La musica fa parte della nostra cultura. Perché la scuola la ignora?

Il 24 aprile 1865 Francesco De Sanctis, ministro dell’Istruzione nel 1861, tramite le pagine del giornale L’Italia consigliò al successore Giuseppe Natoli, che ricopriva l’incarico in quel momento, di tenere lontane le sirene di materie “superflue” come la musica, poiché “non producono valentuomini, ma buffoni”. Nell’Italia del 2019 la musica nei licei non esiste, la figura del musicista viene ridicolizzata come se non fosse un mestiere ma un hobby o un capriccio, e il sottotesto che associa la musica a “roba per buffoni” continua a tramandarsi, seppur in versione politically correct. Dopo 154 anni, forse è giunto il momento di abbattere questi pregiudizi. 

Per generazioni l’educazione musicale a scuola è stata vista come un insieme di ore di noia in cui, alle medie, intere classi di studenti tentavano di suonare Fra’ Martino campanaro alla melodica o L’inno alla gioia al flauto. Per fare un paragone, in Germania il percorso di studi della musica nelle scuole pubbliche dura tra i 12 e i 13 anni a seconda degli indirizzi.  Anche a livello di fondi stanziati per questa materia, l’Italia non è all’ultimo posto nel panorama europeo soltanto perché la Spagna è il primo Stato in Europa che ha cancellato l’educazione musicale dal curriculum di studi della scuola pubblica. Secondo il documento L’educazione artistica e culturale a scuola in Europa dell’Agenzia Esecutiva dell’Unione Europea per l’istruzione, l’Italia non rientra tra le nazioni che “hanno politiche specifiche o iniziative volte a dotare le scuole di risorse elettroniche usate per migliorare l’insegnamento delle materie artistiche”. A questo disinteresse da parte dei nostri governi nei confronti della musica fa da contraltare lo sforzo che devono fare i professori, tra esami e abilitazioni, per poter accedere all’insegnamento della materia nelle scuole medie, per poi ritrovarsi con pochi mezzi a disposizione e con la consapevolezza che dopo tre anni i ragazzi abbandoneranno per sempre lo studio della musica, salvo le iscrizioni al conservatorio o al liceo musicale.

In tutti i conservatori del mondo, su qualunque spartito, è riportata la nomenclatura nella nostra lingua. Probabilmente un giapponese non sa distinguere la Calabria dalla Liguria, ma distingue i termini moderato, allegro, pizzicato o crescendo, conosce Verdi, Vivaldi o Puccini e assiste alle opere liriche in italiano. È la nostra storia, la nostra impronta nel mondo, e non può essere relegata a materia tappabuchi, senza investimenti e prospettive per un’adeguata formazione dello studente. Le colpe ovviamente non ricadono sugli insegnanti, che fanno di tutto per alternare lo studio della teoria e la pratica di uno strumento, ma sui metodi obsoleti. Il Maestro Ennio Morricone è entrato a gamba tesa sulla questione, chiedendo alla scuola un maggiore impegno nella diffusione della cultura musicale. Per Morricone bisognerebbe “dotare tutte le scuole di un impianto per ascoltare la musica e un corredo di una trentina di incisioni discografiche importanti, da fare ascoltare agli studenti come esempio di argomenti teorici. Se si parla della sonata, poi bisogna fare sentire, ad esempio, quelle di Mozart e Beethoven”. 

Ennio Morricone

La scelta del flauto, o della melodica, è dettata da una questione di pragmatismo. È più comodo per uno studente portarsi da casa questi strumenti rispetto a una chitarra o altri strumenti più voluminosi, senza contare che si tratta di una spesa contenuta che ricade sulla famiglia e non sulla scuola, che raramente può permettersi di avere un laboratorio musicale fornito. Così facendo però viene svilito uno strumento nobile come il flauto, diventato oggetto di scherno e utilizzato esclusivamente per marcette o, peggio ancora, per cover di brani pop, quando i professori cercano di coinvolgere gli studenti. Oltre alla questione dello strumento dovrebbero cambiare l’approccio e la mentalità di fronte a una materia che offre benefici ai ragazzi a livello di creatività e li può avvicinare alla bellezza, in una delle sue forme più pure. Il danno più grande all’insegnamento della musica non è il metodo didattico obsoleto, ma il fatto che questa non venga proprio insegnata nei licei, a eccezione di quelli con indirizzo musicale.

Il problema risiede a monte, radicato nella nascita della scuola pubblica italiana. I primi cenni sull’insegnamento della musica risalgono al 1885, con l’introduzione a livello facoltativo di “esercizi di canto corale”. Nello stesso periodo compaiono nelle scuole anche disegno e ginnastica, ma, come per il canto corale, si tratta di semplici esercizi di disciplina e ricreazione. Nel 1898, con il primo congresso pedagogico nazionale di Torino, viene sottolineata l’importanza dell’insegnamento della musica. In quegli anni è di notevole importanza la figura di Rosa Agazzi, scrittrice del volume Abbicì del canto educativo, sostenitrice dell’importanza della musica per educare i bambini alla bellezza e al “decoro”. Ma è soltanto nel 1923, con la riforma scritta da Giuseppe Lombardo Radice e da Giovanni Gentile, che il “Canto” diventa una materia nelle scuole elementari. L’intenzione è quella di valorizzare le tradizioni artistiche regionali, con le lezioni basate principalmente sull’esecuzione di canti popolari legati al folklore del luogo.

Per arrivare all’insegnamento della musica nelle scuole medie bisogna attendere il 1963 – come materia non autonoma ma legata all’educazione artistica – e il 1979 come materia autonoma con due ore settimanali obbligatorie. Da quel momento sono arrivati pochi cambiamenti, a eccezione della riforma Moratti del 2004, in cui la disciplina viene rinominata “Musica” e non più “Educazione musicale”. Il tasto dolente riguarda il liceo. Nel secondo dopoguerra la materia – alla voce “Musica e canto corale” – è presente soltanto negli istituti magistrali. Con la riforma del 1988 del ministro Galloni vengono elaborati nuovi programmi in cui la disciplina “Arte e Musica” può essere adottata in via sperimentale nei licei, senza però un provvedimento legislativo. Diventa quindi una materia opzionale, a eccezione del liceo socio-psico-pedagogico, dove è previsto l’insegnamento nel triennio della “Storia della musica”.  Con la riforma Gelmini, dal 2010 viene istituito il liceo musicale e coreutico, ma la materia “Musica” scompare da tutti gli altri licei, compreso quello socio-psico-pedagogico.

Negare l’importanza di questa disciplina è dunque un vizio che l’Italia si porta dietro dagli albori della sua storia unitaria. A tal proposito, Nicola Piovani ha dichiarato che “La mancanza di educazione musicale nelle scuole italiane non è solo un errore ma è qualcosa di criminale, perché in quella fase i bambini sono ricettivi e abituandosi alla musica si abituano alla ricchezza del linguaggio”. Per Piovani, nonostante l’importanza dello studio di uno strumento, l’insegnamento “Dovrebbe incentrarsi fondamentalmente sull’abitudine all’ascolto: saper ascoltare è il punto di partenza imprescindibile per qualsiasi attività, e in special modo per la musica”.

Nicola Piovani

Per far questo servirebbero mezzi, apparecchiature e investimenti. Sarebbe altrettanto importante aggiornare i programmi, almeno alle medie, superando piani didattici poco accattivanti per gli studenti. Quando nel 2003 è uscito il film School of Rock, la generazione degli attuali trentenni frequentava le scuole medie e sperava di avere un professore come Jack Black, che suonava in classe con i suoi alunni i brani dei Led Zeppelin e dei Deep Purple. La realtà è diversa, non servono voli pindarici o esempi cinematografici estremi: basterebbe portare l’insegnamento della musica nei licei e dare il giusto valore a una disciplina troppo a lungo trascurata. L’Italia è riconosciuta a livello mondiale come una delle culle della musica classica e lirica e non possiamo permetterci di “fare rumore” con il flauto alle scuole medie, senza spendere un euro per un impianto in grado di proiettare gli studenti in una straordinaria dimensione artistica. Se per Nietzsche “Senza musica la vita sarebbe un errore”, è lapalissiano lo sbaglio di una scuola pubblica, soprattutto in un Paese come l’Italia, dove la musica è il grande assente durante gran parte del ciclo scolastico. Allo stato attuale delle cose non può stupire la frequenza con molti professionisti del settore si sentono dire la frase: “Ah, fai il musicista. E di lavoro?”.

Segui Mattia su The Vision | Facebook