Forse il true crime ci sta un po’ sfuggendo di mano - THE VISION
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Viviamo in un’epoca in cui alcuni fenomeni da sempre esistiti diventano trend, e in base a una denominazione, a nuovi metodi di fruizione o al modo in cui vengono categorizzati assumono una forma di fruizione diversa. È il caso del true crime.

Il genere, che esiste da prima dell’invenzione della stampa, quando si narravano oralmente le vicende di assassini spietati, torture, stupri e crimini di ogni genere, oggi si è trasformato in uno dei tipi di intrattenimento preferiti dal pubblico. Il mercato non si è certo lasciato sfuggire questa occasione e quindi nel giro di poco tempo la produzione di podcast, video e programmi radiofonici a tema è cresciuta esponenzialmente. Tanto che oggi si finiscono per seguire questi format come una sorta di rumore bianco nei ritagli della giornata. Negli ultimi anni il true crime è infatti stato sdoganato come prodotto usa e getta che attecchisce su Spotify, Twitch, Youtube e altre piattaforme simili proprio perché soddisfa le richieste dell’utente medio sul web: storie vere, possibilmente raccapriccianti, easy listening e con quel fascino per l’orrido che fa parte della natura umana.

Questa non è una bolla destinata a scoppiare, proprio perché il genere è sempre esistito, ma come ogni cosa ora viene esasperato dalle dinamiche degli algoritmi che governano il web, rischiando di farci subire un contenuto più che approfondirlo. Affrontare tematiche del genere in questo modo, infatti, può essere un’arma a doppio taglio: o sei un precursore, come Truman Capote; un maestro della narrazione, come Carlo Lucarelli; o uno sceneggiatore di Mindhunter, oppure il rischio di una parodia di Barbara D’Urso che fa una puntata sul delitto di Avetrana è dietro l’angolo. Agatha Christie scriveva: “Non ci si può occupare del crimine senza tener conto della psicologia. Non è tanto il delitto in se stesso che interessa, quanto ciò che si nasconde dietro”. Ed è proprio su quel dietro che si basa il true crime, ma la situazione sembra che stia sfuggendo di mano. La youtuber Bailey Sarian realizza ad esempio video dal titolo Murder, Mistery & Makeup in cui parla tranquillamente di reali episodi di cannibalismo o di infanticidi mentre si trucca, e ha un seguito di milioni di spettatori. 

Carlo Lucarelli

Il problema non è tanto la pappardella sulla mitizzazione del male. La narrazione dei mostri ci attira in maniera atavica da sempre e il pericolo dell’emulazione è talmente basso da risultare statisticamente irrilevante. Le persone si appassionano al racconto di una violenza senza subirne ripercussioni catastrofiche e la mente di un criminale ha ben altre influenze, che non nascono certo da forzature o impulsi narrativi improbabili. Di certo i Beatles scrivendo Helter Skelter e Piggies non sono stati i padri di Charles Manson. Sono però interessanti da analizzare la morbosità e il voyeurismo che portano le persone a non poter fare a meno di addentrarsi in certe vicende. Un conto, infatti, è un’esperienza immersiva, come può essere la lettura di un romanzo a tema o la visione di un documentario – dove quindi entra in gioco anche il valore artistico dell’opera –; un altro è quel senso di curiosità di fronte alla cronaca nera che diventa intrattenimento da salotto televisivo e, adesso, da podcast.

Charles Manson

A questo proposito è necessario sottolineare la distinzione tra il true crime contemporaneo e quello delle origini. Truman Capote è riconosciuto universalmente come capostipite del genere grazie al suo libro A sangue freddo, uscito nel 1966, in cui viene narrata la storia vera dell’omicidio di un’intera famiglia nel Kansas. Capote usò lo stile del reportage creando un distacco imparziale nella narrazione dei fatti. In realtà, Meyer Levin l’aveva anticipato scrivendo Compulsion nel 1956, la ricostruzione del processo “Leopold e Loeb”, con due facoltosi studenti ebrei che negli anni Venti uccisero un quattordicenne solo per il gusto di compiere il delitto perfetto. Il successo di A sangue freddo fu però così clamoroso da cancellare quel che era stato scritto prima e rivoluzionare ciò che sarebbe stato scritto dopo. 

Truman Capote

Un’opera più recente, ma comunque figlia dello stesso filone, è poi L’avversario di Emmanuel Carrère, pubblicato nel 2000. Questo romanzo di non-fiction parla di Jean-Claude Romand, uomo all’apparenza mite, che nel 1993 uccise la moglie, i figli e i genitori. Per anni li aveva ingannati facendo credere di essere un funzionario dell’Oms laureato in medicina, e alla fine agì per il terrore di venir scoperto e per i debiti sempre più grandi. Carrère non soltanto seguì tutte le udienze del processo, ma come nel caso di Capote con i protagonisti della sua opera, si mise in contatto con l’assassino e allacciò un rapporto di confidenza che portò Romand a dare il permesso alla pubblicazione del libro. A differenza di Capote, Carrère scrisse però la vicenda in prima persona, annullando dunque quella sensazione di distacco e di impalpabilità nei confronti del male.

Tutto questo, all’epoca non aveva ancora un nome, così come in Italia non risultavano sotto la dicitura true crime i lavori di Carlo Lucarelli. Nemmeno Storie maledette di Franca Leosini, con le sue interviste a criminali di ogni tipo, può considerarsi simile alla nuova ondata true crime, che è partita verosimilmente all’estero nel 2014 con il podcast Serial e l’anno successivo con la serie Netflix Making a Murderer. Il loro avvento è coinciso con un nuovo approccio degli utenti verso i media a disposizione, con la serializzazione dei contenuti e l’on demand a condizionare anche la realizzazione delle opere d’intrattenimento. Abbiamo assimilato l’abitudine del consumo veloce, del tutto-e-subito che ha coinvolto anche questo genere, perfetto per essere digerito a puntate.

Franca Leosini
Making a Murderer (2014)

La scrittrice Emma Berquist ha pubblicato un articolo su Gawker intitolato “True crime is rotting our brains”. Secondo Berquist, il true crime si basa su una drammatizzazione delle vicende che alimenta una paura di massa, portando il pubblico a posizioni di chiusura e di conseguenza reazionarie. La scrittrice cita uno studio dell’Università della Pennsylvania che spiega come questo genere abbia aumentato la paura del crimine nell’opinione pubblica, nonostante il netto calo dei tassi di criminalità negli ultimi due decenni. Secondo altre ricerche emerge poi un altro dettaglio particolare: il pubblico del true crime è prevalentemente femminile. Per alcuni è un modo inconscio per esorcizzare il male, essendo le donne le principali vittime dei serial killer; per altri è una sorta di prevenzione, l’apprendimento dei metodi di sopravvivenza di fronte a un eventuale criminale studiandone i segnali preliminari. La spettacolarizzazione del crimine, inoltre, può essere irrispettosa per le vittime e per le loro famiglie, perché spesso il confine tra reportage giornalistico e contenuto speculativo è minimo.

È vero che Italia sono stati realizzati lavori ben prodotti, come i podcast Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli e Polvere di Cecilia Sala e Chiara Lalli, ma a stonare è però la saturazione di un genere che diventando trend ha ormai raggruppato nello stesso calderone giornalismo d’inchiesta e superficialità, inchieste e gossip. Molte storie e tematiche vengono riciclate e spolpate fino all’osso, solo per ricavare ascolti e visualizzazioni, anche quando ormai non ci sarebbe più nulla di più da aggiungere. Viene da chiedersi allora se abbiamo ancora bisogno di un altro contenuto su Pacciani, nel 2022, e se Titty91 su Youtube che racconta la strage del Circeo con una musica drammatica in sottofondo e le luci soffuse in un set da fashion vlogger sia un contenuto davvero necessario.

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