Relegare alcuni generi di narrazione a categorie di serie B mi sembra sempre un atto disonesto, specialmente quando si parla di cinema, letteratura o musica per ragazzi. Al contrario, a mio avviso, più una cosa riesce a sconfinare oltre l’etichetta che una piattaforma di streaming o la sezione di una libreria gli ha assegnato, più è interessante conoscerla, soprattutto se abbiamo superato l’età dei brufoli e dei primi baci. Lasciando da parte il cinema, la letteratura e la musica per teenager – la tv praticamente non esiste più per questa fascia d’età – e concentrandoci solo su uno dei settori in cui si investe di più per questo genere di pubblico, ossia quello delle serie, c’è un mondo complesso da esplorare nella cosiddetta sezione dei teen-drama. Il fatto per esempio che Netflix Italia abbia investito su ben due progetti originali di questo genere, Baby e Summertime, e che una rete televisiva nel pieno di una pandemia provi a risollevare lo share mandando in onda una serie come The O.C. la dice abbastanza lunga sulla centralità di questo tipo di prodotto.
Avere tra le mani l’attenzione di esseri umani che appartengono a una fascia d’età delicata come l’adolescenza, specialmente in un presente di iper-connessione e sovraesposizione ai contenuti multimediali, è sia una grossa responsabilità che una sfida interessante. Non tutto quello che è teen-drama, infatti, è superficiale, sciocco o utile a catturare esclusivamente l’attenzione di ragazzini bombardati dalla tempesta ormonale; ma non tutto quello che è teen-drama riesce però a diventare qualcosa di valido al di là dei confini della sua categoria. Skam Italia, la serie uscita inizialmente su TIMVision e ora acquistata da Netflix, da questo punto di vista è un caso piuttosto emblematico.
Per capire i motivi che rendono Skam una particolarità nel suo genere, però, bisogna sia guardarsi intorno rispetto alle produzioni italiane, sia fare qualche passo indietro per ricostruire la storia del genere. Partiamo dal presupposto che individuare i pensieri e i gusti di una fascia di età molto specifica senza scadere in una sequela di cliché messi in fila non è un’operazione facile, specialmente quando si hanno come riferimenti serie che sono diventate veri e propri cult generazionali. Per dare una cornice sommaria di come si è evoluto il tutto, è necessario tenere in conto di alcuni punti fermi che fanno inevitabilmente da riferimento per chiunque si cimenti nell’impresa; punti fermi che, come quasi sempre in questo campo, hanno origine negli Stati Uniti. Dagli anni Novanta in poi, infatti, a partire da Beverly Hills 90210, c’è sempre stato un nuovo teen-drama per gli adolescenti di turno di tutto il mondo dotato di una struttura quasi sempre identica, con la differenza del contesto. Per citare i più popolari e seguiti anche in Italia – quasi sempre sulle reti Mediaset che si sono a lungo fregiate di questo ruolo di importatori di materiale made in USA – Dawson’s Creek e The O.C. sicuramente hanno fatto scuola.
Nella serie tv per adolescenti classica l’atmosfera era molto patinata, quasi come una soap opera più raffinata e con meno pathos, ma l’obiettivo era quello di concentrarsi su un gruppo di liceali, meglio ancora se ricchi, e sulle dinamiche sentimentali che intercorrono in quel limbo infernale tra età adulta e infanzia. Uno schema semplice, chiaro, riproducibile e intercambiabile – Gossip Girl per esempio aggiunse allo scenario da liceo privato chic la componente tecnologica, l’arrivo degli smartphone e il grande potenziale comunicativo che ne derivava – che non è invecchiato praticamente mai. In effetti, tutti andiamo a scuola, tutti ci troviamo ad affrontare la prima cotta, tutti subiamo la forza brutale delle dinamiche di gruppo.
Il punto di svolta nella serialità per adolescenti potremmo individuarlo con l’arrivo di un prodotto inglese che ha in effetti rovesciato le carte in tavola, ossia Skins, un concentrato di tutti gli elementi tipici del teen-drama ma arricchito da una componente devastante e senza precedenti, la cruda verità. Non che prima non ci fossero state delle rappresentazioni di momenti e situazioni brutte, pericolose, violente, ma l’aura di finzione era sempre pronta a proteggere i giovani telespettatori con un filtro indorante. Via i set finti e iper-illuminati da costa californiana, via i timidi amori consumati con romanticismo in casette sul lago, i protagonisti di Skins – uscita nel 2007 per la rete britannica E4 e in Italia per quella che fu la rete dei giovani, MTV – sono delle caricature oscene di stereotipi giovanili ma fatte tanto bene da risultare plausibili. La droga, il sesso, le malattie mentali, la morte e tanto altro ancora non sono più solo un contorno a una trama che punta all’happy ending ma il cuore pulsante della storia, e chiunque abbia avuto come me la fortuna di ritrovarsi sotto agli occhi una cosa del genere a 16 anni sa bene cosa vuol dire provare un sospiro di sollievo e dire “Ah, ecco, allora si può fare”. Tutto ciò che è venuto dopo questi grandi filoni di racconto del dramma adolescenziale pescano nell’immaginario creato in queste serie, anche se se ne discostano per forma o contenuti; in Italia poi, c’è stato un ulteriore apporto per il genere, i libri e film tratti dai libri di Federico Moccia. Gli anni dei 3MSC scritti sui diari e dei lucchetti con le iniziali, della trama cattivo ragazzo con moto e brava ragazza stanca del suo ruolo ingessato, che, guarda caso, ritornano nel 2020 con una serie originale Netflix, la sopracitata Summertime.
Se Baby punta tutto su un’atmosfera Skins, sul fascino del proibito e delle ragazze fuori controllo – obiettivo non proprio raggiunto vista la discrepanza tra la forma della serie, girata con una certa attenzione alla qualità, e i contenuti ridotti a una scrittura abbastanza povera – Summertime, che da quando è uscita ha sbancato le classifiche della piattaforma e non solo in Italia, rimanda all’estetica mocciana da amore impossibile di Step e Babi. L’ennesimo tentativo di creare una realtà parallela, in questo caso quella di una Cesenatico in versione California con tanto di longboard sulla strada e party in stile spring break, in cui le avventure degli adolescenti sono talmente artefatte e implausibili da diventare un mero esercizio di stile sul tema teen-drama. Eppure, la serie tira, gli adolescenti sono ben disposti a guardare una puntata dopo l’altra per una sessione di binge watching da quarantena, nonostante il risultato sia deludente, oltre che noioso e confinato solo a un pubblico molto giovane. Ma giovane non vuol dire stupido né incapace di comprendere messaggi più complessi e meno artificiosi, motivo per cui, tornando al punto di partenza, Skam Italia è in effetti la cosa migliore per quanto riguarda questo genere che probabilmente si potesse realizzare in Italia oggi.
Innanzitutto, Skam non è un format italiano ma è un remake di una serie norvegese che ha avuto un enorme successo quasi ovunque, grazie non solo alla struttura della trama e ai suoi personaggi – il solito gruppo di adolescenti a scuola – ma soprattutto a una novità che hanno introdotto i suoi inventori. Utilizzare internet come aggiunta, come risorsa per arricchire in tempo reale la storia che va avanti nelle puntate attraverso la diffusione di ciò che succede nel mondo parallelo della classe e dei punti di incontro reali, ossia le chat e i social. Un’idea a dir poco intelligente per far fronte alle esigenze realistiche di una generazione che di certo non basa la sua comunicazione solo sugli incontri in spiaggia o in classe. Esiste un mondo parallelo a quello fisico, ed è quello virtuale, quindi perché non utilizzarlo come risorsa narrativa? La storia di Skam poi, non ha niente di particolarmente speciale, non è né pulp come Skins – anche se prende evidentemente spunto da alcuni suoi elementi come quello di concentrarsi sui personaggi uno alla volta – né è una versione artificiale di una città come Roma. Skam è semmai un ritratto molto dettagliato di uno spaccato di società, quella di un normale liceo di Roma Sud – facendo mancare dunque la classica componente “pariolina” che tanto affascina gli amanti degli stereotipi nelle trame – che non azzarda né sottovaluta le esigenze e le emozioni di un gruppo di diciassettenni piuttosto normali.
Questo mix di formula ibrida tra episodio e aggiornamento di ciò che succede online – cosa che è stata però molto ridotta per la nuova stagione a causa del coronavirus – e rappresentazione di momenti di insignificante (ma centrale) verità è ciò che rende Skam un teen-drama che va oltre l’obiettivo presunto del genere di coprire i gusti di un’unica fascia d’età. Ci sono ovviamente una serie di elementi che, visti con gli occhi di una persona adulta, suonano stucchevoli, ridondanti, inutili, come l’ossessione per il tema dell’amore e la pesantezza con cui dei teenager parlano di storie da liceo. Ma se si fa un piccolo sforzo con la memoria, sono sicura che tutti noi adulti, cinici o romantici, possiamo essere d’accordo sul fatto che in effetti, a quell’età, tutto ciò che succedeva sembrava gravissimo, qualsiasi amicizia sembrava eterna e una relazione estiva da campeggio veniva vissuta con l’ardore di un dramma di Shakespeare. E poi, soprattutto, con il cambio di focus da personaggio a personaggio che avviene a ogni stagione, c’è spazio per approfondire diversi temi, anche molto attuali – revenge porn, coming out, slut shaming e altri prestiti presi dall’inglese che definiscono nuovi concetti – senza fretta, fornendo un ritratto lento e accurato di momenti dove magari non succede niente di che ma che invece per un adolescente sono tutto. Senza fare spoiler, per esempio, ho trovato molto riuscita una lunga scena al rallentatore in cui una delle protagoniste viene aiutata a vomitare in un secchio per la sua prima sbronza: niente di eccezionale, un momento che abbiamo vissuto tutti, e proprio per questo capace di generare empatia con lo spettatore, di qualsiasi età sia.
Non penso che Skam Italia sia un capolavoro della cinematografia contemporanea, né una serie capace di sconvolgere il mondo; penso però che ogni genere ha le sue eccellenze e che puntare a dar vita a un buon prodotto, anche se si tratta di una serie per adolescenti, sia un obiettivo che chiunque faccia questo lavoro dovrebbe avere, piuttosto che indugiare su stereotipi, cliché, trame inesistenti e personaggi per nulla approfonditi. Il motivo per cui sia Skam che Skam Italia hanno avuto tutto questo successo, oltre all’intuizione di chi le ha create, è che come tutte le storie raccontate bene affonda le radici in profondità creando una struttura di personaggi solida. Non che manchino i momenti troppo teen-drama che ti fanno sghignazzare invece che commuovere, certo, così come non penso che sia scontato che una serie del genere possa coinvolgere un pubblico più ampio e diversificato. Ma Skam dimostra una certa complessità di rappresentazione che mi fa pensare che non per forza data l’età a cui è indirizzato qualcosa bisogna rinunciare alla sostanza. Che poi si tratti di materia buona per le dediche sulla Smemoranda – oggetto che peraltro credo non si usi neanche più – questo è un altro discorso. Ma il teen-drama merita una sua dignità, e per questo spero che la direzione per il futuro, dato la centralità del genere, sia quella di non sottovalutarlo. Anche perché, cosa c’è di più complesso del caos emotivo ed esistenziale dell’adolescenza: sono solo ragazzi, sì, ma mica sono stupidi.