Nel 1928 l’Italia era nel pieno del regime di Benito Mussolini, il fascismo era ormai istituzionalizzato, i diritti fondamentali dei cittadini soppressi, i partiti sciolti, la libertà di stampa negata. Ci sono tante cose di cui non dovremmo andare fieri nella storia del Novecento del nostro Paese, una su tutte è il ventennio che ha rivelato la parte più gregaria e mistificatrice del popolo italiano. Ormai è passato quasi un secolo da quel periodo, ciononostante gli strascichi di quella cultura non se ne sono mai andati del tutto, ed è fondamentale ricordarci che per fortuna non siamo stati solo quello: fascisti, mafiosi e corrotti; non siamo stati solo democristiani collusi, repubblichini pentiti e colonizzatori da strapazzo. Nel 1928, infatti, mentre l’Italia si consegnava a pieno nelle mani di un dittatore, nasceva a Roma un uomo che ha contribuito a tutti gli effetti non solo a rendere giustizia alla bellezza di cui siamo capaci noi Italiani grazie alla nostra sensibilità, ma a condividerlo col resto del mondo.
Ennio Morricone è morto, e non si tratta purtroppo né di una di quelle gag demenziali da internet in stile “toto-morto” né di una notizia che ci coglie all’improvviso. Morricone era un uomo di novantuno anni, e non c’è niente di assurdo nel fatto che una persona di quell’età si spenga dopo una caduta accidentale in casa propria, anzi, è quanto di più comune possa succedere a un anziano. Come succede sempre quando un pezzo di storia si trasforma in un capitolo chiuso, però, nonostante si tratti della cosa più naturale del mondo, la morte di questo compositore ci tocca un po’ tutti da vicino, perché in qualche modo, anche senza accorgercene, Morricone ci ha regalato qualcosa di insostituibile, qualcosa che è al contempo intimo ma anche condiviso da chiunque lo abbia mai ascoltato.
Non ci sono morti più significative di altre, e dopo mesi in cui i decessi sono diventati un numero da registrare o da comunicare durante una conferenza stampa il senso dell’ineluttabilità del destino umano sembra piuttosto sfumato. Questo 2020 ha assunto un valore epocale, casualmente anche grazie alla sua cifra tonda che lo rende così facile da incasellare in una sorta di quadra universale. Siamo davvero in un’epoca nuova, la stiamo vivendo con la consapevolezza moderna dell’iperconnessione, dell’accesso ai contenuti di qualsiasi tipo, dal fatto che se vogliamo ascoltare una qualsiasi canzone, basta accendere Spotify e la troviamo là, senza problemi. Da questo punto di osservazione privilegiato in cui ci troviamo, diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, il Secolo breve è contemporaneamente tanto vicino da farci sentire parte della sua eredità ma anche molto lontano, così lontano da sembrare alle volte nemmeno appartenerci. Ennio Morricone è stato di fatto il ponte che ha unito il passato con il presente tramite un’operazione che oggi, essendo assuefatti a contenuti multimediali di qualsiasi tipo, diamo per scontata: l’unione tra immagine e suono.
Passiamo le ore su Instagram a postare stories in cui a nostro modo uniamo questi due materiali, siamo circondati da pubblicità, serie tv e programmi, film, videoclip: ormai viviamo costantemente immersi in una bolla audiovisiva. Tutto ciò non è sempre stato così, ovviamente, e la musica non è sempre stata collegata a qualsiasi immagine, dallo spot per una merendina alla radio in macchina. Il Novecento è il secolo in cui il cinema, la tv, la radio sono diventati il centro delle nostre esperienze della realtà, e Morricone, di fatto, ha creato le basi di questo immaginario collettivo diventando il compositore più popolare del mondo, e non è un’esagerazione né uno sbandieramento patriottico da commiato ufficiale, è semplicemente la sua storia. Mentre il mondo si trasformava in questa baraonda inquinata, confusa, divisa in paradossi sociali ed economici sempre più accentuati, l’arte prendeva una direzione sempre più fruibile, sempre più globale; ed Ennio Morricone era là che le dava forma.
Mettersi a guardare la lista delle colonne sonore che ha composto è come leggere la storia del cinema in qualche manuale istituzionale, perdi il conto di quello che ha fatto durante sessant’anni e passa di carriera e ti sembra quasi uno scherzo, come a dire “Ma no, non può aver fatto anche quella”. E invece, incredibile a pensarlo nell’era dell’iper specializzazione in cui ognuno ha il suo compito mirato e circoscritto, il compositore romano che non ha mai imparato l’inglese nonostante fosse famoso in tutto il mondo – specialmente negli Stati Uniti, dove è stato per la prima volta a settantotto anni – ha fatto di tutto. Ha creato i suoni del western all’italiana, ha creato le hit più immortali del pop anni Sessanta. Un suono raffinato e “orchestrale”, che ancora oggi quando passa alla radio sembra fatto ieri, è diventato il feticcio dei registi più famosi d’America, è stato imitato, plagiato, coverizzato. Se c’è una cosa che l’Italia ha fatto alla perfezione nel Ventesimo secolo è stata inventarsi un modo unico e riconoscibile di fare cinema, la forma d’arte più giovane che c’era e che in pochissimo tempo è diventata quella più universale, e Morricone, con la sua genialità compositiva, ha creato la parte che mancava. Quando negli anni di massima espansione cinematografica si cominciò a sperimentare quello strano genere noto come spaghetti western, ad esempio – giusto per citare gli inizi della carriera del Maestro – e si giravano film con cowboy e saloon negli studi di Cinecittà, mentre attori come Mario Girotti cambiavano il loro nome in “Terence Hill”, Morricone creava il suono che tutt’ora identifichiamo all’istante con quell’immagine assolata di cactus e pistole. Non c’è bisogno nemmeno di pensarci, un fischio comincia nella nostra testa a suonare anche se non abbiamo mai visto per intero un film di Sergio Leone.
Ma il western è solo l’inizio, tanto che Morricone stesso si stupiva del fatto che tutti lo ricordassero principalmente per quelle colonne sonore, dato che per lui Per un pugno di dollari era addirittura il peggior film che avesse fatto Leone. Anche nella musica pop, un genere che, senza fare i nostalgici del passato, negli anni Sessanta aveva oggettivamente una connotazione piuttosto diversa rispetto a oggi, ciascuna delle sue composizioni sembrava fatta apposta per essere vista mentre la si ascoltava. Basti pensare a una canzone come Se telefonando di Mina o a Il mondo di Jimmy Fontana o ancora Sapore di sale di Gino Paoli fino a Guarda come dondolo di Edoardo Vianello. Quando ascolti la melodia di Sapore di sale ti immagini una Stefania Sandrelli che esce dall’acqua in qualche stabilimento balneare della Versilia in bianco e nero, quando senti Mina che canta Se telefonando la vedi là, con il suo trucco esagerato, il telefono davanti, l’atmosfera da commedia all’italiana. Persino il comico americano Aziz Ansari, solo all’apparenza ben lontano culturalmente dal pop italiano di quegli anni, ha riconosciuto l’enorme potenziale di un pezzo come Guarda come dondolo – o l’ha fatto il suo sound designer – e l’ha inserita nella sua serie Master of None. Una capacità, quella di creare immagini così vivide nella testa di chi sta semplicemente ascoltando un brano, che quando è messa in atto con delle scene realmente girate diventa un moltiplicatore estetico, un connubio di sensi che ti si tatua nel cervello.
Ed è così anche con la colonna sonora dei film di Elio Petri, il famosissimo motivetto di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, per cui basta sentire tre note per avere chiaro davanti a noi il volto di Gian Maria Volontè con i capelli impomatati che parla in siciliano; o per l’introduzione perfetta di Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, con i titoli di testa cantati da Domenico Modugno, in quella geniale intuizione di elencare tutti i partecipanti al film come se fosse un racconto in cui si mescolano forma e contenuto, storia e narratore, fantasia e realtà. O ancora, nella colonna sonora di Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, nella “Ballata di Sacco e Vanzetti”, una melodia che non solo ha reso il film un omaggio a una storia che non bisognerebbe mai dimenticare, ma ha anche ridato vita tramite la musica a due personaggi che altrimenti sarebbero rimasti solo dei nomi scritti sui libri, niente di più. Fino poi al famosissimo Nuovo Cinema Paradiso e la sua musica imprescindibile, anche in questo caso un suono che appena accennato accende immediatamente nella testa l’immagine del bambino e della sala cinematografica. Elencare tutte queste musiche indimenticabili è impossibile in poche battute, anche perché molte di esse non ci siamo nemmeno mai accorti che fossero state scritte da lui; tantissime altre poi bisognerebbe ascoltarle dalla mattina alla sera per rendersi la vita più piacevole, ad esempio quella di Metti, una sera a cena, quella di Novecento, di Todo modo o di La classe operaia va in paradiso.
Morricone è diventato un mito internazionale nel mondo del cinema – inutile fare la lista di tutti i premi e i riconoscimenti che ha ricevuto, compresi i due Oscar – perché ha inventato un paesaggio e una scenografia sonora per qualsiasi film che abbia avuto sotto mano, una cosa fondamentale per chiunque voglia diventare un compositore ma che non sempre riesce in modo così netto, lucido e riconoscibile. Morricone ha creato talmente tante sinestesie da diventare un simbolo, uno stile preciso di arrangiamento e una certezza, quasi come se il suo nome corrispondesse a un genere musicale a sé più che a un artista in particolare. Nella storia del nostro cinema, uno dei più interessanti e variegati del mondo – almeno fino a un certo momento – i compositori di colonne sonore sono un pezzo fondamentale, basti pensare a Nino Rota, Armando Trovajoli, Piero Piccioni o al più recente Nicola Piovani. La loro arte è un patrimonio di cui dobbiamo andare fieri e con la morte di questo grande Maestro abbiamo un’occasione in più per riscoprire, valorizzare e prendere spunto dalla parte migliore del nostro Paese. Ennio Morricone ha creato la colonna sonora del Novecento e la sua scomparsa è solo fisica, naturale, come quella di ogni uomo, perché la sua eredità artistica è ancora presente e lo sarà a lungo.