Oltre a essere essenziale per la nostra sopravvivenza, il cibo è da tempo utilizzato anche come spettacolo appagante per la vista. Nel 1574, quando lo zucchero era ancora una rarità e veniva venduto come rimedio per lo scorbuto, il re inglese Henry III, in visita all’Arsenale di Venezia, restò meravigliato mentre, accomodatosi a tavola, il tovagliolo preso per pulirsi gli si ruppe tra le mani. Tovaglie, piatti, posate: tutto era di zucchero, così simile al vero da poter ingannare chiunque. Certo, il fine delle sculture non era solo quello di intrattenere il sovrano, ma di provare la ricchezza, la munificenza e il buon gusto di chi aveva organizzato il banchetto. Il cibo, effimero, era usato come strumento di propaganda: promuoveva il senso di comunità, diventava una dichiarazione politica e contribuiva a creare storie e ricordi condivisi. Nei secoli, i più grandi fasti culinari furono i protagonisti di dipinti, stampe e libri, fino ad arrivare, all’inizio degli anni Duemila, nei nostri palinsesti televisivi – con una ridondanza di trasmissioni di cucina, ricette, gare culinarie, se non, nei casi più recenti, di appositi canali tematici – e sui feed dei nostri social media. Non è più la quantità a determinarne la ricchezza, semmai il contrario e, soprattutto, la capacità di appagare un piacere quasi voyeuristico: il bilanciamento dei colori, la scelta del piatto, la disposizione del cibo. Mentre scrivo, su Instagram l’hastag #food contiene 493 milioni di contenuti, #foodporn poco più della metà, 291 milioni. Tra questi entrerebbe sicuramente a pieno titolo anche il panino con manzo, peperone dolce e giardiniera – the italian beef sandwich – della nuova serie The Bear, disponibile su Disney+, su uno chef che si trova a gestire il modesto ristorante di famiglia a Chicago.
Dopo aver abbandonato sogni più ambiziosi e una carriera in uno dei migliori ristoranti degli Stati Uniti – almeno a detta della sous-chef Sydney Adamu, appena assunta, il cui talento non le garantisce ancora di pagare le bollette –, lo chef Carmen “Carmy” Berzatto (interpretato da Jeremy Allen White) torna nella paninoteca piena di debiti appartenuta al fratello, morto suicida. I due si trovano a cercare di dare un ordine all’interno della brigata della cucina del The Original Beef of Chicagoland: Marcus, un curioso pasticciere che sogna di creare la ciambella perfetta; la caustica cuoca Tina, reticente al cambiamento del “sistema”; Ebra, immigrato somalo, che ricorda di essere già stato una volta in una brigata, ma durante la guerra civile (“Molte persone sono morte”); e Richie, migliore amico del defunto Michael e cugino – non biologico – di Carmy, volubile e intelligente, incapace di incanalare il dolore e la rabbia se non nella violenza, tanto che la figlia di cinque anni è convinta il suo cognome sia “Cattive notizie”, come lo ha salvato la moglie in rubrica. In cucina c’è sempre del lavoro da fare, sempre cibo da preparare, sempre una salsa da mescolare, sempre un pasticcio da pulire, sempre qualcosa, in ogni momento, fino all’ora di uscire, andare a casa, dormire un po’ – se si riesce – e ricominciare tutto daccapo. Il tempo è la risorsa più rara, come per la nostra generazione. Gridano “Passo!” ogni volta che girano un angolo perché non sanno mai chi potrebbe esserci dietro, sul punto di sbattergli contro; “Dietro”, quando si muovono tra i fornelli, per evitare di essere colpiti da un gomito o da un attrezzo. E poi “Sì, chef”. Sempre “Sì, chef”, come Carmy ha stabilito che devono essere tutti chiamati per una questione di rispetto. “Sì, chef”. Le patate, “Sì, chef”. I panini, “Grazie, chef”. Michael si è suicidato, “Sì, chef”. Chiedimi come sto che non lo so nemmeno io, “Grazie, Chef”. Dov’è la pistola? “Sì, chef”.
La stretta gerarchia di una cucina può anche essere specifica del modo di lavorare in un determinato settore, ma The Bear riesce a evocare il modo in un cui la struttura di una brigata richiama le dinamiche di potere, l’aggressività e la precarietà che caratterizzano altri luoghi. Viviamo ormai in un’epoca in cui, dopo decenni in cui il lavoro sembrava dover significare solo sacrifici, rinunce e una dedizione unica perché poi, a un certo punto, forse, se ne sarebbe stati ripagati, la cultura che lo riguarda sta finalmente cambiando. Come nota il New York Times, la parola più associata a The Bear nelle recensioni pubblicate è “stressante”. La regia e il montaggio – che sono, forse più della trama, l’elemento chiave della serie – si soffermano infatti spesso sui movimenti rapidi e carichi di tensione dei protagonisti mentre mescolano intingoli o affettano cipolle in uno spazio ristretto come può essere quello di una cucina, correndo contro il tempo nell’assecondare le richieste dei clienti, le ordinazioni online e il proprio umore. Inoltre la serie “è spesso accompagnata da descrizioni dell’ambiente di lavoro come ‘deprimente’, ‘tossico’, ‘violento’. Sono dei complimenti: nonostante i suoi occasionali eccessi, […] mostra qualcosa di vero e in cui tutti possiamo a immedesimarci”. In alcuni dei flashback che Carmy rivive, ripensando a uno dei ristoranti di alta cucina in cui si è formato – bianco, pulito, in ordine, asettico, con piatti più simili a dipinti che a cibo reale, in netto contrasto con il The Original Beef of Chicagoland –, assistiamo al sadismo del suo capo che scherniva in continuazione il suo staff: “Sei terribile. Sei un incapace”; e ancora: “Vai più veloce, figlio di puttana!”.
Gli ultimi due anni e mezzo hanno generato indubbi vantaggi per chi svolgeva una vita da ufficio: smart working, la possibilità di scegliere da dove lavorare, la riduzione dei viaggi per i pendolari, spesso orari flessibili. Eppure – come mostra la serie tv creata e prodotta da Christopher Storer (già autore della più conosciuta Ramy) rappresentando chi, per la natura delle proprie mansioni, difficilmente ha potuto accedere a questi cambiamenti – a spingere molte persone al ritorno in ufficio non sono, come vorrebbero alcuni datori di lavoro, fantomatici aumenti di produttività, ma l’interazione tra colleghi. Inoltre, nonostante le serie tv sul lavoro – da Mad Men a The Office – abbiano un lungo trascorso e stiano tornando di successo nel momento più propizio per raccontarlo (come Industry e Scissione), difficilmente la serialità era riuscita a raccontare tanto bene le professioni culinarie, che invece hanno trovato terreno fertile nei reality show e nelle vittorie di concorrenti umiliati nelle competizioni televisive. The Bear va oltre, raccontando anche la gestione noiosa e spesso frustrante – non solo nei ristoranti, ma nella vita di tutti i giorni – di buste paga, tasse, scartoffie, impianto idraulico, WC che esplodono e ispezioni sanitarie.
Nei discorsi sul cibo confluiscono poi, intuibilmente, anche questioni sociali e politiche, che in The Bear hanno a che fare con le capacità e le modalità di superamento dei traumi, l’elaborazione del lutto, i tentativi di essere persone migliori, per noi e per gli altri, e l’impatto del lavoro sulla salute mentale – tra orari folli e stipendi sotto la media, sono molte le persone che finiscono per vivere in burnout, ritrovandosi persino incapaci di dare un nome al proprio malessere. Carmy, per esempio, non ci riesce da tempo.C’è una scena molto breve in cui lo chef si trova a rovistare nell’ufficio della paninoteca insieme a Sugar, sua sorella, per trovare alcuni documenti importanti. Da quando loro fratello è morto si sentono poco: non la chiama mai, spesso evade i suoi messaggi. Lei dice che la cosa che più la imbarazza è che a infastidirla è il fatto che lui non le chieda mai come sta, perché il ristorante gli sta risucchiando tutto: tempo, energie, soldi, in cambio solo di caos e risentimento. Carmy le risponde che gli sembra di star parlando con la mamma e poi ammette che chiedere come sta gli sembra folle, non sapendo descrivere nemmeno le sue stesse emozioni. “Come stai?”. Bene, grazie, ma non è vero. È l’orso dentro di noi che bramisce – l’animale che Carmy sogna di dover affrontare in un incubo – e contro cui ci si trova a dover resistere e combattere ogni giorno, che sia ansia, depressione o paura di non farcela.
Non importa quale lavoro svolgiamo, se non sappiamo cucinare delle braciole alla perfezione o se non abbiamo mai sentito parlare del Noma, ristorante danese giudicato per ben cinque volte il migliore al mondo: The Bear riesce a parlare del mondo di oggi restando in perfetto equilibrio tra le cose, facendo accadere tutto mentre sembra non succeda mai niente, mantenendo al centro della narrazione quel momento in cui si ha paura che succeda una cosa bella perché potrebbe accaderne una brutta, o come dicono Carmy e Richie in una scena della serie, la vita.