Non mi è ancora del tutto chiaro se le serie tv per adolescenti debbano riuscire a piacere anche chi ha superato la pubertà o meno. Chi è cresciuto con la programmazione pomeridiana di Italia Uno, come la maggior parte dei miei coetanei, ha sviluppato una certa conoscenza in termini di teen-drama, considerato che si è sorbito repliche e prime visioni di Beverly Hills 90210, Gossip Girl, Dawson’s Creek, The O.C., per citare le produzioni più famose, più tutta una lunga lista di serie minori come 15/Love o Blue Water High. Quindi non è così assurdo che ogni volta che si presenta la possibilità di riscoprirsi adolescenti la si colga con un piglio anche piuttosto schizzinoso, da sommelier della serie per liceali: ne abbiamo viste a quintali e ora ci sentiamo in dovere di mettere in pratica la nostra expertise per sentenziare su prodotti del catalogo Netflix che probabilmente non hanno nemmeno la pretesa di piacere a gente che ha tolto l’apparecchio da ormai molti anni. Certe volte veniamo delusi, anzi forse il più delle volte – come nel caso di Baby e The End of the F***ing World, per quanto mi riguarda perlomeno – e si ritorna al punto di partenza, ovvero alla domanda sulla questione della fruibilità estesa di questo genere di serie tv e su quanto sia in effetti così necessario che un trentenne qualsiasi debba poter guardare un teen-drama senza annoiarsi. Poi però, ci sono dei casi che ti fanno completamente ricredere, dando la prova del fatto che se una cosa è scritta bene, pensata e costruita ancora meglio, allora non c’è partita che tenga con il gioco dell’età: Sex Education, la serie uscita recentemente per Netflix, è uno di questi esperimenti riusciti.
Quando andavo al liceo ero sempre rappresentante di classe. Durante gli orari di assemblea di solito non si parlava di nulla di veramente importante, qualche lamentela, qualche opinione sulle gite e così via. Poi una mattina è successa una cosa strana, non ricordo nemmeno da cosa sia scaturita: ci siamo messi tutti in cerchio e abbiamo cominciato a parlare di sesso. Ma non di sesso in senso goliardico, proprio di problemi e dubbi ancestrali che ognuno di noi aveva in materia, scoperchiando il vaso di Pandora della totale ignoranza di molti di noi sul tema, nonostante magari avessimo rapporti già da tempo. Questa sorta di alcolisti anonimi per vergini e neofiti dell’eros ebbe un impatto molto forte su di noi, e ci fece rendere conto di quanto fosse centrale il tema della sessualità nella nostra adolescenza e quanto allo stesso tempo brancolassimo nel buio, un po’ per pudore, un po’ per mancanza di persone con cui aprirsi, un po’ per paura. La trama di Sex Education ruota proprio attorno a questa idea, alla convinzione sbagliata e paradossale per cui il sesso – e tutto ciò che lo riguarda, in particolare il nostro corpo – debba rimanere sospeso in un limbo di detto e non detto. Pur sapendo perfettamente quanto sia centrale nella crescita di una persona e quanto spazio occupi nella nostra testa a quell’età (non che la cosa migliori con gli anni, ma almeno assume fattezze meno mitologiche), continuiamo a percepire come imbarazzanti certi problemi che magari accomunano molte più persone di quanto possiamo credere, e finiamo col trasformare insicurezze e dubbi in problemi che poi ci portiamo dietro per molti anni, spesso sublimandoli in altri campi.
La trama di Sex Education, ambientata in una cittadina della campagna inglese, è piuttosto semplice: Otis è il figlio sfigato e impacciato di una famosa sessuologa, Maeve una ragazza con una storia familiare molto difficile ma con un aspetto e un carattere affascinanti. I due si ritrovano per una serie di circostanze ad avviare un business di counseling sessuale per gli studenti del liceo che frequentano, tirando fuori inevitabilmente tutte le tragedie, i segreti, le stranezze e le follie dei loro coetanei. Fanno in pratica quello che la mia classe – e penso qualsiasi altra aggregazione di adolescenti in piena tempesta ormonale – qualche anno fa sentiva così forte l’esigenza di fare: mettersi in una zona franca priva di giudizio e ritrovarsi davanti alla vexata quaestio, sono normale? La risposta, ovviamente, è sempre no: nessuno è normale, non esiste un format unico attraverso cui vivere la propria sessualità in modo lineare e privo di qualsiasi intoppo, sia mentale che fisico. Tutti hanno un problema, e tutti hanno la possibilità di risolverlo. Attorno a Otis e Maeve dunque si accumulano casi e caratteri disparati, tra chi teme di dover perdere la propria verginità entro l’adolescenza per non diventare una gattara sola e depressa, chi non riesce ad avere rapporti con la propria fidanzata nonostante la ami, chi ancora non è in grado di eiaculare a causa di svariate pressioni sociali, o chi non si è mai chiesta cosa le piaccia e cosa si provi a masturbarsi. Il quadro è un coro di nevrosi e ansie che si sommano dando luogo a quella fase tragica della propria esistenza in cui si è ancora convinti che il parere del branco sia davvero importante per la propria formazione. Sono anni di angoscia, paranoie e insicurezze che si traducono in fame di accettazione e conferme, e che nel sesso più che in qualsiasi altro ambito trovano terreno fertile per prolificare nella loro insidia snervante.
Al di là della trama, che già di per sé fornisce molto materiale per costruire sotto-trame divertenti e interessanti, è piacevole riscontrare in Sex Education l’intenzione di non scadere mai nella banalità di personaggi secondari che seguono cliché e a cui non viene dedicata nessuna attenzione se non quella strumentale allo sviluppo dei protagonisti. È vero che Otis e Maeve sono i due personaggi che mettono in piedi l’espediente per fare sì che la storia vada avanti, ma è altrettanto evidente che attorno a loro ci sono un sacco di altre persone, ognuna con un carattere ben definito e problemi specifici. È come se gli autori di questa serie avessero volutamente inserito l’universo di Sex Education in un simulatore automatico di teen-drama per fare sì che spiccasse ancora di più la cifra caratteriale dei suoi protagonisti, come una sorta di commedia dell’arte dove ognuno indossa la sua maschera che incarna tradizionalmente un tipo di personaggio che ci aspetteremmo di trovare in scena: lo sportivo, la ribelle, lo sfigato, il ragazzo omosessuale, il bullo. La scuola, per esempio, nonostante si trovino nel Regno Unito, ha tutti gli elementi del college americano – dal prom agli armadietti – ed è l’emblema dell’ambientazione per adolescenti che si concretizza in queste atmosfere volutamente cariche delle loro caratteristiche cinematografiche; i ragazzi seguono una moda senza criterio se non quello dell’eccesso, c’è chi sembra uscito dagli anni Ottanta e chi invece da un anime giapponese, o chi come Maeve sembra una caricatura di Courtney Love o di qualche riot grrrl anni Novanta (tant’è che ascolta le Bikini Kill). E dunque, Sex Education più che nella realtà sembra essere ambientato su Instagram, la piattaforma che meglio consente all’immaginario postmoderno contemporaneo di mescolare epoche e stili diversi, tra retromanie ed eccentricità. Proprio come in questa scuola fittizia dove c’è sempre il sole – come da tradizione californiana – e tutti sembrano esponenti di qualche corrente estetica adolescenziale.
Tra tutte le storie parallele che compongono la serie però, ce ne sono alcune particolarmente riuscite, e una di queste è quella che riguarda il rapporto tra Otis e sua madre. Siamo abituati a vedere rappresentata una dinamica genitore-adolescente in cui il primo incarna il rigore e la severità del “vai a letto senza cena” e il secondo la ribellione e la sfacciataggine del “ti odio”. Per fortuna esistono tanti modi diversi di essere sia genitori che figli, ma ciò che il passaggio da una generazione a quella presente ha di nuovo rispetto a quelle passate è senza dubbio la tendenza ad accorciare sempre più distanze e differenze tra adulti e adolescenti. Il modo in cui la madre di Otis mette in imbarazzo suo figlio proprio per il suo essere così invidiabilmente giovanile e cool è un tema molto attuale che punge sia sull’ossessione di rimanere per sempre giovani della nostra epoca, sia sul diritto di viversi la propria età come meglio ci pare, senza vincoli anagrafici. La dottoressa Jean – interpretata da Gillian Anderson – è la quintessenza della mamma del 2000, che non si vergogna a parlare apertamente con i propri figli adolescenti di temi spinosi come il sesso, un’arma a doppio taglio che se da un lato garantisce più libertà e più unione nella vita familiare dall’altro inibisce Otis, che sente il peso dell’eros che incombe sulla sua testa, fino a impedirgli con un blocco psicologico di avere qualsiasi contatto il suo pene. Ma anche la solitudine di Maeve, che vive in una roulotte e che invece con la madre non ha nessun tipo di rapporto se non una foto sgualcita di prima che questa scappasse via, ci mostra per inverso il danno dell’assenza di figure di riferimento, in grado di prendersi cura di creature come gli adolescenti che si sentono tanto adulti quanto in realtà sono ancora più che altro bambini con i brufoli e qualche pelo in faccia. Così come nella storia di Eric, l’amico omosessuale di Otis, che riesce a riavvicinarsi e a farsi accettare dal padre per la sua eccentricità – ama infatti truccarsi e sperimentare con uno stile a cavallo tra due generi – grazie, paradossalmente, alla religione. È infatti un’esperienza in chiesa tra canti gospel che unisce di nuovo Eric alla sua famiglia e che gli permette di sentirsi di nuovo parte di una comunità che invece aveva lui stesso rifiutato – con un interessante ribaltamento di stereotipo rispetto al tema della spiritualità, tradotto ironicamente nell’icona di un Gesù nero e muscoloso che il ragazzo tiene appesa sopra al letto.
Sex education quindi, senza dare l’impressione che si tratti di una serie progresso riempita di forzate strizzate d’occhio alla comunità LGBQT+ né a spettatrici e spettatori femministi, riesce anche nell’ardua missione di mettere in scena realtà di famiglie e di personaggi che si distanziano dai modelli tradizionali con una spontaneità sorprendente. Omosessualità e parità sono semplicemente due elementi della realtà che non hanno bisogno né di introduzioni né di spiegazioni – come dice uno dei personaggi a un bullo che prova a mettere in difficoltà Eric, “omophobia is so 2008”. Non so se si tratti di un talento particolarmente sviluppato negli inglesi, visto che già anni prima avevano dato prova della loro abilità nel rappresentare gli adolescenti in modo divertente e brillante sia nella serie Skins, sia in Misfits. Sta di fatto che Sex Education è la prova che si può comunicare con età diverse senza creare un prodotto incasellato in un solo genere da imboccare ai teen-ager. Anzi, si possono usare proprio gli stilemi del teen-drama, portandoli all’esagerazione fino a rappresentarli finalmente per quello che sono, dei contenitori che se non vengono riempiti bene rimangono solo recipienti pieni di stereotipi noiosi.