Con "Una giornata particolare" Scola ha innovato il modo di raccontare omosessualità e femminilità - THE VISION

Ballando ballando si può andare verso la speranza”, afferma Ettore Scola, citando il titolo di una delle sue opere più note, in un’intervista recuperata dalle teche Rai. E ora più che mai abbiamo bisogno di sentircelo dire per trovare le risorse per attraversare questo periodo.

Scola esordì nel 1954 come sceneggiatore con il film Due notti con Cleopatra, in cui Mario Mattoli dirigeva Alberto Sordi e Sophia Loren. E da quel momento in poi lavorò sempre con l’obiettivo di seguire le tracce di Comencini e Monicelli, coltivando però una stima particolare per Antonio Pietrangeli, un autore a suo avviso poco compreso e molto sottovalutato. Scola faceva parte di quella generazione di registi che riuscirono a essere internazionali pur rimanendo pienamente calati in un’identità nazionale ben definita, lontani dal sensazionalismo retorico e dal desiderio di emulare a tutti i costi il gusto e le avanguardie con il solo fine di piacere al di fuori dai confini. Eppure, per certi aspetti, era molto più innovativo di altri registi che si sforzavano di apparire moderni.

La miglior commedia all’italiana, quella di Scola e di altri suoi colleghi, restava molto vicina alla realtà, sulla scia del Neorealismo; era priva di eventi eclatanti, ma poteva vantare di saper raccontare l’italianità, mettendola in scena senza filtri, con un po’ di amarezza, ma non troppa. Pensiamo, ad esempio, al suo capolavoro universalmente riconosciuto C’eravamo tanto amati: un ritratto senza tempo della società, in cui il regista ha reso omaggio alla nostra memoria ma anche alla nostra identità, ripercorrendo trent’anni, dal 1945 al 1974, di Italia attraverso le vicende spicciole di un gruppo di amici. Ma ogni sua opera riusciva a essere lungimirante, senza data di scadenza, perché parlava a un’umanità che, in fondo, non è mai cambia per davvero. Il cinema di Scola non lasciava spazio ai “prodotti di pronto consumo”, come li definiva. Dedicava le sue attenzioni e i suoi sforzi alla “merce meno diffusa”, come ha rivelato in una delle ultime interviste rilasciate. La massima cura nel dirigere un film, secondo lui, andava posta nelle emozioni che venivano trasmesse, non tanto nella ricerca del dettaglio estetico più sofisticato e preciso.

C’eravamo tanto amati (1974)

Il film che forse più di tutti riesce ancora a dialogare profondamente con l’oggi, e in particolare con chi si interroga su come sia possibile vivere a pieno nello spazio di quattro mura e con addosso la paura per un pericolo invisibile e incipiente, è probabilmente Una giornata particolare (1977), un’opera di estrema raffinatezza che sembra costruita su misura intorno all’arte magistrale dei due protagonisti: Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Ettore Scola, con questa pellicola, riesce a dimostrarci ancora oggi che la vita e l’amore non hanno niente a che fare con lo spazio e il tempo, che bastano poche ore e un paio di modesti appartamenti per scrivere una grande storia, e che per mettere insieme un dramma che mette a nudo l’animo umano e riesce a commuoverci profondamente sono sufficienti due bravi attori, anche vestiti alla bell’e meglio.

Non si pensa mai che anche in una giornata normale si possa annidare qualcosa che valga la pena di essere raccontato. Si tende a considerare l’esistenza come un’entità astratta, un fluire continuo e compatto, ma oltre a una schiera di “ore danzanti”, una giornata può cambiare la vita e la Storia. Soprattutto se quella giornata è il 6 maggio del 1938, che nei libri di scuola ci è finita per la visita di Adolf Hitler a Roma. Antonietta, la protagonista, resta a casa da sola mentre il marito e i figli escono in strada per omaggiare l’incontro tra il Duce e Hitler.  Poco conta la sua presenza all’avvenimento insieme agli altri membri della famiglia: viene esclusa. D’altronde si sa com’è, “per portare avanti una casa con sei figli” non ci si possono prendere delle pause, ma soprattutto: “da ignorante tu puoi fare qualunque cosa, ma non c’è rispetto”. Gabriele, invece, in passato era un conduttore radiofonico, poi è venuta a galla la notizia della sua omosessualità e la sua vita è radicalmente cambiata, in peggio.

I due protagonisti si trovano ai margini della storia e della società, finanche ai margini delle loro stesse vite – lui medita il suicidio, lei sopravvive per abitudine – ma si incontrano al centro della scena, per un futile imprevisto. E nel bel mezzo dell’inquietante pantomima di balilla e camicie nere, si muovono come ombre silenziose e invisibili, ma non troppo – soprattutto per una bisbetica portiera che tutto sente e tutto vede – tessono le trame di una microstoria che nessuno dovrà mai raccontare. E, in questa giornata particolare, decidono di recidere temporaneamente i fili che li costringono a muoversi in un certo modo. Ma, a volte, anche un impercettibile movimento nella vita è pur sempre un mutamento di stato da cui non si torna indietro. Così, tra le pieghe di un’apparente quotidianità, si insinua una scintilla che non divampa mai, in un intreccio che non può trovare compimento. È ciò che accade senza mai accadere sul serio che cambia per sempre ogni cosa, pur lasciandola del tutto intatta, introducendo un movimento che rimane ignoto soltanto a chi non sa sentire. Eppure, in pochi metri quadri si consuma l’atto più sovversivo del mondo, quello silenzioso della piccola felicità e quello sconvolgente dell’amore.

Gabriele ha in sé un profondo e consapevole desiderio di sovversione, che non è solo quella politica, ma quella di voler essere altro rispetto a ciò che la storia gli impone. Il suo è il desiderio di rivoluzione di un’umanità sensibile in un’epoca in cui la sensibilità viene considerata una depravazione e i valori sono distorti alla luce di una morale di guerra, incarnata dal Duce, per cui l’amore è solo quello che serve a procreare, l’uomo è tale solo in quanto marito, padre e soldato. Antonietta, invece, nel nome del Duce sopravvive e sopporta, vittima di un amore prestabilito, fattrice. Sembra persuasa dall’ideologia dominante, inizialmente poco disposta a cedere ai dubbi che le insinua il dirimpettaio, ma sin dall’inizio non è casuale il dettaglio del ciuffo di capelli lasciato scomposto sulla fronte, come per una sorta di noncuranza. È forse questo, infatti, il suo primo atto di disobbedienza a un moralismo ferreo, così rigido da risultare violento, asfissiante. Il secondo è la fiducia nel suo stesso istinto, laddove i tempi e le circostanze avrebbero imposto di dar retta alle voci di contorno che si scagliavano contro Gabriele, senza alcuna riserva, il riuscire a vedere oltre.

Se allora Antonietta ritrova la passione e il brivido della risata e della vita, Gabriele prova l’ebbrezza di sentirsi finalmente compreso, apprezzato, avvicinato per ciò che è: una rivoluzione quasi impercettibile, che sfocia in un bacio, esplode in un atto sessuale a metà e poi si richiude in se stessa; così come si chiude la finestra del sovversivo dietro agli occhi consapevoli e desiderosi di Sophia Loren; come è chiuso il libro galeotto de I tre Moschettieri che lei ripone con cura nella dispensa, richiamata a letto, come ogni sera, dalla voce aspra del marito. Pochi dettagli che restano a ricordarle quella vita potenziale che ormai non può più – e forse non è mai potuta – essere, eppure a suo modo è esistita. Il dramma si conclude nel rispetto di quell’aristotelica unità di tempo suggerita dal titolo, come fosse una tragedia antica. Il lieto fine manca, ma dipende dai punti di vista, perché la crepa prodotta nella quotidianità dei due resta.

Le rinunce e l’insoddisfazione sono ancora parte di un mondo in cui uomini e donne sono costretti – oggi come ieri – a inventarsi la vita dove sembra non ce ne sia più: un secolo fa per colpa di un nemico autoritario e manifesto, oggi a causa di un pericolo che in un modo o nell’altro si sta prendendo le vite di tutti. Gli abusi e le discriminazioni condannano ancora uomini e donne a simulare orgoglio e certezze, per coprire i propri abissi e nascondere a tutti quanto fa male diventare ciò che si è quando la libertà è soltanto una parola. Scola, però, con le sue opere è riuscito, come solo lui sapeva fare, a mostrare la serendipità che prima o poi ci trasforma, quell’istante inconfondibile di felicità effimera, per certi aspetti proibita, come fosse rubata; quell’incontro o quella fortuita circostanza che mai diventa atto per davvero, ma che mai si dimentica. Non ha importanza che conseguenze ha o quanto dura, magari anche una sola giornata, ma quella resterà per sempre una giornata particolare.

Segui Martina su The Vision