Qualche giorno fa Netflix ha annunciato, con un video alla 2001: Odissea nello spazio, che presto arriverà una nuova serie sulla missione voluta da Donald Trump per il controllo dello spazio. Protagonista di Space Force sarà il team incaricato di guidare questa missione, ma soprattutto di capire che cosa intendesse esattamente Trump quando diceva di voler “difendere i satelliti dagli attacchi”. Insomma, un gruppo di professionisti agli ordini di un capo bizzarro, capriccioso, megalomane e che non ha la minima idea di quello che fa. Forse a qualcuno sarà subito venuto in mente un altro boss, anzi il “world’s best boss”, il capo migliore del mondo: Michael Scott di The Office, e non a torto. Space Force sarà infatti scritta dai creatori dalla serie di culto sulla Dunder-Mifflin e da Steve Carell, che interpreta proprio Michael.
Il The Office di cui si parla è la versione americana, e più nota, dell’omonima serie britannica, andata in onda per due stagioni tra il 2001 e il 2002. Il remake statunitense – trasmesso per la prima volta nel 2005 e scritto da Greg Daniels (grande autore di comedy, che ha curato anche diverse puntate del Saturday Night Live, dei Simpson e la serie Parks and Recreation) – è invece durato nove stagioni, e si è concluso ufficialmente nel 2013, anche se nelle ultime due manca il personaggio chiave, Michael. Accolta inizialmente in modo molto freddo dalla critica che pensava fosse solo una brutta copia della versione originale (anche perché il pilot era il rifacimento esatto del primo episodio inglese), progressivamente The Office US è riuscita a costruirsi la sua nicchia, a dire il vero molto nutrita, di estimatori. Oggi è disponibile su Amazon Prime Video.
Come si evince dal titolo, la serie racconta le vicende quotidiane degli impiegati di un ufficio della Dunder-Mifflin, un’azienda che si occupa di distribuzione della carta. Questo dettaglio è già significativo: nell’epoca della diffusione delle potenzialità di internet, la Dunder-Mifflin lavora in un settore destinato a diventare sempre più obsoleto. Ed è infatti questa la tematica principale e più esistenzialista affrontata dalla serie: la crescente e tragicomica consapevolezza della propria inutilità.
The Office infatti non è soltanto una semplice satira della vita d’ufficio. È una critica acuta e intelligente delle contraddizioni di una società irrimediabilmente votata al capitalismo e all’aziendalismo, dove ogni aspetto della propria vita diventa una assurda rincorsa alla performance migliore. Quello che rende The Office così valido ancora oggi è che questa critica attacca con sottigliezza gli aspetti più paradossali della società odierna, arrivando ad assumere tratti se non propriamente distopici quantomeno assurdi: il capitalismo che distrugge le nostre vite interiori assume sempre più un volto benevolo e innocente, amichevole e informale. Ci costringe a essere corretti nei confronti delle minoranze e dei sottoposti non con l’intento di renderci persone migliori, ma con l’intento di migliorare il nostro rendimento produttivo. E il modo in cui la serie è girata, cioè in forma di mockumentary, non fa che esaltarne gli aspetti più surreali e contribuire all’effetto cringe – quella sensazione di disagio dovuta al fatto che la risposta a una data situazione è totalmente fuori luogo e lontana dalle intenzioni dell’autore – che non si può non provare durante la visione di ogni episodio.
E il cringe deriva proprio dal modo in cui i personaggi, ma soprattutto Michael Scott, cercano di riempire quel senso di inutilità generato dal tardo capitalismo. Michael è un personaggio molto complesso, che è diventato quasi un case study: è il regional manager della Dunder-Mifflin, quindi ha una posizione amministrativa, ma di poco conto. Passa le sue giornate a cazzeggiare, è un procrastinatore professionista che si rifiuta di fare anche solo il minimo sforzo lavorativo, è succube dell’amministrazione centrale, fa battute sessiste e razziste o scherzi di pessimo gusto, non ha idea di come funzioni la vita pratica. Non è il classico megadirettore galattico che sta seduto su sedie di pelle umana come il boss di un’altra grande satira della vita lavorativa, Fantozzi. Michael non vuole essere un capo cattivo e per questo si pensa più come un “amico” dei suoi dipendenti, che paragona spesso alla sua famiglia. Peccato che il risultato sia disastroso: con i suoi complimenti molesti fa piangere le dipendenti, mentre con i suoi atteggiamenti machisti mette a disagio i colleghi, tentando di non fare discriminazioni, finisce per comportarsi come il peggiore dei razzisti. Un famoso esempio di questa sua incapacità di capire quale sia il limite è il secondo episodio della prima stagione – il primo puramente americano e originale – “Diversity Day”. La Dunder-Mifflin decide di tenere nella divisione di Scranton un corso sulla diversità, a seguito della segnalazione di alcuni comportamenti razzisti da parte di Michael. Il manager però, crede di essere completamente estraneo al corso, che invece è stato organizzato proprio per colpa della sua imitazione offensiva di Chris Rock. Quando se ne rende conto, Michael decide di mandare via il relatore e di tenere lui stesso il corso, pensando bene che il modo migliore per sensibilizzare sul razzismo sia appiccicare sulla testa dei suoi dipendenti il nome di un’etnia o una religione, incoraggiandoli a trattarsi l’un l’altro come tratterebbero una persona ebrea, cinese o araba. Michael coordina il gioco, con in testa la scritta “Martin Luther King”.
Michael con il suo irrealizzabile modello corporate è senz’altro un rappresentante del tardo capitalismo falsamente benevolo, ma ne è anche la prima vittima, cosa che lo rende un personaggio intrinsecamente tragico. Vuole condurre la Dunder-Mifflin, un’azienda ormai ammuffita, come se fosse la Microsoft di Bill Gates, e apparire agli occhi dei suoi dipendenti contemporaneamente come un padre, un mentore e un amico. Questa sua volontà, che è potenzialmente buona ma realizzata in modo pessimo, si scontra con un fortissimo desiderio di incarnare veramente quegli archetipi: Michael, almeno all’inizio della serie, non ha una famiglia, è un pessimo esempio e non ha amici. Cerca disperatamente di attirare le attenzioni e l’affetto dei colleghi, ma fallisce perché, un po’ come in tutti gli altri personaggi, il percorso di auto-consapevolezza della propria inutilità si scontra con l’impossibilità di una realizzazione. L’unico personaggio che lotta tenacemente contro la rassegnazione è lo strambo Dwight Schrute, che infatti alla fine della serie riuscirà a ottenere il ruolo di regional manager, prendendo il posto di Michael, che per tutto il tempo venera in modo quasi molesto.
Micheal, però, evolve nel tempo, riuscendo anche a raggiungere la stabilità emotiva. Prima ha una relazione molto difficile con la sua superiore Jan, poi trova l’amore in Holly, che lavora come sostituta alle risorse umane. È da notare il fatto che le sole possibilità affettive per Michael si realizzino unicamente nel contesto lavorativo, per altro andando contro il regolamento aziendale. Anche questo fatto si può leggere come una sottile critica al sistema capitalistico: così come per l’altra coppia della serie, Jim e Pam, che rappresentano il lato più innocente e puro di The Office, anche la vita privata diventa lavoro.
Secondo il sociologo Richard Sennett, la sempre più diffusa flessibilità ha contribuito alla diffusione dell’informalità e, di conseguenza, di legami più deboli nel contesto lavorativo. Questi legami, spesso superficiali, si confondono con la nostra vita privata. Così il sistema capitalistico ha colonizzato la sfera degli affetti, che oggi gestiamo alla stregua di un impiego precario, perché tali sono le nostre vite. The Office, pur abbracciando questa tesi e sovrapponendo il livello privato a quello aziendale, sembra comunque aperto a una qualche speranza: Michel e Holly si trasferiscono in un altro stato e hanno quattro figli, Jim e Pam si sposano e ne hanno due.
Ma l’aspetto più rilevante e attuale di questa serie è senz’altro il modo in cui riesce a parlare di razzismo, sessismo e omofobia pur senza mai avere un atteggiamento moralistico o pedagogico. Questo è senz’altro dovuto alla tecnica del mockumentary, indirizzata proprio al totale coinvolgimento dello spettatore, che si sentirà così di assistere non a qualcosa di inscenato da attori, ma a uno spezzone di vita reale, restando comunque consapevole che si tratta di una finzione. Il merito va anche all’indubbia capacità del cast, che molto spesso ha improvvisato alcune scene diventate poi di culto (come quella in cui Michael, per dimostrare a Oscar di non essere omofobo, lo bacia sulla bocca). A questa tensione tra il reale e l’irreale, si aggiunge anche l’elemento del surreale. I momenti in cui Michael si comporta come il peggior razzista o sessista, sono efficaci nel mettere profondamente a disagio lo spettatore proprio perché sono palesemente assurdi. Eppure, come Michael nei suoi comportamenti esagerati rivela una qualche parvenza di umanità, così in quelle situazioni grottesche ritroviamo, esasperate all’ennesima potenza, situazioni verosimili. Magari a nessuno sarà successo di dover interpretare un cinese durante un corso aziendale sulla diversity, ma forse qualcuno avrà detto a una collega trans: “Sei trans? Non l’avrei mai detto!”, avrà chiesto a un italiano di seconda generazione: “Di dove sei?”, o avrà detto a una persona disabile che è un’ispirazione.
A distanza di quasi quindici anni dalla prima messa in onda, The Office è ancora un prodotto valido e significativo, segno che la società ha ancora molto da imparare. Quando la serie veniva trasmessa negli Stati Uniti, # MeToo non era ancora nato, il movimento Black Lives Matter era ancora in fase embrionale e soprattutto Donald Trump era soltanto il giudice che urlava “You’re fired!” nel reality The Apprentice. “Credo che l’unica differenza tra me e Donald Trump è che io non provo nessun piacere nel pronunciare le parole: ‘Sei licenziato’”, dice a un certo punto Michael Scott. Oggi, quell’imitazione, assume tutto un altro significato.