Tra le frasi celebri da sito di aforismi più riciclate degli ultimi anni c’è sicuramente quella di Andy Warhol a proposito dei quindici minuti di celebrità. Per quanto di rado le citazioni siano altro da una generalizzazione a effetto, bisogna ammettere che su questo piano l’artista delle pop-art per eccellenza ci aveva visto abbastanza lungo. Oggi più che di quindici minuti, forse dovremmo parlare di quindici secondi, ossia la durata di una story su Instagram: da quando esistono i social, infatti, abbiamo quasi tutti una possibilità di emergere e diventare piccole celebrità del caso per una seppur breve durata. Un nostro tweet può diventare virale, un post può avere migliaia di ricondivisioni, e la sensazione di avere i riflettori puntati addosso senza passare per i canali classici della popolarità – televisione, radio, cinema, teatro – appaga per un breve momento il nostro istinto egocentrico. Essere famosi oggi, dunque, ha tutto un altro senso, considerato anche che tramite i social sono le celebrità stesse a fornirci dettagli della loro vita ai quali un tempo potevamo accedere solo grazie alle intrusioni di paparazzi e simili.
In questo momento in cui tutti abbiamo una chance di stare al centro dell’attenzione, è interessante notare come alcuni fenomeni culturali pop italiani si siano autoalimentati di un senso opposto alla iper esposizione mediatica, ossia fondando il proprio mito sulla non-apparenza, sul distacco tra l’individuo e il personaggio, lasciando spazio solo a quest’ultimo. Elena Ferrante, Liberato, Myss Keta e ora anche Tha Supreme, il rapper di Fiumicino nato nel 2001 che sta battendo non pochi record con il suo primo album.
Tutto quello che è già stato scritto e detto a proposito di questo recente fenomeno musicale si basa sulla sua misteriosa apparizione sotto forma di un cartone animato, sul fatto che coinvolga principalmente la Generazione Z, i nati dopo l’11 settembre, e sulla sua estrema connessione con il presente. L’ingresso sulle scene di Tha Supreme, a livello di mercato musicale, è infatti emblematico del momento culturale che stiamo vivendo in una fase della storia dell’uomo in cui siamo tutti inevitabilmente iperconnessi in un mondo di immagini, suoni e testo. Nel momento in cui la fama e la popolarità non sono più solamente la conseguenza diretta di una scalata personale, frutto di lavoro e fatica – o di raccomandazioni e scorciatoie – ma anche la conseguenza della propria presenza su internet, di come si è capaci di gestire questo luogo a proprio favore, l’idea stessa di “volto noto” in un certo senso decade, dal momento che sul web ci siamo tutti, a differenza di un palco o di un red carpet.
Tha Supreme, così come poco prima hanno fatto sia Liberato che Myss Keta – due fenomeni che al di là dei gusti personali sono piuttosto singolari rispetto a tutta la scena musicale italiana precedente, che siano o meno operazioni di marketing – cavalca questo senso di depersonalizzazione del presente e lo trasforma in un personaggio che non è solamente un rapper. Una sorta di simbolo di qualcosa di più grande, un sentimento generazionale che per trovare una forma di rappresentazione pertinente ha bisogno di avere una forma fittizia che deleghi la propria essenza a un’immagine, così come un account. Insomma, è come se, nell’era della iper-esposizione, ciò che si può considerare veramente nuovo e alieno – e dunque dirompente, di rottura con il mainstream – fosse ciò che dà meno spazio possibile a quello che il divismo Novecentesco ha fatto sì diventasse la fama. Né un volto né un corpo, piuttosto una caricatura di un personaggio, sia che si tratti di una scrittrice misteriosa che di un cantante neomelodico che strizza l’occhio alla scena indie.
In realtà, la particolarità di Tha Supreme, ossia di Davide Mattei, enfant prodige della produzione musicale – a soli sedici anni viene chiamato da Salmo per il beat di Perdonami e da lì in poi il suo talento si fa strada velocemente – è che la sua vita “vera”, oltre quel cartone animato a cui delega la parte di protagonista in tutti i suoi video e nelle sue apparizioni pubbliche, come a XFactor, non viene del tutto celata. Sappiamo vagamente che faccia abbia per via di qualche foto o storia postata su Instagram, abbiamo alcune sue informazioni biografiche, ma tutta la sua manifestazione artistica, al momento, rimane confinata in questo universo parallelo di immagini disegnate e canzoni. Come se, contro ogni principio di self-branding, non gliene fregasse poi così tanto. Una strategia di promozione che presuppone da un lato un grande investimento sia creativo che economico – due statue enormi a forma del suo personaggio cartoon sono apparse sia a Termini che alla Stazione Centrale di Milano, a dimostrazione che dietro Tha Supreme c’è chi lo sponsorizza con una certa benevolenza – dall’altro una modalità di esposizione del personaggio piuttosto schiva. Io che di anni ne ho ormai ventisette e quando ero una teenager andava tanto l’indie in stile Strokes, quanto di più lontano possa esserci dalla trap, ho subito pensato al famoso video in cui Alex Turner, il cantante degli Arctic Monkeys, appena diciannovenne e all’apice del successo comincia un live con un’espressione svogliata, indolente, dicendo: “We’re Arctic Monkeys, don’t believe the hype”. Ciò che rendeva così carismatico questo sbarbato di Sheffield che con la sua band stava scalando le classifiche grazie a un giro della loro demo online – uno dei primi casi in cui internet ha determinato un successo musicale prima ancora della radio – era proprio il fatto di sottolineare l’impalcatura, l’hype appunto, che sorreggeva la band. Con un’intenzione simile, ma in una forma diversa, Tha Supreme interpreta la parte di chi, fregandosene dell’hype, non fa che generarne molto di più.
Non è un caso dunque, che sia proprio la Generazione Z a riconoscersi di più in questa formula espressiva fatta di avatar e alter-ego disegnati, dal momento che si tratta di nativi digitali cresciuti con l’idea di account e di social già scolpita nel cervello: perché mai, dal momento che siamo tutti presenti e attivi su internet – un mondo in cui siamo noi a decidere come apparire, che filtro usare, che nome darci, e non madre natura con la sua roulette genetica – dovremmo uscirne? La vita online, quella di tutti noi a prescindere dalla nostra età, ma specialmente quella delle generazioni più giovani, è ormai tanto intensa e diversificata nei suoi codici e nella sua espressione che un ragazzo di diciott’anni con talento musicale può senza problemi scegliere di non dare forma fisica “reale” al suo personaggio, lasciando che trovi la sua ragione ontologica solo in quel sistema di cose. Su Tik Tok, per esempio, luogo per eccellenza della Generazione Z in cui chiunque ci metta piede e abbia più di vent’anni non può evitare di produrre qualcosa che risulta estremamente cringe, le canzoni di Mattei spopolano, con migliaia di video in cui adolescenti da tutta Italia riformulano attraverso brevi video di balletti e challenge i testi e le musiche delle sue canzoni. Il social cinese, infatti, è una vetrina fondamentale per capire cosa significa essere adolescenti nel 2020, con i suoi codici e linguaggi specifici – che rientrano bene anche nell’estetica di Tha Supreme, che gioca proprio con una serie di temi e di immagini che tirate fuori da una classe di liceo hanno ben poco da dire, nonostante si possano comunque apprezzare.
Davide Mattei mescola elementi di internet molto facili da individuare come citazione più o meno esplicita. A partire dal colore viola e dalle corna in testa, che ricordano l’emoji del diavolo, o dall’aureola che invece ricorda un’altra emoji ancora – quindi simboli prettamente legati non solo al web ma anche al mezzo attraverso cui vi si accede, lo smartphone – fino all’aspetto da Morty di Rick e Morty, uno dei cartoni animati “per adulti” più famosi degli ultimi anni, Tha Supreme è una sorta di Melevisione per quindicenni. Nel suo universo tutto è compatibile con l’adolescenza e con le sue sfumature emotive, ma a differenza dei suoi colleghi trapper italiani che negli ultimi anni hanno dominato la scena decantando i vari “pesi sul collo”, diventando idoli da sala giochi e Nike Silver luccicanti, la sua realtà parallela è molto più sobria, per certi versi, e più infantile, ma nel senso positivo del termine. Non ci sono ragazzini che giocano a fare i grandi gangster, ma piuttosto il ritratto di una fase di passaggio della vita fondamentale, che tutti attraversiamo e che è fatta di confusione, paure, incertezze ma anche gioco, colori, spensieratezza. Da adolescente: colorato come un cartone animato, a metà tra il bambino e il giovane adulto, ma anche già messo di fronte alle prime cose serie a cui pensare, tra dubbi esistenziali e paranoie.
23 6451, l’album di esordio di Tha Supreme – una sequenza di numeri apparentemente senza senso ma ben chiara a chi abbia frequentato un po’ internet, che si legge “Le basi” – e i singoli che sono usciti tra il 2018 e il 2019, a oggi, con milioni di streaming solo ventiquattro ore dopo l’uscita, è quindi a tutti gli effetti un fenomeno che determina per certi versi un prima e un dopo. Sia per la polarizzazione della ricezione che ha generato, tra chi si strappa i capelli di fronte al nuovo re della musica italiana e chi invece liquida tutto con il solito “schifezza per ragazzini”. La verità, anche se è banale dirlo, sta in mezzo, sempre se esiste una verità che decreti ogni volta che sbuca fuori un nuovo caso mediatico simile se si tratta di qualcosa di concreto o solo di fugace: penso che questo artista, con un modo di rappresentarsi che per certi aspetti tutela la vita da teen star immolata al grande successo, sia interessante da osservare anche solo per farsi un’idea di cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale nei sedici anni di chiunque. Quando in canzoni come “oh 6od” racconta che “La weeda gli ha dato guai per la testa”, non sta facendo altro che creare un ritratto di un momento che tanti adolescenti si trovano a vivere, così come lo ha vissuto anche chi non è più un teenager che si fa le canne fuori dal liceo e si ritrova con le paranoie. La bravura di questo artista, piaccia o meno come beatmaker e come esponente di un genere, è stata quella di mettere insieme i tasti dolenti del presente lasciando che il menefreghismo adolescenziale di chi visualizza e non risponde alla mamma faccia da sottofondo, insieme alla complessa e spesso incomprensibile nuova realtà di chi è nato a cavallo tra due mondi, quello fisico e quello digitale, entrambi reali seppur in modo diverso. Lui però ha scelto di rimanere nel secondo, in cui probabilmente la sua generazione si trova molto meglio, visto il casino che c’è fuori.