Negli anni Sessanta, bisognava tassativamente passare una selezione durissima se si voleva davvero comparire in televisione: si trattava di superare veri e propri esami, che si svolgevano davanti a una commissione molto severa. Nel 1961, anche il giovane Enzo Jannacci fece un provino per poter partecipare a un programma Rai e non andò bene: nel documento redatto quel giorno, si diceva in sostanza che Vincenzo Jannacci non era adatto a comparire sul piccolo schermo perché non aveva “la faccia giusta” per la tv. Ricordando quell’episodio, lo scrittore Nando Mainardi spiega perché, secondo lui, la commissione giudicante aveva preso un granchio, facendo un condivisibile elogio al talento dell’artista: “Jannacci, nei pezzi da risata aperta, in quelli più caustici, fino ai toni drammatici e un po’ cupi, ama cantare gli emarginati che conservino la dignità e concedano poco al pietismo: ci riesce grazie a un linguaggio unico e inimitato. Jannacci è incontenibile maestro del monologo e delle cogitazioni fatte a voce alta. I suoi personaggi in fondo stanno in bilico splendidamente tra una terra e l’altra”.
Quel ragazzo assomigliava ai protagonisti delle sue canzoni, in equilibrio tra due mondi e in parte ghettizzato. Quando era un promettente dottore, si sentiva anche lui emarginato dai colleghi medici: era troppo stravagante e disinteressato ai giochi di potere interni all’ospedale. In più, nel tempo libero, suonava e cantava: un peccato mortale per gli altri dottori, che consideravano quell’hobby un indice della poca serietà dell’in realtà preparatissimo cardiochirurgo Jannacci. Alla fine, nonostante fosse stato anche brillante allievo del grande dottor Christian Barnard, Jannacci fu costretto a rinunciare alle sue ambizioni per diventare un semplice medico di famiglia. Una carriera tanto anonima però non poteva bastargli e infatti lasciò tutto per provare a vivere tante altre vite.
Oggi ricordiamo Enzo Jannacci in molte vesti diverse: musicista, cabarettista, attore e, come detto, persino medico. La sua fama rimane però legata soprattutto alla sua abilità nel raccontare determinate storie, quelle degli ultimi. Lo ha sempre fatto, evitando il pietismo con cui si tende a ritrarre chi viene emarginato dalla nostra società o semplicemente è etichettato da questa come “diverso”: i protagonisti delle sue canzoni mantengono sempre la loro dignità, anche quando muoiono sotto i cartoni, come il “barbun” protagonista de “El purtava i scarp del tennis”. In un’intervista a La Stampa del 29 dicembre 1992, Jannacci confessò che il brano nacque per contestare un mondo che era ormai impegnato a operare una continua e arbitraria selezione, lasciando indietro chi non ce la faceva a stare al passo. È questo il caso del barbone milanese in scarpe da tennis della canzone, che muore sotto un mucchio di cartoni senza neanche essere compatito: in fondo, per gli altri, la sua morte “l’e’ roba de barbun” e poco altro.
La galleria di personaggi sfortunati di cui si compone l’intero canzoniere di Jannacci è ampia, ma questi protagonisti, per quanto vittime di una sorte avversa, non perdono mai la propria umanità e sono quasi sempre migliori di chi, almeno esternamente, sembrerebbe aver raggiunto il massimo del successo. La figura tragica dell’omonima protagonista di “Vincenzina e la fabbrica”, che manifesta per il suo diritto a lavorare, è più degna di stima del padrone dell’impresa chiusa in cui lei stessa era assunta. Quest’ultimo è ormai insensibile a tutto, persino una cosa frivola come “Rivera che non segna più” ha smesso di interessarlo.
La canzone era stata composta per essere inserita nella colonna sonora del film Romanzo popolare di Mario Monicelli. Nella pellicola, è importante evidenziare la differenza di linguaggio tra i vari protagonisti: al modo di esprimersi ingenuo di Vincenzina, si contrappone il “sindacal-politichese di Tognazzi” con il suo spiccato accento milanese, infarcito di metafore calcistiche ed espressioni dialettali.
La scelta di inserire la musica di Jannacci in un film del genere non è casuale. In generale, il dialetto milanese e la città di Milano sono elementi cardine dell’immaginario dell’artista. Va fatto tuttavia notare come, nelle sue canzoni, il cantante non si sia mai limitato a raccontare una Milano generica: ha cantato la sua personale interpretazione della propria città. In un’intervista a Mario Biondi per Esquire, Jannacci dichiarò: “La Milano che mi interessa è quella che soffre. A questa parte sono dedicate le mie canzoni di ambiente milanese.”
Ne “Il Duomo di Milano” a soffrire è un uomo che si è fatto accecare dal desiderio di avere sempre di più: “Sparge il bancone di dolci lacrime d’addio, quel giovanotto malato di ricchezza”. Oggi, la Milano in difficoltà, casa degli emarginati e degli sconfitti, non ha smesso di esistere, anzi. In un’intervista di qualche tempo fa, Paolo Jannacci rifletteva su come la sua città avesse più che mai bisogno di una voce come quella del padre perché: “A Milano oggi sono tutti stanchi, nessuno riesce a recuperare l’energia per il momento poetico. A Milano oggi si sopravvive e basta, non c’è più crescita spirituale e artistica. Mangio, dormo, bevo, mi piacciono uomini o donne. E allora? Enzo direbbe che è un po’ poco tutto questo, per vivere”.
Jannacci cantava che bisognava vivere in maniera piena rincorrendo la felicità: bisognava avere la forza di ridere in faccia ai potenti per non esserne sottomessi: “E sempre allegri bisogna stare ché il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam”, si diceva in “Ho visto un re”, un pezzo scritto dal suo grande amico Dario Fo e musicato da Paolo Ciarchi.
In alcune canzoni, oltre al dialetto, Jannacci usava anche le parolacce per poter dare una sorta realismo popolare. In questo modo, restituiva all’ascoltatore la rabbia dei protagonisti delle sue storie, senza rinunciare a mostrare il lato tristemente ironico di certe situazioni. Tutto questo faceva aumentare il livello di empatia tra chi stava a sentire e i sofferenti e gli incompresi di cui Jannacci si faceva portavoce raccontandone le storie. Perché d’altronde, come disse lo stesso artista nel 1987: “Gli unici diversi sono quelli per cui noi siamo diversi”.
Il suo interesse per queste persone vittime di ingiustizie piccole e grandi era nato precocemente, come racconta Paolo Jannacci nel suo libro sul padre Aspettando al semaforo: “Tutto parte dall’educazione che si riceve; ed Enzo parte bene, perché il nonno Giuseppe, maresciallo dell’Aeronautica italiana, gli fa capire, tra una guerra e l’altra, cosa sia giusto e sbagliato e glielo ha fatto capire benissimo sebbene non fosse un momento proprio facile: all’ordine del giorno si conviveva con discriminazioni dove i poveri erano trattati male e l’uso della violenza fisica e verbale era ben tollerato”.
Le canzoni di Jannacci risentiranno di questo imprinting, risultando ironiche e crude (anche grazie all’uso del dialetto) ma per questo pure estremamente facili da capire e ricordare. Scrive sempre Paolo: “Enzo ti fa sempre capire tutto, esaltando e sottolineando soprattutto il lato reale della tua umanità, quello che a volte, per vergogna o per ignoranza, fai finta di non considerare”. Quel lato è sempre una parte importante dell’identità dei supposti “perdenti” di Jannacci, un caso emblematico è per esempio il protagonista di “Vengo anch’io”.
In ogni occasione, Jannacci non biasima mai i personaggi che ritrae né li giudica negativamente, al contrario: ne fa risaltare l’umanità fino a trasformarli in eroi moderni, si pensi a Giovanni “telegrafista e nulla più” che però è in grado di conservare “il cuore urgente anche senza nessuna promozione”. “Giovanni telegrafista” era il lato B di Vengo anch’io ed era la versione musicata e tradotta di una poesia del brasiliano Cassiano Ricardo. Giovanni che “aveva un cuore urgente” era il prototipo del protagonista tipico delle canzoni di Jannacci. Allo stesso modo dell’uomo cui si accenna in “Lettera da lontano”, anche Giovanni era in grado di “vivere serenamente con la sua dignità, la sua morte, le sue illusioni”. La bellezza di questo ritratto in musica si capisce ancora di più ricorrendo alle parole della giornalista italo-brasiliana Paola Jacobbi, figlia dell’uomo che aiutò Jannacci a tradurre le parole di Cassiano Ricardo in italiano: “Parlava di un telegrafista innamorato non ricambiato ma mi ha sempre fatto pensare a quell’urgenza bella di chi ha davvero qualcosa da dire e conosce le parole e le note giuste per farlo capire a tutti”. Si può imparare una lezione da ogni personaggio raccontato da Jannacci, ognuno ha qualcosa da insegnarci nella maniera più chiara e diretta possibile. In “M’han ciamàa”, ad esempio, per proteggere la memoria della sua donna trovata morta sui bastioni, un uomo finge di non riconoscerla e simula che sia ancora viva.
Jannacci ha ricordato che ogni esistenza merita di essere raccontata e che anche gli anonimi apparentemente sconfitti dalla vita hanno in realtà una lezione da trasmetterci, forse la più importante. È bene ricordare che tutte le persone descritte nei brani erano sempre reali, non si trattava mai di archetipi o macchiette studiate a tavolino. Lo chiarì definitivamente lo stesso artista in un’intervista a L’Unità del 2011: “Vedi, non erano invenzioni, erano persone vere, erano i poveri diavoli d’Italia. I poveri diavoli sono la parte migliore di questo Paese, sono loro che lo salvano ogni volta che serve, loro che sono stati repressi, massacrati, esclusi”.
Le canzoni di Jannacci, oggi, acquistano ancora più senso perché aiutano a creare un sentimento di empatia in un periodo storico in cui non è più così scontato che questo accada. I versi dell’artista milanese ci ricordano che siamo tutti umani e che, in fondo, tra quelli che crediamo essere i “primi” e la valanga di “ultimi” non c’è poi troppa differenza.