Il rap è sempre stato, sin dalle battute iniziali della sua storia, un genere contraddittorio, contenente al suo interno elementi apparentemente – o sostanzialmente – discordanti, soprattutto agli occhi e alle orecchie di un’audience bianca. Chi non conosce il sostrato sociale e culturale di questo tipo di musica non può capire come riescano a convivere in essa, ad esempio, il materialismo sfrenato e la denuncia sociale. Tutto ciò è inevitabilmente legato, come detto, all’ambiente del quale il rap è un prodotto, ossia la comunità afroamericana meno abbiente, emarginata rispetto alla società consumistica della quale fa parte, ma comunque plasmata nei suoi stessi valori.
Questa insita contraddizione l’ha rappresentata bene Kendrick Lamar con il suo terzo album ufficiale, To Pimp A Butterfly, uscito nel 2015. Arrivato alla pubblicazione del disco già come superstar del rap mondiale grazie al precedente Good Kid, M.A.A.D. City, il rapper di Compton è riuscito a realizzare, in maniera organica, un quadro di tutte le spinte divergenti che si muovono in senso opposto sul suolo americano. Si va dalle disparità economiche – in continuo aumento negli Stati Uniti – a quelle etniche, per le quali gli afroamericani, pur essendo il 12% della popolazione nazionale, rappresentano il 33% di quella carceraria.
La differenza tra chi è semplicemente un ottimo intrattenitore e chi, invece, è un vero artista, sta proprio nel riuscire a dare voce alla propria comunità, fornendone letture complesse e presentandole anche a chi non fa parte di quel tessuto sociale. Con To Pimp A Butterfly Kendrick Lamar ha portato la cultura afroamericana, le sue istanze e le sue criticità, al grande pubblico, sui palchi più importanti e, addirittura, alla Casa Bianca, invitato da Obama alle celebrazioni per il Giorno dell’Indipendenza del 2016. Tutto ciò ha avuto ancora più valore perché è avvenuto senza nessun filtro che rendesse la narrazione comprensibile a tutti, che smussasse gli angoli di un mondo spigoloso. La forte caratterizzazione del disco la si era vista chiaramente già con i primi due singoli, “i” e “The Blacker The Berry” Il primo è una celebrazione festosa – non frivola – della blackness, fatta di corpi vivi, musica, socialità e sessualità, rivoluzionaria proprio per la voglia di riappropriarsi di una dimensione fisica spesso repressa. Il secondo, invece, è quello più complesso, già per il titolo che riprende il romanzo di Wallace Thurman, uno dei testi chiave dell’Harlem Renaissance.
Il brano – pubblicato il giorno dopo la doppia vittoria ai Grammy del singolo precedente “i” – capovolge l’atmosfera festante di cui prima. Le strofe sono un duro attacco rivolto all’opinione pubblica e alla politica per gli stereotipi razzisti sui quali sono arroccate, per il poco rispetto per la comunità afroamericana che dà spazio a operazioni di saccheggio artistico e appropriazione culturale. Kendrick Lamar, però, dopo essersi definito all’inizio di ogni strofa come “the biggest hypocrite of 2015”, ribalta la prospettiva e chiama in causa direttamente la sua comunità, rinfacciando a essa e a se stesso l’ipocrisia di accusare i bianchi e la polizia per le violenze nei propri confronti, non rendendosi conto del gran numero di black on black crimes dovuti alle guerre tra gang e del numero di afroamericani uccisi da afroamericani stessi. Una posizione del genere ha causato, già dal primo momento, forti polemiche interne alla comunità nera e agli artisti a essa legati. Kid Cudi per primo ha accusato Lamar di puntare il dito invece di aiutare. In realtà, il rapper di Compton non ha fatto altro che rappresentare le contraddizioni di una società consumistica in cui i membri delle comunità emarginate e discriminate, come quella afroamericana, sono costretti ancora di più a correre l’uno contro l’altro per emergere, a volte anche cadendo nell’illegalità. Una visione simile non fa altro che riprendere il concetto di double consciousness espresso a inizio Novecento in The Souls of a Black Folk da William Du Bois, sociologo ed attivista, secondo il quale gli afroamericani devono avere appunto una doppia coscienza, avendo cioè sia una visione chiara di sé e di ciò che si è in prima persona, ma anche una consapevolezza di come la società bianca guarda a loro. Muoversi nello spazio che separa queste due diverse rappresentazioni è fondamentale innanzitutto per la sicurezza personale, come dimostra l’episodio della morte di Trayvon Martin, citato proprio da Kendrick Lamar alla fine del pezzo.
Se già i due singoli avevano fornito un materiale di riflessione più che corposo, l’uscita dell’album ha reso poi evidente come To Pimp A Butterfly fosse un disco chiave per capire le dinamiche della società statunitense. Già con la copertina, che rappresenta un black riot davanti alla Casa Bianca, si dà spazio alle tensioni che in quel periodo erano esplose negli Stati Uniti grazie al movimento Black Lives Matter, che stava invadendo le strade in tutte le città per protestare contro la brutalità della polizia nei confronti della popolazione di colore. Il legame tra il movimento di protesta e Kendrick, inoltre, si è ulteriormente stretto grazie all’eco mediaticamente notevole avuta da “Alright”, una delle canzoni più d’impatto del disco, reso ancora maggiore dal video diretto da Colin Tilley. Il brano emerge come un messaggio di speranza quasi irrazionale, mosso sia da consapevolezza – la double consciousness di prima – che da un impulso istintivo. È significativo il fatto che, in contrapposizione ai dubbi e ai tormenti tutti individuali di “u”, il brano precedente nella tracklist, l’apertura positiva di “Alright” sia tutta costruita sul we, sul noi, come se ogni forma di riscatto non possa prescindere da una dimensione collettiva, comunitaria.
Già poco dopo l’uscita del disco, e quindi del brano, più parti della comunità afroamericana arrivano a definire “Alright” il nuovo Black National Anthem, come in genere ci si riferisce a “Lift Ev’ry Voice and Sing”, brano d’inizio secolo scorso simbolo della lotta alla segregazione. Così come questo brano e i grandi classici del soul e del blues avevano raccontato, in epoche diverse, la situazione degli schiavi e dei loro discendenti negli Stati Uniti, così “Alright” ha saputo attualizzare le invocazioni di speranza tipiche del gospel e dei canti di lavoro, inserendoli in un contesto moderno e urbano fatto di violenze e sfruttamento. In poco tempo, a partire dalle manifestazioni di Cleveland, il “We gon’ be alright” del ritornello ripetuto senza sosta diventa un accompagnamento musicale costante durante tutte le marce di protesta. Il segno dell’efficacia della narrazione di To Pimp A Butterfly sta proprio nella reazione di quella comunità che viene raccontata dal disco. Aver rappresentato in maniera così reale tutte le istanze della società dalla quale proviene, sia nelle espressioni più materialistiche che in quelle più drammatiche, rende Kendrick Lamar l’artista al quale ipoteticamente rivolgersi per capire il mondo afroamericano e statunitense in generale.
Sarebbe sbagliato, infatti, confinare la capacità narrativa di Kendrick Lamar esclusivamente alla comunità afroamericana. To Pimp A Butterfly è un disco che descrive gli Stati Uniti nella loro interezza, o meglio, che dà un quadro di ciò che avviene in ogni società occidentale e consumistica. L’esempio perfetto di ciò lo dà “How much a dollar cost”. Il brano è un dettagliato storytelling in cui a parlare in prima persona è un uomo di successo che, a una pompa di benzina, viene avvicinato da un mendicante che gli chiede invano un dollaro. Alla fine, il senzatetto si rivelerà per ciò che è realmente, cioè Dio, e quell’atto di carità mancata sarà la causa dell’esclusione dal paradiso del protagonista. Ecco quanto costa un dollaro. Il brano, oltre al racconto immaginifico e impregnato di spirito religioso, ha valore proprio perché offre più di uno spunto di riflessione, supera il semplice intrattenimento. I due protagonisti rappresentano due lati diversi della società capitalistica: da una parte l’uomo di successo che sa che “il mio egoismo è ciò che mi ha portato qui”, dall’altra un escluso tenuto ai margini della comunità e che risulta disturbante già per la sua richiesta di essere guardato e di essere considerato. Ciò che viene fuori è la spaccatura della nostra società, la frattura insanabile tra l’élite e gli ultimi, con i primi che, però, sembrano aver perso di vista l’essenza della vita umana, ciò che le dà valore, tanto da aggrapparsi a un singolo e fatale dollaro.
Ormai sono passati quasi cinque anni dalla pubblicazione del disco e, come l’elezione di Trump ha dimostrato, in To Pimp A Butterfly Kendrick Lamar non ha fatto altro che mostrare tensioni che già animavano il tessuto sociale statunitense. La forte insistenza sull’elemento etnico e il racconto delle discriminazioni razziali hanno profetizzato una situazione in cui, nuovamente, blackness e whiteness sono tornati a essere i due poli opposti del dibattito politico, presentati quasi come alternativi. Proprio per questo, in una nazione in cui il colore della pelle costituisce ancora – e forse di più – un discrimine rilevante, in cui le distanze tra i primi e gli ultimi posti della piramide sociale si sono allungate, Kendrick Lamar ha usato la sua arte per plasmare una figura contraddittoria, che contiene elementi in apparenza inconciliabili, ma proprio per questo più veritiera. In una società costruita sul mercato, To Pimp A Butterfly dà una chiave di lettura che vale per tutti, per cui basta chiedersi: quando ci costa un dollaro?