La domanda che mi faccio più spesso quando mi capita di vedere un film o ascoltare una canzone appena usciti che mi danno l’impressione di essere totalmente inedite è sempre “Come si fa a distinguersi in un momento della storia dell’uomo in cui sembra sempre che tutto stia stato già fatto?”. Le opzioni di solito sono due: o ci si inventa qualcosa di talmente strano e distante dai canoni da rischiare di essere solo un fenomeno passeggero, rilevante solo in quanto eccessivo e diverso – mi viene in mente Young Signorino – oppure si percorre un’altra strada, forse la più saggia e sensata, ossia quella del riutilizzo di forme e stili che già esistono, ma rivisitati con nuove intenzioni. In realtà, se ci pensiamo, tutta l’arte è in qualche modo una riproposizione di qualcosa che è già stato fatto, ma secondo una formula diversa: si pesca sempre dal passato, da altre culture, da immagini distanti o da quelle più vicine e sedimentate per capovolgerle e reinterpretarle – altrimenti sarebbe un plagio. Oggi, però, che abbiamo tutti un accesso immediato e di conseguenza anche più effimero alle produzioni culturali di qualsiasi tipo, per un artista è più difficile costruire una base solida su cui fondare la propria carriera e “lasciare un segno”. Di sicuro il rap, che negli anni Dieci del 2000 è diventato il genere mainstream per eccellenza, dopo decenni passati nell’underground, non è un campo facile in cui misurarsi e lasciare quel segno, ma Shiva, che di novecentesco ha solo la data di nascita – e per un pelo – è uno di quelli che ci stanno riuscendo.
Non è facile ammettere che si è abbastanza grandi da aver assistito al susseguirsi di diverse generazioni di musicisti, invecchiare non piace a nessuno, soprattutto ai Millennial, e l’accelerata che hanno impresso i social e internet al crearsi di nuove mode e alla loro istantanea distruzione rende tutto più complicato e capire cosa sia Tik Tok e comprenderne il potenziale è diventato un gran passo persino per chi non ha nemmeno compiuto trent’anni. Fare la distinzione tra ciò che è in effetti una moda passeggera e ciò che invece sta realmente apportando un contributo al mondo della musica è difficile anche per via di questo slalom necessario tra percezione personale, oggettivo distacco anagrafico e caducità dell’hype, se così vogliamo definire queste ondate di entusiasmo per cose di cui ci dimentichiamo molto in fretta.
Non è semplice schivare l’etichetta di burbero con le mani dietro la schiena che osserva il cantiere della vita scorrergli davanti, così come non è semplice non cadere in demenziali tranelli per cui qualsiasi cosa venga fuori deve per forza essere accolta con gioia e urla di approvazione. Dopo un periodo di studio lungo tre anni, credo di poter dire dire che in effetti, forse, tutta questa ondata di trapper che hanno invaso playlist e classifiche, fatte alcune eccezioni, non è sempre così geniale e incredibile come ci siamo voluti convincere. Non dico che Tony Effe potrebbe essere paragonato a Bill Kaulitz in termini di valore artistico a lungo termine, ma nemmeno mi sento di negarlo. Allo stesso tempo bisogna tenere in conto che anche le cose che sembrano più ridicole e prive di qualità se non quella di stimolare una breve reazione di stupore e interesse hanno comunque una ragione d’essere: la trap, genere che potremmo definire come il più rappresentativo, oltre che seguito e supportato, di questi anni, è la conseguenza del mondo che ci circonda. Ogni epoca e contesto generano un prodotto culturale che ne è derivazione estetica e formale: così l’apparente perdita di senso che sta alla base della trap, fatta di parole a vanvera e richiami al materialismo, non è altro che l’emanazione diretta del tardo-capitalismo in cui siamo immersi. Quel senso che sfugge, quel simbolismo esagerato, sbandierato, messo al centro del messaggio che perde ogni struttura e diventa solo uno sprazzo, un’impressione, come se non servissero le frasi per comunicare l’appartenenza a una tribù che venera icone – case di moda, case automobilistiche, gioielli – non è altro la conseguenza del mondo che viviamo. E dunque, persino il più insignificante dei trapper, rappresenta comunque il presente; bisogna capire se lo farà anche in futuro, o se diventerà a sua volta obsoleto.
Ed è qua che entra in gioco il nome di Shiva, uno dei principali rappresentanti dei giovanissimi rapper che stanno mettendo le basi per la tendenza che verrà. Non sono infatti pochi i nomi che al momento possono essere considerati portatori dello scettro di next big thing, alcuni dei quali peraltro vantano già quello di big thing e basta, come appunto il caso di questo rapper ventenne, nato nel 1999 a Legnano e attivo da quando ne aveva appena quindici. La sua data di nascita non deve spaventare, ma anzi rassicurare, perché è proprio tra i suoi coetanei che proliferano i germogli di una scuola di artisti tutt’altro che ancorati a uno stile uniforme, omogeneo e di conseguenza ormai noioso – Madame, Paky, Tha Supreme, per esempio. Shiva potrebbe essere considerato il nome di riferimento di una nuova tendenza che scavalca la perdita di senso volontaria, l’ostentazione e l’ironia della trap in favore di una riscoperta del testo inteso non tanto come quello specifico delle canzoni, ma in generale come insieme complesso di significati che rendono un messaggio comprensibile. Il cosiddetto storytelling, la capacità di creare una visione definita, delineata e ricca di dettagli, non una semplice impressione trainata da frammenti di immagine.
In questo processo di scrittura Shiva sembra mescolare un’idea classica di rap, con la sua caratteristica densità testuale, a certi stilemi della trap, sia da un punto di vista estetico che per la sua grande prolificità musicale, cosa che si concretizza in tante collaborazioni con artisti che appartengono anche in modo più stretto al genere. Nel racconto di Shiva si accumulano esperienze sia personali e introspettive che descrittive, derivate dal mondo da cui proviene, la provincia di una città grande e centrale per il rap come Milano. Una canzone come “Milano Ovest”, per esempio, sembra un dipinto vedutista dell’ambiente urbano che circonda il rapper, un insieme di immagini esterne che si mescolano poi con un focus più intimo, quello della sua stessa casa. In “Guai”, invece, il racconto coinvolge non solo il suo solito set, Milano Ovest, ma anche la comunità che lo circonda, i ragazzi che lo affiancano nella sua crescita e nella ricerca di una stabilità: la periferia ci viene raffigurata nel suo cortocircuito di riscatto e compromesso, come dice Shiva, “Sì vorrei fare più soldi senza guai, li uni senza gli altri non li ho avuti mai”. Ecco una delle caratteristiche principali di Shiva: a smentire quanto sostengono tutti quelli che “‘Sti giovani con la trap non vogliono dire niente”, nei testi di Shiva la periferia è raccontata con l’attenzione e l’acutezza di un cronista.
Fra le “Case che sembrano caselle di un calendario” c’è una realtà che è quasi sempre abbandonata a se stessa, e in questo contesto i valori e i principi vengono sovvertiti. In Shiva non c’è mai l’esaltazione del gangster, tutt’altro: c’è la voglia di spiegare che quando attorno a te c’è il nulla e il tuo migliore amico ha detto “Faccio una rapina” la risposta può essere “Tranquillo, ho una chance tra le dita”. E anche questa specificità è un tratto comune a molti della nuova generazione di rapper, forse gli unici rimasti oggi in Italia a voler parlare della società che li circonda, fatta di grigi e sfumature più che di bianco e nero, andando al di là delle camerette, delle birrette e di tutti quei cliché ormai stantii in cui sembra rinchiuso il panorama dell’indie, per esempio. In questo senso, paradossalmente, è più vicina la trap al cantautorato degli anni Settanta di qualsiasi altro genere italiano attuale – anche per il successo che riscuote. Un pezzo come Diario di Noel, o anche “Calmo”, canzone scritta con l’altro nome di spicco di questa nuovissima generazione, Tha Supreme, rimbalza tra la rappresentazione di ciò che sta attorno a Shiva e l’intimismo dei suoi pensieri, della sua rabbia, dell’impotenza. La cosa interessante però, è che al di là di questo modo di raccontare se stesso e il luogo da cui proviene, descrivendolo con particolari ben messi a fuoco, Shiva spazia molto nella musica che produce, passando da brani più personali e malinconici a hit come “Mon Fre” o a canzoni più strettamente trap, come “Scarabeo”.
Tornando quindi alla fatidica domanda, come si fa a creare qualcosa di nuovo quando sembra che tutto quello che c’era da fare sia già stato fatto, la risposta nel caso di Shiva è banale, ma per questo interessante: ripristinare qualcosa che prima era centrale e che in questo momento manca, come il racconto di quanto ci circonda, mettendo d’accordo passato e presente, creando un ponte tra ciò che in passato era perfino eccessivo, diluendolo, e ciò di cui abbonda il presente, cioè i simboli, alleggerendone la centralità. Ecco che allora nasce un singolo come quello pubblicato oggi, “Auto Blu”, in cui addirittura attinge a una canzone simbolo degli anni Novanta come la hit degli Eiffel 65 per farne un nuovo pezzo. Il modo migliore per farsi apprezzare anche dagli scettici puristi senza trascurare chi negli anni dell’eurodance probabilmente non era ancora nemmeno stato concepito; il modo migliore per dare vita a nuova musica senza dimenticare quella vecchia, che comunque, in un modo o nell’altro, ci ha formati.
Tutte le foto all’interno dell’articolo sono di Andrea Bianchera (andrea_bianchera)