Quando abbiamo avuto la notizia della scomparsa di Monica Vitti, nessuno poteva dirsi sorpreso. Da vent’anni circa, il ricordo pubblico di questa attrice si era congelato in un suo distacco inevitabile dalla realtà; in compagnia di suo marito, il fotografo Roberto Russo, Monica Vitti ha trascorso l’ultimo pezzo della sua vita lontana dal pubblico che l’amava da quarant’anni per colpa di una malattia che le ha cancellato lentamente la memoria. Nei giorni successivi alla sua morte tutti dicevano la stessa cosa, concordi unanimemente sulla sua dote più evidente, la sua capacità di passare dall’espressione più divertente della commedia all’italiana a quella più triste, cupa, lontana, senza perdere mai quel senso di familiarità e vicinanza che dava a noi spettatori. L’abbiamo amata così tanto perché è stata la prova che si può essere brillanti ed esilaranti senza doversi coprire di ridicolo, senza escludere la bellezza. Ma non è questo l’unico regalo che ha fatto al cinema italiano, dal momento che, senza di lei, non ci sarebbero stati L’avventura, La notte e L’eclisse, ossia i tre lungometraggi che compongono la trilogia dell’incomunicabilità. Senza la presenza, sia cinematografica che fisica, di Monica Vitti nella vita di Michelangelo Antonioni, non avremmo mai avuto tre dei film più importanti del nostro patrimonio culturale.
C’è un aspetto inquietante, ma al contempo anche molto affascinante, della biografia di Monica Vitti: la perdita della memoria, in un certo senso, ha sempre fatto parte della sua vita – “La memoria è una truffa”, diceva nel suo libro Il letto è una rosa. Non solo perché era noto che fosse sbadata, distratta, sempre con la testa da un’altra parte, ma anche per una serie di episodi simbolicamente molto forti della sua vita che hanno a che fare con il fuoco e con la distruzione del ricordo. Da giovane, percorrendo con un’amica e un autista la strada che passa dalla Villa Borghese – la stessa dove si dice andasse ogni mattina all’alba a fare una passeggiata con suo marito – la sua macchina prese fuoco, con alte fiammate che rischiarono di farli saltare in aria. A una festa esclusiva in casa dell’artista Arnaldo Pomodoro, c’era anche lei, e i palloncini decorativi che volteggiavano sul soffitto si distrussero tra le fiamme, facendo scappare via tutti. E poi, alla fine degli anni Ottanta, mentre si trovava a Torino, suo marito Roberto rispose a una telefonata che veniva da Roma: casa sua era stata completamente bruciata. Tutti i suoi ricordi, i suoi premi, i suoi vestiti, ma soprattutto la sua indipendenza da donna, le cose che si era guadagnata con la sua carriera, tutto era stato disciolto dal fuoco. Le rimaneva poco della memoria dei suoi anni passati, piccoli oggetti, come un anellino d’oro con un rubino che non si toglieva mai e che aveva comprato a un mercatino dell’usato a Pantelleria, mentre si trovava là negli anni Sessanta per girare un film, L’avventura, con il suo compagno dell’epoca, Michelangelo Antonioni.
L’idea per il primo dei tre film che compongono la trilogia dell’incomunicabilità, che è proprio L’avventura, venne in mente ad Antonioni grazie a questa sorta di sbadataggine, se così la possiamo definire, di Monica Vitti. I due si erano conosciuti a un provino: all’inizio della sua carriera, lei veniva spesso ingaggiata per doppiare film di grandi registi come Fellini o Monicelli; anche Antonioni la sceglie per doppiare un personaggio di un suo film, Il grido, del 1957, ma da quell’incontro nacque più di una semplice collaborazione lavorativa. Il regista si rese conto del suo potenziale recitativo, che andava ben al di là del doppiaggio, ma anche, soprattutto, del suo enorme impatto estetico – pare lui le abbia detto “Ha una bella nuca, può fare del cinema” – e tra i due iniziò una relazione, anche sentimentale. Mentre la coppia era in vacanza sull’isola di Ventotene, Monica Vitti si perde, non riesce più a trovare la strada per tornare in barca dal regista e dai loro amici. Nasce così la trama del L’avventura, un film che racconta il trionfo dell’infelicità nella borghesia, il distacco silenzioso e malinconico della realtà in una classe sociale inondata dal benessere e proiettata verso il futuro. E Michelangelo Antonioni diventa il regista che per primo supera il neorealismo per dare vita a una forma di cinema che raccoglie la sua eredità e amplia il suo orizzonte: sposta il focus del racconto dal proletariato alla classe media italiana, la vera protagonista degli anni Sessanta e del boom economico.
L’avventura parla di uno smarrimento, quello di Anna, durante una gita tra amici sulle isole Eolie. I due protagonisti, Monica Vitti e Gabriele Ferzetti, Claudia e Sandro, sono rispettivamente un’amica e il compagno della donna che si è persa; i due cominciano con una ricerca disperata che non si concluderà mai, ma nonostante questo, si trovano presto coinvolti in una storia, che finisce a sua volta con una nuova rassegnazione. Il vuoto non è solo quello lasciato dalla scomparsa di Anna, il vuoto è esistenziale, totale, insanabile. Un vuoto che si traduce non solo in immagini, ma anche nello spazio che Antonioni sceglie come set di questa trilogia: le isole lontane e spoglie, dal paesaggio lavico e ostile, Milano, il quartiere Eur di Roma.
In La notte, ambientato a Milano, città cuore del boom economico e dell’espansione edilizia, i due protagonisti, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, dopo aver appreso della malattia incurabile che sta per uccidere un loro caro amico trascorrono la serata in una villa, dove incontrano una giovane ragazza, interpretata da Monica Vitti. Nel gioco di seduzione tra Mastroianni e Vitti, nato come passatempo annoiato in questo party affollato ma freddo, subentra anche Moreau, che incarna il disagio esistenziale di un matrimonio spento e di una vita emotiva che ha perso senso. Anche ne La notte il tema è nel silenzio, nella dilatazione dei tempi che, sovrastati dalla folla di una festa piena di gente, lasciano comunque i protagonisti isolati, incapaci di sentirsi vivi oltre l’apparenza di una convivialità forzata. Ancora una volta, il trionfo della borghesia si fa malinconico, vuoto, ostacolato da una patina di ipocrisia e mondanità obbligata, quella dei nuovi ricchi e dei loro rituali, tanto formali quanto spenti nonostante l’apparenza voglia comunicare tutt’altro. Questo senso di distacco dalla realtà e dai suoi inutili orpelli relazionali, dagli obblighi sociali che si tramutano in tristezza e in mancanza di contatto, oltre che di comunicazione, sono una metafora dello stesso vuoto fisico e architettonico che intercorre tra i palazzi distanti e squadrati del quartiere Eur, luogo in cui si svolge l’ultimo capitolo di questa trilogia.
Antonioni viene spesso definito come una sorta di architetto del cinema, e non credo sia un caso che sia proprio l’Eur a fare da sfondo a L’eclisse: nel suo marmo imponente e totalitario, ma anche nelle ville moderniste e isolate, più che un quartiere di Roma sembra un non-luogo, o un luogo metafisico, come un dipinto di De Chirico, una metafora sia della nuova ricchezza che invade l’Italia negli anni del dopoguerra, del benessere che ha portato, ma anche di tutte le sue più grandi menzogne, fatte di cemento, palazzi, sventramenti di interi quartieri storici e riassetto del paesaggio urbano in una nuova formula, spesso alienante. Monica Vitti torna a essere il centro del racconto, stavolta insieme all’attore francese Alain Delon: nella loro storia d’amore non succede proprio nulla. Né slanci né passioni travolgenti, solo una tiepida conoscenza che sembra prendere luogo in un deserto, non solo geografico – è così che appaiono i confini dell’Eur, come paesaggi lunari – ma anche emotivo. Delon, che interpreta un agente di borsa, ha una vita senza alcuna missione se non quella speculativa; Vitti, che cerca il calore di una relazione dopo la fine della sua storia con un architetto più vecchio di lei, soffre l’impotenza dell’immobilismo esistenziale in cui si ritrova. Entrambi si danno un appuntamento a cui nessuno dei due andrà mai. Ancora una volta, vince il silenzio.
Il cinema di Michelangelo Antonioni è un cinema che si concede di obbligare lo spettatore a una lettura molto più profonda e stratificata di quanto non si è soliti fare guardando un film qualsiasi. Del resto, lo ha sempre detto anche lui che non deve essere il guadagno l’obiettivo di un regista, ma la bellezza. Il suo incontro con Monica Vitti, che proseguì poi anche con un’altra pellicola capolavoro come Deserto rosso, è stato una benedizione per la cinematografia italiana, non solo per la portata artistica dei suoi lungometraggi, che non a caso venivano apprezzati come pochi altri film dalla critica straniera – a Cannes L’avventura ebbe un successo enorme tra i registi e i critici presenti al festival. La trilogia dell’incomunicabilità è un pezzo di memoria collettiva, un racconto-ritratto di un’epoca e di un sentimento che non invecchia, non si deteriora e non smette di rappresentarci, neanche a distanza di più di sessant’anni. Il fatto che sia proprio Monica Vitti ad averla ispirata, contribuendo con pezzi di sé alla creazione di questi tre capolavori, non è un caso ma una naturale conseguenza della sua presenza insostituibile, sia come attrice che come persona nel cinema italiano. Perché lei, forse, prima di andarsene si sarà anche dimenticata chi era, ma noi non lo dimenticheremo mai.