La presunta categoria degli intellettuali, qualsiasi cosa rappresenti oggi, nel dibattito pubblico ha assunto confini sempre più labili e sfumati ed è ormai sistematicamente sfruttata dalla destra per suscitare l’indignazione social. Viene usata spesso per definire in modo caricaturale chiunque svolga un’attività lavorativa che richieda l’uso del pensiero astratto, sia abbastanza ricco da non avere idea di quanto costi il latte al supermercato e si disinteressi, in fin dei conti, dei problemi del fantomatico “Paese reale”, pur essendo sempre e necessariamente di sinistra.
Che questo stereotipo sia il frutto della recente denigrazione del sapere a favore di una ciarlataneria piaciona, che tanto ha giovato a personaggi come Matteo Salvini, è noto. Eppure, questa rappresentazione dell’intellettuale estraneo ai problemi dei più deboli comunica un certo disagio e un’estraneità del popolo nei confronti di ciò che gli intellettuali di oggi rappresentano. La percezione comune rispecchia comunque un cortocircuito comunicativo tra cultura alta e cultura bassa. Una sorta di divario in cui si va a inserire un certo snobismo dell’alto nei confronti del basso, che finisce per suscitare una reazione di rabbia in una larga parte della popolazione, che sentendosi giudicata rifiuta e disprezza tutto ciò che si crede e si impone come “superiore”.
Una delle esperienze artistiche italiane più interessanti e in grado di sanare questo divario fu sicuramente il progetto dei Cantacronache: un gruppo di intellettuali e musicisti torinesi fondato da Sergio Liberovici e Michele Straniero, fra cui spiccarono i nomi di Italo Calvino, Gianni Rodari e Umberto Eco. In un periodo che andò dal 1958 al 1962, il gruppo di letterati e musicisti torinesi fece della musica popolare il mezzo per esprimere i disagi sociali, politici e culturali di un’Italia alle prese con un enorme cambiamento. I Cantacronache parlavano al popolo con il linguaggio del popolo, senza snobismi di sorta e in un’ottica collettiva e comunitaria, pur in un contesto storico che iniziava a privilegiare l’individualismo, a causa del recente arricchimento tutto privato e privatizzato.
Il progetto si inseriva nel contesto italiano a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, un periodo storico legato a un immaginario di intrattenimento leggero e luccicante, in un’atmosfera di “tutto è possibile” sorretto dalla recente industrializzazione e confluito nelle grandi spiagge affollate e nei corpi scoperti dai primi bikini che si muovevano sul twist allegro di “Guarda come dondolo”. Era l’epoca ritratta da Il sorpasso, il capolavoro della commedia all’Italiana che mostra un Paese che si lasciava alle spalle le asprezze del dopoguerra, prendendosi una rivincita sulla miseria e abbracciando il mito del benessere sfrenato. L’Italia del miracolo economico era anche quella della diffusione di massa di beni di consumo come la televisione e la lavatrice, della corsa costante al progresso, anche tecnologico. Valori come la frugalità e il riserbo venivano spazzati via dalla spregiudicatezza e dalla voglia di divertirsi, in nome di un edonismo tanto accattivante quanto illusorio nel suo promettere di durare per sempre.
La produzione musicale della fine degli anni Cinquanta è sicuramente lo specchio del cambiamento culturale che era in corso: sono gli anni delle mille bolle blu di Mina e dei 24mila baci di Adriano Celentano, con i quali, giovanissimo, sbaragliò le classifiche. Le cosiddette “canzonette” sono leggere, allegre e prestanti. Non raccontano nulla aldilà di ciò che gridano nei loro ritornelli: bolle, balli, baci, amori all’acqua di rose. Rispecchiano al contempo un cambiamento e un vuoto.
È proprio all’interno e contro questo vuoto culturale e critico che si inserisce il progetto dei Cantacronache: i musicisti e gli intellettuali impegnati nel progetto, scrivono e compongono musica con il fine di “evadere l’evasione”. Alle canzoni frivole di Sanremo, oppongono, riabilitandone il valore, testi densi di significati, particolarmente attenti alla cronaca e alla vita quotidiana degli italiani, in particolare di chi se la passa peggio. Infatti, l’altro lato della medaglia dell’Italia del boom economico sta proprio nel prezzo che quel boom richiede di pagare. Dietro all’industrializzazione del Paese si nascondono centinaia di migliaia di operai spesso sottopagati e costretti ad abbandonare il Sud della penisola per raggiungere le zone più industriose del settentrione, vivendo in condizioni pietose dentro o ai margini delle grandi città. La crescita, alimentata da una manodopera a basso costo reduce da un dopoguerra lungo e denso di difficoltà, fu raccontata dai Cantacronache senza idealizzazioni e piuttosto con un’attenzione a chi, più che goderne, ne portava sulle spalle il carico del lavoro.
I Cantacronache si proposero: “Al di là della polemica o della rottura, di evadere dall’evasione, ritornando a cantare storie, accadimenti, favole che riguardino la gente nella sua realtà terrena e quotidiana”. L’idea alla base del progetto era la stessa che animava uno scritto di Umberto Eco, pubblicato nel 1963 all’interno della raccolta Diario minimo, nel quale l’intellettuale immaginava che in un futuro ipotetico non si trovassero altro che i libri che contenevano i testi delle canzoni di Sanremo, e uno storico del tempo cercasse di ricostruire la realtà dell’Italia del boom economico attraverso questo mondo immaginario. Secondo Eco, le canzonette del Festival raccontavano una realtà edulcorata e in ultima analisi fasulla. E così ecco che il progetto dei Cantacronache si proponeva di offrire una contro-narrazione a quest’immagine falsa di un’Italia ricca e sfavillante, cantando – sul modello degli chansonniers francesi e della tradizione dei cantastorie italiani – del proletariato, ancora alle prese con la sopravvivenza, i soprusi e le disuguaglianze perlopiù ignorate dalla politica e dall’opinione pubblica. “All’inizio cantavamo nei salotti bene di sinistra di Torino, poi abbiamo preso l’indirizzo di andare a cantare alle Feste dell’Unità, nella stampa democratica e nelle case del popolo”, racconta Fausto Amodei nel documentario Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica.
In una canzone che si potrebbe definire il loro manifesto le strofe intonano: “Ci dicono cantate svenevoli e amorosi / siate i ritmici giullari dell’era industriale / siate mercanti di piccola illusione / e di cieli dorati / ma soprattutto gonfiate / le bolle di sapone. E ancora: Ci dicono tacete / perché il silenzio è d’oro / su miseria e lavoro / tacete della vita / se ha giorni grigi e duri / tacete degli amori / se sono tristi e oscuri / tacete anche dei fiori”. E proprio della vita, con giorni grigi e duri, i Cantacronache cantavano ne “La Zolfara”, brano in seguito reinterpretato e reso noto da Ornella Vanoni, che ricorda le tragiche morti sul lavoro nelle cave di zolfo siciliane. I minatori dal viso scuro e le mani consumate dal lavoro rappresentavano l’ombra di un progresso economico parziale e illusorio, che richiedeva loro di rinunciare alla luce del Sole quando non alla vita in toto, per l’arricchimento dei “signori”, che nel migliore dei casi si limiteranno a portare fiori in ritardo sulla loro tragedia.
Nella “Canzone triste” scritta da Italo Calvino nel 1958 e interpretata da Margot, si narra invece di moglie e marito che a causa dei turni in fabbrica non riescono più ad incontrarsi: “Lui aveva il turno che finisce all’alba / entrava nel letto e lei n’era già fuori”. Personaggi che ritroviamo anche nel racconto “L’avventura di due sposi”, raccolto ne Gli amori difficili. Nello stesso anno, mentre Domenico Modugno volava nel blu dipinto di blu vincendo Sanremo, a Torino, al corteo della Cgil, gli altoparlanti riproducevano “Dove vola l’avvoltoio”, un altro brano scritto da Calvino e musicato da Sergio Liberovici, dove a volare sono i famelici animali, metafora della natura distruttiva e insensata della guerra. Gianni Rodari scrisse invece “Girotondo di tutto il mondo”, seguendo la sua vocazione sempre efficace di raccontare il mondo ai bambini; Umberto Eco si dilettò poi in una parodia di 24 mila baci dal titolo “24 MEGATONI”, un inno contro la minaccia atomica della guerra fredda: “Con ventiquattro megatoni / risolverem tante questioni / con una bomba già si sa / difenderem la libertà. / Al cittadino d’ogni idioma / deformeremo il cromosoma / e sarà cosa entusiasmante / veder nascere un mutante”.
Aldilà delle canzoni in sé, oggi, sarebbe fondamentale riabilitare il significato che questo progetto ha avuto per la cultura italiana, tanto a livello artistico che sociale. In un’intervista, la musicista e etnomusicologa Giovanna Marini racconta: “I Cantacronache chiusero la loro attività. Tutte queste iniziative sono destinate a fallire, il loro destino è il destino delle minoranze, non dobbiamo illuderci. Ma sono fallimenti di cassetta, non di memoria”.
Il lascito fondamentale di quest’esperienza che seppe riunire alcuni tra i più grandi intellettuali e musicisti dell’epoca per raccontare le storie degli esclusi dai grandi palcoscenici, sta infatti nell’intenzione, molto più che nel risultato concreto. Ciò che fu un fallimento in termini “commerciali” aprì la strada al grande cantautorato politico degli anni Settanta che vide l’emergere di artisti come De André, Guccini e Gaber, questi sì, acclamati dal grande pubblico, complici i tempi diversi e il fermento politico in corso. Quello dei Cantacronache fu un seme di cui in seguito si raccolsero i frutti. Ciò che quindi gli intellettuali riuniti intorno a questo progetto potrebbero insegnare a noi e a chi oggi si occupa di cultura e politica in Italia, è che un progetto collettivo, pacifista ma mai neutrale, schierato dalla parte degli ultimi senza porsi al di sopra di loro, può essere un input in grado di colmare, ora o più tardi, quel divario sempre maggiore tra cultura alta e cultura bassa ancora presente, che spesso viene sfruttato dalle forze sovraniste e populiste per dividere il Paese. Come canterà proprio uno degli eredi dei Cantacronache qualche anno dopo, riprendendo Calvino: “Libertà non è star sopra un albero, libertà è partecipazione”.