Il K-pop ha trovato la formula perfetta per dominare l’industria musicale

Non è facile una volta usciti dall’adolescenza rimanere al passo con l’incessante susseguirsi di mode per teen-ager. Ogni generazione ha il suo fugace ma intensissimo culto, e basta un secondo di distrazione per ritrovare i poster dei Blue o dei Tokio Hotel nelle camerette sostituiti da volti ignoti. In questo preciso momento però, il corso della storia degli idoli per tredicenni che si strappano i capelli ha subito una sterzata curiosa. Sulle copertine del Cioè, la rivista per eccellenza dove si possono scovare tutte le nuove tendenze per i vari riti iconografici di boy band, ha fatto capolino anche una band sudcoreana. Sembrerebbe un dato poco rilevante, ma è il sintomo del cambiamento profondo che il mercato musicale occidentale sta intraprendendo e la premessa di un’ipotetica rivoluzione nel campo della musica pop. A quanto pare, infatti, l’inglese non è più la lingua dominante del settore, e a farsi largo con prepotenza nelle classifiche – oltre al dilagante morbo del reggaeton che subiamo sotto forma di balli di gruppo a bordo piscina – ci sono band come i BTS, paladini del K-pop. In realtà, l’ingresso di questo genere musicale (anche se non si tratta esattamente di un genere ma più di un’idea di industria musicale, un’impostazione commerciale) nelle nostre classifiche costellate oggi da trapper e Dua Lipa, risale al 2012, quando siamo stati bombardati dalla hit di PSY, Gangnam style, e dalla tanto graziosa quanto demenziale coreografia annessa. Già all’epoca le reazioni rispetto all’ingresso a gamba tesa dell’Asia nelle nostre classifiche aveva suscitato diversi dubbi, ma una cosa era palese: si trattava di una forma a dir poco accattivante, una sorta di pozione magica per attirare l’attenzione di tutti, anche di chi voleva tenersi alla larga da quell’atmosfera zuccherosa e sgargiante, marchio di fabbrica del K-pop – dove la “K” sta, ovviamente, per Korea, ma rigorosamente del Sud.

PSY

La cosa curiosa del successo di PSY – un successo inaspettato persino per l’industria sudcoreana – era che non si trattava della star del K-pop per eccellenza, come quelle che stanno spopolando oggi. Anzi, potremmo dire che paragonato ai suoi colleghi di genere è tutt’altro che rispettoso del canone. Si tratta infatti di un cantante adulto e non particolarmente attraente, due caratteristiche che non combaciano affatto con l’essenza delle star di questo filone: i cosiddetti idol. Alla base del K-pop, infatti, c’è prima di tutto una cura maniacale per i dettagli estetici degli artisti, da tutti i punti di vista, ed è questo ciò che più contribuisce in particolare all’espansione del fenomeno. Si tratta di una costruzione meticolosa di un prodotto di consumo, sapientemente assemblato per piacere a una fetta molto larga di fan, i quali ricercano proprio questa sorta di perfezione volutamente edulcorata ed esagerata. Ciò che rende una boy band o una girl band del K-pop una spanna sopra qualsiasi One Direction l’industria musicale inglese possa pensare di sfornare, è che questi gruppi sono messi insieme come una macchina da successo.

A partire appunto dall’aspetto fisico di ogni membro, passando per la preparazione atletica e canora impeccabile, i BTS – e con loro tutte le tantissime altre band K-pop – sono una combinazione di elementi che creano il gruppo dei sogni. Ognuno di loro ha una sua personalità ben definita, che non si sovrappone con quella degli altri: c’è il rapper, il ballerino, il piccolo della situazione, quello che canta in cinese. Ognuno di loro ha costruito tramite i social un rapporto diretto e costante con la fanbase, consolidando così in modo definitivo il loro ruolo di poster da appendere al cuore di ogni fedele seguace. Le loro canzoni puntano a toccare temi sociali che smuovano con grande efficacia le corde dell’immedesimazione e dell’empatia verso un disagio giovanile diffuso, altro metodo infallibile per fidelizzare ulteriormente chi li segue. I BTS, in poche parole, sono il distillato puro della boy band, senza difetti né capelli fuori posto, irresistibilmente cute, performer di altissimo livello e con un ascendente sul pubblico paragonabile a quello dei Beatles quando sbarcarono negli Stati Uniti nel 1964. Sono i Backstreet Boys e le Spice Girls 2.0, senza rischi di gaffe o di passi falsi che possano mandare in fumo il business.

Anche a livello più strettamente musicale la ricetta della hit K-pop sembrerebbe seguire in modo pedissequo un manuale ben collaudato. Se a livello visivo la prima cosa che ci colpisce è l’incastro coreografico perfetto, mischiato a un’estetica a dir poco esuberante, esagerata, dove qualsiasi cosa sembra sbucare da un distributore di caramelle e tutti i visi sembrano disegnati da qualche professionista della simmetria e della pulizia, anche nelle canzoni l’assemblaggio melodico trasuda un calcolo infinitesimale. In un brano K-pop troveremo infatti una sorta di polpettone post-moderno dove è stato infilato tutto ciò che ci può piacere: come se mettessimo zucchero a velo, Nutella e orsetti gommosi in un’unica ciotola e ci divorassimo il suo contenuto in pochi minuti. Si passa da un genere a un altro, con delle incursioni di lingua inglese proprio nei punti dove queste risultino più accattivanti, orecchiabili, così come i nomi stessi delle band, che spesso sono sigle facili da ricordare a qualsiasi latitudine del pianeta: H.O.T., Girl’s Generation, GOT7, 2PM. Direi quasi che se la parola catchy dovesse avere un corrispettivo audiovisivo, probabilmente si tratterebbe di un video di qualche successo K-pop.

È scontato a questo punto domandarsi quale sia il prezzo da pagare per tenere su una fabbrica di giovani star del genere, e la risposta non è affatto lontana da ciò che ci si aspetterebbe una volta superata l’età in cui credevamo che le Pussycat Dolls fossero delle amiche con la passione del canto capitate insieme per caso. Dagli anni Novanta in poi, quando la prima vera e propria band – Seo Taiji & Boys – ha dato inizio al fenomeno rompendo la tradizione musicale sudcoreana che prevedeva solo inni alla magnificenza dello Stato, l’industria musicale ha capito che il potenziale espansionistico culturale della nazione poteva dipendere proprio da questo genere che mischiava elementi palesemente occidentali a una mentalità tipicamente orientale. Da ciò deriva la prima legge del K-pop, ovvero che ogni artista deve avere una formazione degna di un’accademia militare, una dedizione assoluta alla missione artistica della sua vita: chi vuole intraprende la strada dell’idol deve tenere in conto che la sua immagine e il suo talento verrano completamente assorbiti dalla legge delle case di produzione – JYP Entertainment, SM Entertainment e YG Entertainment sono le più importanti. Motivo per cui non è raro sentire parlare di vero e proprio sfruttamento lavorativo, dal momento che anche quando i giovani astri nascenti diventano famosi e affermati membri di band K-pop continuano comunque a condurre una vita di clausura, confinati a dormitori, con paghe bassissime, orari impossibili, restrizioni folli (come quella di non poter avere legami sentimentali né di poter stringere amicizia con i colleghi).

Altra conseguenza, ovviamente, è quella che riguarda la cura dell’immagine: basta fare una rapida ricerca e si troveranno quintali di articoli che mostrano le star before and after chirurgie estetiche, caldamente consigliate dalle case di produzione. C’è addirittura un trend chiamato K-pop combo, che consiste nel classico intervento al naso e alle palpebre, ed è anche ciò che rende così deliziosamente perfette – secondo un canone occidentale, peraltro, considerato che attenuano proprio la parte più “asiatica” dei loro tratti – le facce delle star. Oltre alla chirurgia plastica, le diete rigide sono un’altra regola fondamentale per potersi permettere di far parte del colorato e sfavillante mondo del K-pop. Tra diete dell’anguria o della lattuga, gli idol combinano regimi alimentari assurdi con un allenamento quotidiano per preservare il loro aspetto etereo e, come sempre, perfetto. Un regime che probabilmente fa parte della vita di qualsiasi pop star che curi la sua immagine come fonte preziosa del successo a cui ambisce, dalla Corea alla California, ma che a differenza dei colleghi occidentali non garantisce nemmeno il benessere economico che presuppone la carriera di un artista di fama internazionale, figuriamoci poi quello mentale.

La conseguenza più concreta di questa industria e dei suoi ritmi serrati è che qualcuno prima o poi ceda. Ed è già successo meno di un anno fa, quando il cantante degli SHINee, Kim Jong-hyun, si è tolto la vita nel pieno della sua carriera dopo un periodo di forte depressione, giusto per andare a contribuire alle statistiche già preoccupanti sul tasso di suicidi del suo Paese. C’è da dire pure che in tempi abbastanza recenti, la questione dei contratti per gli artisti-schiavi è stata sottoposta a un’analisi più attenta da parte di enti preposti, come la Fair Trade Commission, e che band come i BTS si dichiarano appunto dissociati da questa pratica disumana. Ma non è ancora chiaro se questo settore del mercato musicale si sia completamente liberato delle sue usanze discutibili, tra i vari bootcamp intesi come una prigionia schiavista e i dormitori da caserma militare. Oltre alla questione già abbastanza delicata che riguarda la vita degli artisti coinvolti sin da giovanissimi in questa industria, c’è anche un aspetto meramente musicale legato al K-pop, quello della conversione totale della musica in prodotto di consumo.

Kim Jong Hyun

Sarebbe ingenuo sostenere che non è sempre stato così, perlomeno dalla metà del Novecento in poi: dai Jackson 5 alle Spice Girls, non è una pratica inedita quella di mettere assieme il cocktail di personalità più adatto a favorire le vendite. Se vogliamo vedere la questione da un punto di vista puramente commerciale, potremmo pure compiacerci del fatto che qualcuno abbia trovato la formula perfetta per il successo discografico programmato, che procede come una macchina perfetta, un mostro di Frankenstein che vende quintali di musica a minorenni invasati. Ma se vogliamo tirare l’ennesimo respiro di sconforto davanti ai risultati irrefrenabili della foga divoratrice capitalista che trasforma in denaro e accumulo tutto quello che tocca, il K-pop è di certo una delle sue espressioni più feroci.

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