamo hanno molto più significato di quello che possiamo fare finta di credere e no, non si tratta semplicemente di flussi incontrollati che si alternano casualmente – contribuisce senza dubbio una certa branca di cultura musicale che sta prendendo piede nell’ultimo anno in Italia, capitanata da un personaggio come Speranza. Il rapper franco-casertano è diventato un simbolo, comunque fedele a una nicchia, incarnando una forma espressiva piuttosto forte, insolita, molto carica sia a livello di immagine che di contenuti che contrastano in modo esplicito con una grossa fetta del suo pubblico. Un pubblico che appartiene a tutt’altro ambiente rispetto a quello da cui proviene questo artista e che di certo, come me, fino a dieci anni fa alle tute Legea al massimo associava le divise di una squadra di calcio di serie B.
Speranza è un fenomeno interessante per svariati motivi, sia per la sua produzione musicale, che per la sua biografia, fino ad arrivare al pubblico che ha saputo richiamare attorno a sé – che, di fatto, serve per stare in piedi come artista anche al di fuori della propria cerchia. Non ci vuole molto per rendersi conto di quanto sia d’impatto la sua musica, basta aprire un qualsiasi video e ascoltare qualche minuto di una sua canzone: la reazione può essere o di sbigottimento e disgusto, o di sorpresa compiaciuta, o entrambe le cose ma in sequenza cronologica, come è stato nel mio caso. I commenti su YouTube in questo senso sono emblematici, tra chi sostiene che le canzoni di Speranza abbiano trasformato il proprio gatto in tigre e altre battute sulla carica espressiva non indifferente del rapper. La curiosità che richiama su di sé questo ragazzo deriva da una serie di componenti, ognuna delle quali presa singolarmente manifesta in modo chiaro tutto il suo potenziale: ha un modo di cantare esagerato, quasi fastidioso ma molto riconoscibile; parla una lingua ibrida, mischiando le sue origini da banlieue francese a quelle da casertano di strada, ma anche al sinti. Racconta il crimine, il disagio sociale profondo della provincia, la povertà e la lontananza dallo Stato nelle sue forme più concrete tipo le sirene di una volante della polizia; veste abiti che contrastano con l’immaginario trapper dominante degli ultimi anni, sostituendo lo sfarzo delle grandi firme con la sfrontatezza di marchi minori come la già citata Legea, Givova, Zeus, diventandone non solo indossatore ma anche alfiere orgoglioso. Speranza è un agglomerato di ingredienti accattivanti e ben mescolati che creano una combinazione irresistibile, specialmente per gli occhi e le orecchie stanche di chi musicalmente pensa di aver già sentito tutto. Motivo per cui, nel giro di meno di un anno, è arrivato persino a comparire sulla line-up di un festival come il Mi Ami, luogo di aggregazione per eccellenza di un pubblico molto attento alle tendenze dell’underground musicale – se così possiamo definirlo – e palco obbligatorio per qualsiasi artista voglia entrare nel firmamento delle cose giuste, di tendenza, conosciute ma non abbastanza da essere etichettate come mainstream.
Non si tratta né di un fenomeno strano né inedito: in un certo senso, Gramsci ne parlava in modo inverso nei suoi Quaderni del carcere quando utilizzava il termine nazional-popolare riferendosi alla letteratura. Nel dibattito culturale della sinistra italiana novecentesca, la questione era la distanza incolmabile tra l’intellettuale e il popolo, l’incomunicabilità, l’incapacità di rendere l’arte accessibile e allo stesso tempo pedagogica e densa di una direzione politica e spirituale da infondere al pubblico di qualsiasi classe. In questo caso invece abbiamo davanti una sorta di inversione diametrale dei due termini, dal momento in cui Speranza, che di intellettuale e colto ha ben poco – è un ragazzo che ha sempre fatto il muratore, lo dice con una genuinità e un orgoglio invidiabili e davvero esemplari in termini di lezioni sulla dignità di classe – richiama l’attenzione di quelle persone che invece hanno studiato almeno un po’, quanto meno abbastanza da poterlo andare a sentire a uno degli eventi più cool della capitale come La Fine, dove si è esibito poco tempo fa davanti a un pubblico tutt’altro che avvezzo alle maestranze edili. Come se la grande riflessione sulla comprensione del popolo e delle sue manifestazioni, e perciò anche delle sue rappresentazioni, trovasse spazio in questa fascinazione pasoliniana per i ceti più bassi e per la sua spontaneità nel mettersi in mostra attraverso un genere come il rap o la trap. Ma anche di questo se ne è già parlato tanto negli anni: David Foster Wallace ci ha scritto un famoso saggio a quattro mani con Mark Costello, Il rap spiegato ai bianchi, che mette in luce proprio questa attrazione per ciò che sembra appartenere a un mondo distante da quello borghese ma al contempo molto affascinante per la sua diversità, quel senso del ritmo che fa muovere persino un uomo bianco incravattato e inquadrato a tempo di hip hop.
Speranza, dal canto suo, riesce a mettere in scena egregiamente questa performance fatta di provincia e vino in cartone. Sui social fornisce al pubblico frammenti quotidiani della sua vita e dei cambiamenti radicali che questa sta subendo: dalla periferia più profonda e malfamata ai tour per l’Italia, che condivide sempre con il suo gruppo di amici storici, ragazzoni in tuta che si divertono negli alberghi come bambini lasciati liberi in un negozio di caramelle. Ugo poi, questo è il suo nome, ha un’inaspettata autoironia che tradisce quell’aspetto e quella musica così duri e aggressivi per le quali non ti aspetteresti mai un profilo così posato, gentile, anche arricchito da un chiaro segno di insicurezza come una leggera balbuzie. Il suo rapporto con la fede è molto sincero, tanto da commentare tramite le stories su Instagram momenti come la Quaresima, creando un ulteriore scorcio di semplicità e di delicatezza.
Come detto, anche la lingua che utilizza costituisce già di per sé un elemento di intrattenimento. Ci siamo abbondantemente fatti sedurre da Liberato, con il suo riutilizzo del neomelodico in chiave fruibile anche per un pubblico che non ascolta Tony Colombo, mescolato a una base di facile trasporto per il frequentatore del Mi Ami, e per questo non è per nulla insolito che i versi di Speranza catturino con altrettanta facilità la nostra attenzione. Specialmente poi se tra un urlo in quello che è senza dubbio il dialetto più musicale d’Italia si intromette anche un francese sporco e prepotente, in una sorta di trionfo del barocco fonetico. E Speranza lo sa bene di avere da parte sua l’arma della molteplicità, una varietà estetica che combina in modo spontaneo ma efficace dal momento che crea un filo conduttore tra luoghi del mondo lontani ma accomunati dalle stesse difficoltà. La criminalità e il disagio sociale sono lo sfondo narrativo di tutto il suo universo poetico, e noi, dall’alto del nostro abbonamento a Spotify Premium, ce lo godiamo affascinati e compiaciuti, come una puntata di Gomorra.
Se dovessimo trovare un termine che racchiuda lo spirito interpretativo del Ventunesimo secolo, e dunque del secolo di internet, probabilmente ironia sarebbe quello più adeguato – o addirittura post-ironia, se proprio vogliamo spingerci all’estremo. Ma questo lo sappiamo già, e lo ripetiamo ogni volta che guardiamo un meme, scriviamo un post, ridiamo di qualche video su YouTube. Sembra passata una vita da quando la Dark Polo Gang era un fenomeno di internet condiviso e apprezzato da quanti sanno ridere delle storture postmoderne in cui siamo immersi fino al collo, compiacendoci della nostra capacità di saper trovare divertente una cosa così grottesca e allo stesso tempo sentendoci parte di un gruppo – la moda, del resto, è coesione e differenziazione, come diceva Simmel. In quel caso però si trattava di un gruppo di ragazzi estratti dai migliori salotti romani, dal cuore pulsante della borghesia fatta di vicoli coi sampietrini e negozi di vestiti vintage come è il Rione Monti. Poteva far ridere come poteva anche far venire la nausea, apprezzare la manifestazione più bislacca di cosa può nascere da tanti soldi, noia e molto tempo libero per impiegarli in qualche modo creativo – se il termine giusto è questo. Nel caso di Speranza siamo di fronte a un fenomeno da un certo punto di vista simile, perché anche lui ha catalizzato in pochissimo tempo molta attenzione, molto entusiasmo e molta voglia di celebrarne i lati più pittoreschi. Ma Speranza non indossa gioielli e Rolex, al massimo “mutande Uomo”; non racconta i pomeriggi a consumare “pollo e cocaina” ma il crimine, il disagio sociale vero, la fede. C’è uno strato molto spesso di verismo e tragedia, sopra il quale ricade un velo di ironia da lui stesso alimentata, quando crea hit estive in cui invita gli ascoltatori a un rapporto incestuoso con la propria madre, con tanto di coreografia da villaggio Valtur. Ma Speranza, appunto, non è solo una canzone da ascoltare ridendo e galvanizzandosi per la potenza espressiva e per le urla: è anche un vero e proprio schiaffo in viso perché nelle sue parole e in quelle dei suoi amici che raccontano il carcere e il crimine, in realtà, non c’è niente di cui ridere.
Possiamo stare giornate intere a guardare i suoi video, ascoltare le sue canzoni, seguire le sue stories, ma non dovremmo perdere di vista il fatto che non si tratta solo di una finzione e di un nuovo espediente per divertirsi. Fagocitare, come succede con ogni fenomeno della moda, anche questo artista vorrebbe dire confermare che siamo talmente anestetizzati dal presente da non renderci conto di cosa è vero e cosa non lo è. Metterlo sul palco del Mi Ami per poterci godere questo nuovo spettacolo esotico senza renderci conto che ciò che canta e che racconta è realmente spaventoso significa arrendersi al fatto che siamo diventati un pugno di decerebrati addormentati. Nel frattempo, che tutto ciò possa veramente significare per questa persona un cambiamento esistenziale è forse l’unica vera motivazione che può legittimare il suo ingresso in un mondo decisamente diverso da quello da cui proviene, cosa che peraltro merita. Ascoltare la sua musica e rendersi conto con onestà intellettuale di ciò che dice, di quanto sia lontano dal nostro quotidiano e magari anche provare a tenerlo a mente prima di ridurre tutto all’ennesima novità da dimenticare tra qualche mese, potrebbe essere l’unico modo sensato e legittimo, per chi in un quartiere malfamato di Caserta non ci ha mai messo piede e chi snobbava le tute Givova, di dire di essere un fan di Speranza. Tra dieci anni quando ci ricorderemo della Dark Polo Gang sorrideremo ancora pensando: “Ma perché ci piaceva? Perché era divertente”. Di Speranza sarebbe bello ricordarsi per altri motivi.