Le imprese negazioniste di Sgarbi sul Covid devono finire, per pura visibilità mediatica scherza col fuoco

Quando ero al liceo con la mia classe andammo in gita in Emilia-Romagna e tra le tappe c’era, ovviamente, Ferrara. Arrivati nella città degli Estensi, ci fecero fare uno di quegli orrendi bus-tour in stile safari e a fare da Cicerone c’era un uomo sulla settantina che col microfono ci illustrava le bellezze del luogo. Mentre parlava, a un certo punto, per descrivere una zona di Ferrara meno splendente delle altre, si mise ad apostrofare le prostitute africane che lavoravano lì intorno con parole piuttosto colorite, cosa che divertì molto noi studenti quattordicenni, e molto meno le nostre professoresse. Quel modo di parlare, di mescolare turpiloqui a descrizioni forbite di opere d’arte, di utilizzare la propria conoscenza come lasciapassare per un piano comunicativo molto più volgare e colorito di quello che dovrebbe adottare qualsiasi professore di Storia dell’arte mi fece subito pensare: questo tizio sembra proprio Vittorio Sgarbi. Alla fine del giro, disse che in effetti era stato proprio il professore di Lettere al liceo del famoso critico d’arte e che ora, in pensione, riempiva così le sue giornate. Non so dire se quella fosse una bugia che si era inventato per vendersi meglio, né se in effetti quell’uomo fosse mai stato un professore di liceo a Ferrara, ma il tono, i contenuti e le modalità di eloquio erano effettivamente identiche. Il fatto che anche una ragazza di quattordici anni lo avesse notato vuol dire che si tratta di un cocktail comunicativo tanto rodato e riconoscibile da diventare un vero e proprio stile, qualcosa che Sgarbi ha usato per farsi riconoscere e che è riconducibile solo al suo modo di abitare il dibattito pubblico. Un modo che rimane uguale da ormai trent’anni e che ormai sarebbe il caso di limitare, se non eliminare del tutto, quando si affrontano alcuni temi in televisione o alla radio.

Per fare un’analisi sensata e senza troppi sbilanciamenti dettati da gusti personali su un personaggio come Vittorio Sgarbi bisogna essere onesti su un punto cruciale, ossia che per quanto sia bello sognare le utopie, immaginare una televisione del tutto priva di siparietti e di giullari è del tutto inutile. La tv, sia quella di Stato che quella privata, non può e non deve essere solo un luogo di sobrietà e contenuti alti, come tutto ciò che fa parte dell’essere umano si nutre di contraddizioni, momenti interessanti e puro svago, toni educati e composti e toni esagerati e violenti. Non penso che eliminare del tutto la violenza verbale e la volgarità dalla tv equivalga a cancellare questi due elementi anche nella realtà; credo però che debba esistere un equilibrio tra le due parti e che, in alcuni casi, il fatto che certi modi di fare e di affrontare gli argomenti nel dibattito pubblico siano legittimati dalla questione dell’intrattenimento e dello share porti a un notevole abbassamento di livello, in modo particolare quando si tratta di spazi privati e quindi, in teoria, gestibili in modo molto più libero. Vittorio Sgarbi, da questo punto di vista, non solo è di fatto un simbolo della televisione recente, quella degli anni in cui le reti di Berlusconi sono diventate una colonna portante dell’intrattenimento italiano – con tutte le conseguenze che ha portato questa rivoluzione mediatica – ma è anche la prova di quanto si possa facilmente scadere in una rappresentazione orrenda, diseducativa, fastidiosa pur di portare avanti il proprio personaggio.

Vittorio Sgarbi, infatti, non è di certo l’unico protagonista “eccentrico” della nostra televisione, né sarà di certo l’ultimo. Vedere le sue reazioni, sentire le sue urla e poter assistere a questo turbinio di rabbia ossessiva che mette in scena praticamente ogni volta che va in onda è proprio la ragione per cui in tutti questi anni non è mai passato di moda. Già nel 1990, un professionista della televisione come Beniamino Placido – una persona che ha portato la nostra tv su ben altri livelli, utilizzando la cultura senza il bisogno di trasformarla in una pagliacciata – individuava in Sgarbi questa componente grottesca necessaria e strumentale alla sua scalata mediatica. Senza le sbroccate del critico d’arte col ciuffo brizzolato più invidiato d’Italia, senza i suoi riferimenti volutamente sboccacciati, senza il suo costante trasformismo politico che ci fa sussultare ogni volta “Ah, ma allora adesso Sgarbi si candida con tizio!”, questo personaggio sarebbe rimasto nelle retrovie dell’intrattenimento. I suoi insulti ripetuti all’infinito, combinati con quella che sembra essere una cultura in campo artistico esposta con grande dedizione – ma non sono un critico d’arte e non saprei dire se è in effetti così approfondita come sembra – creano nello spettatore questo senso di Schadenfreude che viviamo nel momento in cui possiamo vedere un ipotetico avversario annullato. Siamo tutti lì, in attesa che Sgarbi vada in escandescenza, che ne faccia una delle sue o che, come succede in tempi recenti, stacchi finalmente gli occhi dallo smartphone che tiene sempre in mano per cominciare un’invettiva contro qualcuno o qualcosa.

Gianfranco Funari, in un certo senso, utilizzava un metodo simile, non tanto nella forma o nei contenuti ma nell’idea per cui tutti sono pronti a vederti fare quello che ci si aspetta da te, presentatore pittoresco. Tina Cipollari, personaggio storico della gang di Maria De Filippi, è ormai una caricatura di se stessa e dei suoi modi da vamp mattatrice, e quando in tv mandano in onda l’ennesimo finto litigio con Gemma Galgani sappiamo esattamente cosa stiamo per vedere e ci piace (se ci piace) per questo. Mario Giordano, che dalla sua carriera penso tutto si poteva aspettare tranne che diventare il protagonista della trasmissione più grottesca che avremmo potuto desiderare dagli studi di Rete 4, trascorre le puntate urlando alla telecamera e spaccando zucche con una mazza da baseball inveendo contro Halloween – cosa che peraltro fece proprio Sgarbi molti anni prima, nel 1998, a Sgarbi Quotidiani. Insomma, il piacere del brutto, dell’errore, dell’insulto e della volgarità – come parodiava Nanni Moretti in Sogni d’oro – è radicato negli schermi delle nostre tv, fa parte della cultura di cui siamo parte e per quanto si possa provare repulsione e fastidio nei confronti di tutto ciò, questo mondo continua a esistere e magari, per certi versi, ha anche una funzione catartica. Se si parla di temi che vanno oltre il mero intrattenimento, però, di questioni delicate e soprattutto complesse come un’emergenza sanitaria, affidare ai fenomeni da baraccone il racconto della realtà non soltanto è disonesto ma è anche pericoloso – perché non è vero che per lo share vale tutto, e no, non siamo in un circo, la tv è anche informazione.

Di recente mi è capitato di vedere diversi video di persone negli Stati Uniti che si stanno rivoltando alle restrizioni imposte dalle misure sanitarie. In sostanza, uomini e donne che protestano per tornare a lavorare, che si rifiutano di indossare la mascherina protettiva, che sputano o tossiscono contro chi in luoghi chiusi chiede loro di rispettare le distanze di sicurezza. Quando pensiamo all’America di solito ci immaginiamo i loft newyorkesi o gli studios hollywoodiani; raramente la prima cosa che ci viene in mente è che, in effetti, un’enorme percentuale di popolazione, l’elettorato trumpiano, somiglia più a uno spin-off di Tiger King che a un film di Woody Allen. Proprio in questo momento così incredibile e rischioso che stiamo vivendo quasi tutti sul pianeta, la comunicazione delle notizie e la gestione dell’emergenza vanno di pari passo. Noi non siamo nella “rusty belt” americana, certo, ma siamo comunque un Paese in cui le differenze sociali e l’entusiasmo dettato da urlatori e sbandieratori di verità nascoste è dietro l’angolo, se non quasi sempre al nostro fianco. Veicolare un messaggio ambiguo, che metta la pulce nell’orecchio di chi magari è già abbastanza frustrato e colpito dalla situazione, è quanto di più rischioso in un momento in cui siamo tutti chiamati al rispetto di alcune regole che, per quanto in alcuni casi opinabili, possono essere fondamentali per contenere il danno. Se quel messaggio poi è anche condito dalla verve macchiettistica di un uomo di spettacolo famoso per aver urlato offese in faccia a chiunque, da Alessandra Mussolini a Barbara D’urso, tutto ciò che concerne il contenuto diventa inevitabilmente un ennesimo show, un siparietto di cui nessuno ha bisogno in questo momento.

Vittorio Sgarbi, infatti, durante i mesi di lockdown e nelle settimane precedenti, ha combattuto la sua battaglia mediatica anti-coronavirus, ossia diffondendo prima invettive contro la minaccia fantasma di un’epidemia che stando a lui non esiste, che non è mortale, poi continuando dicendo che la Cina ci nasconde qualcosa e che il virus è un virus cinese, come se le malattie avessero il passaporto e poi, ancora, portando avanti una lotta alle mascherine. Insomma, Sgarbi ha utilizzato i mezzi di comunicazione che ha a disposizione, quindi praticamente tutti, dalla radio a YouTube, per fare il suo solito spettacolo pittoresco in cui ci obbliga a sentire le sue urla, come sempre chiamato in causa in quanto opinionista scorretto che dà pepe alla situazione. Ma sostenere cose come “Siamo in una dittatura di falsi scienziati”, mettendo in discussione gli approcci e i tentativi medici portati avanti durante la pandemia, sostenendo che l’unica cosa che il mondo scientifico dovrebbe fornire sono certezze, è quanto di più sbagliato si possa fare in questo momento: la scienza non è una certezza, la scienza è un metodo che indaga per trovare spiegazioni e soluzioni quanto più efficaci possibili a problemi che fanno parte della natura, non deve fornici dei credo come fosse una religione a cui convertirsi, è stupido crederlo.

Sbraitare alla radio e in tv che gli scienziati sono solo incompetenti in contraddizione tra loro, come se ci fosse un team Gismondo e un team Burioni, non fa altro che accentuare ancora di più la tifoseria dell’opinione pubblica che divide il Paese, in un momento in cui i separatismi sono quanto di meno indicato. Stiamo già vivendo una serie infinita di situazioni critiche e senza precedenti; lo Stato e i media ci hanno messi spesso l’uno contro l’altro trasferendo le responsabilità delle gestioni sbagliate dai vertici al cittadino instaurando una sorta di polizia improvvisata che ora prende la forma di “assistenti civici”; è proprio in questa situazione così assurda che il dibattito pubblico necessita di toni controllati, opinioni valide e non teatrini messi in scena per puro amore dello show.

Vittorio Sgarbi non è uno scienziato, non è un medico, non è un virologo e nemmeno un epidemiologo, non è nemmeno un giornalista, un sociologo, un antropologo o un filosofo: è un uomo di spettacolo, chiamato in causa per il suo modo di interagire quasi sempre sopra le righe, e una televisione satura di anni di tuttologi chiamati a riversare la propria opinione su qualsiasi tema, dal possesso d’armi al sesso di Vladimir Luxuria, ha bisogno almeno in questo periodo di ripulire il filtro della decenza. Vittorio Sgarbi, come da tradizione farsesca italiana, è un personaggio televisivo che si è prestato alla politica utilizzando la sua visibilità come supporto per le sue innumerevoli candidature. Ha agito indisturbato nel mare incerto della popolarità rinnovata da scandali e numeri mostruosi da tendone da circo – dal recupero della Gioconda alle gag di dubbio gusto con Le Iene – e con questa sua cifra stilistica, che persino un adolescente in gita a Ferrara riesce a individuare, è rimasto sempre più o meno a galla nel dibattito pubblico, un po’ per anzianità un po’ per questo suo ruolo da mascotte delle nevrosi giustificate con la scusa della sua grande cultura; una cultura che sicuramente avrà, ma che di certo non tocca ambiti scientifici.

Se Sgarbi è rimasto vivo e vegeto solcando anni di televisione, politica e quant’altro, passando da ateo a cattolico come se nulla fosse, giusto per legittimare di volta in volta le sue argomentazioni, se è il simbolo del trasformismo mediatico all’italiana, se è la quintessenza di quel senso di repulsione e attrazione decadente, ultimo baluardo di una volgarità tardo-berlusconiana in stile Bunga Bunga e simili, comprendo le ragioni della sua popolarità sempreverde. Capisco anche il perché della sua presenza in tv, anche quando è imbarazzante, così come trovo perfettamente spiegabili anche i suoi cambi repentini di umore, quando dimostra di poter anche spiegare con calma e raziocinio le sue posizioni. Non capisco, però, perché proprio ora, quando i mezzi di comunicazione sono già intasati da versioni contrastanti, opinioni non richieste, strumentalizzazioni delle tragedie e corse per scaricare il barile dei fallimenti disastrosi di questa epidemia dovremmo aver bisogno del suo ennesimo spettacolo su temi di cui lui, così come la maggior parte di noi, di fatto non capisce quasi nulla, solo per il gusto di vederlo sbraitare ancora una volta.

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