Ogni estate ha i suoi tormentoni musicali, e questa di sicuro è una tradizione che in Italia rispettiamo con rigore da decenni. Solo che negli ultimi tempi oltre al lavoro svolto da radio e televisione che selezionano quali brani dovranno scalfire il nostro cervello da maggio a settembre, si sono aggiunte anche le stories di Instagram. Non bastava entrare in un bar, dal parrucchiere, in macchina con qualcuno o al supermercato per sentire sempre la stessa canzone – che si chiamerà “tormentone” per un motivo; adesso abbiamo aggiunto anche un’ulteriore fagocitazione passiva di materiale audio e video attraverso il gesto automatico dello scroll su Instagram. Così, a stagione finita, possiamo senza troppi indugi eleggere a colonna sonora ufficiale delle stories di chiunque popoli questo pianeta la canzone di Billie Eilish “Bad guy”. E chi sostiene di non essersela trovata davanti per tutta l’estate almeno una volta al giorno come soundtrack delle immagini delle vacanze del 2019 – con eventuale testo che scorre annesso – varie o sta mentendo o forse non ha mai aperto la app con il volume attivato. O forse è stato solo graziato da una filter bubble di ultrasessantenni che al massimo optano per Peppino di Capri.
Il motivo per cui un tormentone diventa tale non è solo imputabile a una sua natura martellante e ossessiva e al modo in cui i media si mettono d’accordo per fornirgli tutto lo spazio necessario; né il suo successo si può confinare a una mera questione di appeal tematico, come succede nella maggior parte delle canzoni pensate per l’estate in cui si fa riferimento a mojito da consumare, spiagge in cui bazzicare e relazioni sentimentali fugaci sostenute dall’aria condizionata. Ci sono anche delle componenti extra-diegetiche rispetto alla stagione in cui ci troviamo che garantiscono un grande riscontro, specialmente oggi che siamo ormai soliti a combinare la musica con “impressioni” visive attraverso i social.
La canzone di Billie Eilish, infatti, non parla né di mare, né ha ritmi latini particolarmente compatibili con l’atmosfera vacanziera, né possiamo effettivamente collocarla in una macrocategoria da “tormentone dell’estate”, eppure da quando è uscita è davvero entrata a gamba tesa nella nostra vita. Il motivo di questa fortuna non solo stagionale è che in effetti, la cantante “nata pochi mesi dopo l’11 settembre”, da quando è in circolo nel mercato musicale ha battuto una serie di record ed è diventata idolo di una generazione in particolare, quella dei nati dopo il 2000 – la “generazione Z” – riuscendo al contempo ad attirare su di sé le attenzioni anche di tutti gli altri. Bad guy, che si presta così bene a qualsiasi frammento della nostra vita social, è un brano che definirlo “catchy” sarebbe riduttivo, così come relegarlo a semplice successo commerciale. Perché sì, è senz’altro una hit da milioni di ascolti, ma non si può negare che sia anche un prodotto ricercato e innovativo, soprattutto se lo paragoniamo al panorama del genere.
Il fenomeno Billie Eilish dunque, a parte aver invaso ogni centimetro delle nostre orecchie negli ultimi cinque mesi, è molto interessante per diversi motivi. Primo fra tutti il fatto che questa ragazza veramente molto giovane – ha debuttato nel 2015 quando aveva quattordici anni – e amata principalmente dai suoi coetanei è forse uno dei primi veri fenomeni di massa in cui la cultura di internet e la musica si legano in modo così indissolubile. Già qualche anno fa, per esempio, lo youtuber FilthyFrank aveva in qualche modo trasformato del materiale nato e pensato solo per internet in una sua carriera da cantante, debuttando come Joji e utilizzando buona parte del suo immaginario online in una nuova formula. Qualsiasi artista oggi usa i social, questo è ovvio, ma pochi sono tanto nativi da fare sì che la propria musica attinga in modo così profondo dall’estetica della rete senza che questo si noti in modo palese: Fabio Rovazzi, che da gag di Facebook ci ha costruito una sorta di carriera musicale, per esempio, sta solo “musicando” internet. Billie Eilish, che in questo universo ci sguazza da quando è nata è come se fosse lei stessa di per sé un meme, un account Tumblr che si esibisce su un palco, una storia di Instagram che diventa realtà. Tutto ciò si riflette per esempio nel suo stile, una sorta di quintessenza di contemporaneità, che non a caso diventa una collezione di vestiti per Bershka o una linea di merchandise “Unisex Vegan”.
E infatti, tutto nel suo look trasuda presente, giovanissima età e trend: un viso angelicato – perfetto per la fotocamera frontale del cellulare con cui fare selfie – ma coperto da quei brufoli concessi solo dal sentimento odierno di body positivity, che sdogana anche un corpo non da classica pop star alla Ariana Grande o Dua Lipa, né alla Britney Spears o Christina Aguilera, per andare indietro nel tempo; capelli decolorati, tinti di blu, di azzurro e di tutti quei colori che negli ultimi anni hanno fatto come da bandiera di “alternatività” per gli adolescenti ribelli; vestiti larghi, a metà tra uno stile hip hop anni Novanta ed emo/gotico anni Duemila, ma rigorosamente compatibile con un’immagine gender fluid.
Billie Eilish, vista da fuori, è l’incarnazione artistica di una ragazza di sedici anni che passa le giornate a scrollare video su Tik Tok e a guardare serie tv su Netflix, un concentrato di tutti quei modi di apparire e di presentarsi che compongono la moda teen di oggi che forse, a differenza di quelle “di ieri”, ha come caratteristica in più la forte tendenza a pescare dal passato e a rimettere insieme in questa forma attuale postmoderna, oltre che a volersi slegare da categorie e modelli precostituiti di genere troppo rigidi e obsoleti. Anche quando viene intervistata da Pitchfork e le scappa un rutto, o quando si lascia sfuggire un “fuck” sul palco perché si scorda il testo di una sua canzone, o quando addirittura cade durante un’esibizione – come è successo nel suo live a Milano – trasuda quel menefreghismo ironico e nichilista da adolescente svogliata, una che dice di non volere mai avere un fidanzato perché “l’esclusiva le sta stretta”. E come darle torto, nell’era di Tinder e del riscaldamento globale non c’è tempo da perdere in idiozie da Dawson’s Creek tutto romanticismo e monogamia, meglio godersela finché dura.
Se lo stile di questa cantante non ancora maggiorenne che è cresciuta a Los Angeles senza andare a scuola – i genitori, due attori non particolarmente famosi, hanno deciso di educare i loro figli a casa facendo il possibile affinché diventassero entrambi due dispensatori eccellenti di creatività e successo, e sembra ver funzionato – si fonda su un rimescolamento di estetiche pop e di sottoculture degli ultimi trent’anni, anche la musica rispecchia alla perfezione questa intenzione. Ma un elemento che non si vede né si sente gioca un ruolo piuttosto decisivo: suo fratello Finneas O’Connell, anche lui musicista che ha recitato in Glee e in Modern Family, è in un certo senso la mente creativa che sta dietro a questo progetto solista, avendo lui stesso composto la prima canzone che ha portato il successo alla sorella, Ocean Eyes, originariamente pensata per la sua band.
Non che Billie Eilish da sola non basti, è chiaro che nella sua personalità risiede la percentuale maggiore del mix vincente, ma la loro collaborazione è stata decisiva per far fare a entrambi un vero e proprio salto di qualità che ha portato al successo mondiale attraverso la diffusione del loro primo singolo su SoundCloud. Così, creando una densa base elettronica – quella che ammicca a uno stato d’animo un po’ danzereccio e “sassy”, per dirla con un hashtag – e combinandola a una voce che sa essere al contempo sia molto dolce e celestiale, a tratti un po’ ASMR, che insolente e sprezzante, tanto da concludere una strofa con un verso da chat come “duh”, Billie Eilish trasforma in hit tutte le sensazioni di disagio e nichilismo della sua generazione. Emozioni alla 13 Reasons Why che tradiscono uno stato d’animo generale non proprio al massimo del suo ottimismo, quanto meno tra i più giovani che sono nati e cresciuti in questo perenne memento da fine del mondo, fine dei sogni e psicofarmaci.
Temi del genere, trattati con disinvoltura come nelle canzoni di Billie Eilish, hanno fomentato come sempre negli adulti da rubrica “Capiamo i nostri figli” paura e angoscia per questi giovani che trovano nella malinconia e nel sad pop il rifugio pericoloso di qualche principio di depressione che nel peggiore dei casi sfocia in gesti estremi come il suicidio. Come sempre in questi casi, il noioso e inutile dibattito sulle produzioni culturali che attingono da immaginari simili, che sia un trapper che parla di droga o una ragazzina svogliata e trincerata dietro un’armatura di cinismo da dark humor internettiano che canta di depressione, si limita ad additare questi fenomeni come potenziali germi che infettano le menti dei più deboli. E anche con Billie Eilish serve spiegare che no, non è la sua musica che invoglia i teenager a farsi del male, semmai è il mercato dell’industria culturale che intercetta questo tipo di sentimento generale, in particolare giovanile, e lo impacchetta in una sintesi pop incarnata alla perfezione da questa artista. Un film che parla di mafia non ti fa diventare un mafioso, Achille Lauro che parla di ecstasy (se davvero in Rolls Royce ne ha mai parlato) non ti spinge a impasticcarti, Billie Eilish non tenta i giovani con immaginari dark e idolatria della morte: se tua figlia è depressa e alienata forse è perché vive in un mondo in cui il capitalismo si è divorato ogni briciolo di spontaneità e il consumismo senza freni ci ha portati a vivere nell’angoscia perenne di aver finito ogni risorsa. Motivo per cui, quando intervistata da Vanity Fair, consapevole della radice del suo successo, internet (ma fino a un certo punto, perché c’è di mezzo anche una gigantesca etichetta discografica come la Interscope e la storia del “è stato tutto casuale” non è così vera), le viene da suggerire alla sé del passato “Do not post everything you think”: e di parlare del fatto che tra i suoi colleghi non ci sia nessuno di veramente felice, “We are all sad motherfuckers”.
Nel 1999 usciva “…Baby One More Time” di Britney Spears, vent’anni dopo a svettare nelle classifiche pop c’è una ragazza che di quell’immagne acqua e sapone da scolaretta della classe accanto ha conservato ben poco. Nella storia della musica leggera c’è sempre stato qualcuno che ha fondato la sua carriera mainstream su un’immagine che vuole dare un’impressione di anti-mainstream, così come di ragazze che hanno cantano tristezza e malinconia ne è pieno l’archivio di MTV. Billie Eilish, che è una sorta di mix atomico tra Lana Del Rey e Avril Lavigne, ha avuto la grande intuizione – probabilmente anche inconsapevole, o così è bello pensare ogni tanto concedendosi la sospensione dell’incredulità – di mettere su un palcoscenico proprio tutto quel rigurgito anti-pop star classica, disidratata dalle diete costanti e agghindata come una bambola gonfiabile. Nel farlo è diventata lei stessa un’enorme e potente pop star, ma la sua diffusione gigantesca a livello commerciale non significa solo che le sue canzoni in effetti siano fatte molto bene, e nel pop americano femminile ogni tanto ci stia pure di non doversi sorbire solo ballad smielate da Taylor Swift; significa anche che le generazioni più giovani abbiano bisogno che qualcuno le rappresenti per come sono, ossia tristi. Che questa tristezza poi sia solo funzionale a una carriera da adolescente prodigio, è tutto da vedere.