Dahmer, la serie tv Netflix incentrata sulla vita del “mostro di Milwaukee”, è già diventata di culto, tanto che due settimane dopo la sua pubblicazione ha già accumulato più di 299 milioni di visualizzazioni, diventando così la seconda serie tv in lingua inglese più vista al mondo, subito dopo Stranger Things 4. Il clamore che ha suscitato può essere dovuto a molti fattori, tra cui l’ottima interpretazione di Evan Peters nei panni del protagonista e la brillante ideazione di Ryan Murphy – autore, tra le altre cose, della celebre American Horror Story. Sicuramente però, come tutti i prodotti dedicati ad indagare la vita dei protagonisti che sono diventati di culto, la figura del serial killer fa ormai parte dell’immaginario pop, basti pensare a film che raccontano vicende ispirate a personaggi davvero esistiti (come Il mostro di Firenze e Zodiac), passando per storie inventate (come la serie Dexter), fino ai veri e propri documentari, come ad esempio quelli sugli omicidi di Ted Bundy.
La loro popolarità dovrebbe spingerci a chiederci perché siamo tanto attratti da questi prodotti e in che modo vengono rappresentati a livello mediatico. Queste due domande, infatti, non sono scollegate: l’interesse verso la figura del serial killer è correlata anche alla narrazione a cui siamo esposti. Il silenzio degli innocenti, Non aprite quella porta, Bates Motel sono tutti prodotti cinematografici che vedono al loro centro la figura dell’omicida seriale. I protagonisti di queste storie – Hannibal Lecter, Thomas Hewitt e Norman Bates – sono personaggi immaginari ispirati a figure realmente esistite e vengono tutti rappresentati come persone molto intelligenti, ma con evidenti problemi a livello di relazioni sociali, spesso soggiogati dalla presenza ingombrante di madri su cui ricade in qualche modo la colpa di aver cresciuto persone sadiche e pericolose. Questa narrazione volta a sottolinearne la straordinaria intelligenza ci porta per certi aspetti a mitizzarli e al contempo a considerarli diversi, “mostruosi”. Inoltre, pur esponendoci a scene violente, questi prodotti sembrano costruiti per farci sentire al sicuro: il “mostro”, infatti, è sempre qualcun altro e ha una storia molto diversa dalla nostra.
Nelle vicende raccontate sul grande e piccolo schermo, è il trauma ciò che spiega l’evolversi della personalità dei killer. Scopriamo così l’infanzia tragica di Hannibal Lecter, preso in ostaggio da un gruppo armato, insieme alla sorellina, uccisa e offerta a lui in pasto. Norman Bates, invece, durante la giovinezza vive pesanti abusi psicologici a causa di una madre violenta che lo educa alla misoginia; Dexter Morgan diventa un assassino per aver assistito, da piccolo, all’omicidio e allo smembramento della madre implicata in un traffico di droga. Anche Dahmer, che a differenza di questi prodotti racconta la storia realmente accaduta del protagonista, sottolinea questo aspetto. Tra il 1978 e il 1991, a Milwaukee, in Wisconsin, Jeffrey Dahmer torturò e uccise diciassette persone, per lo più giovani uomini incontrati casualmente nei luoghi di ritrovo della comunità gay. La serie, che procede attraverso salti temporali, ne tratteggia l’infanzia e la prima adolescenza mostrando i numerosi traumi subiti a livello personale e familiare. La madre è una donna con una forte depressione, motivo per cui non riesce a occuparsi del figlio in modo adeguato. Il padre è spesso lontano e, anche quando passano del tempo insieme, non sembra a suo agio col bambino. Jeffrey è solo, isolato dai coetanei, e comincia a interessarsi alla tassidermia, passione che il padre – chimico – incoraggia, insegnandogli alcune tecniche per praticarla e mettendogli a disposizione uno spazio nel capanno in giardino. Quando il ragazzo compie diciotto anni, poi, ha già un evidente problema di alcolismo di cui nessuno, però, in famiglia sembra accorgersi.
Il trauma che si origina in vicende biografiche così lontane da quelle del pubblico sembra essere il modo con cui registi e sceneggiatori mettono gli spettatori al riparo da una verità scomoda: fornendo una visione in un certo senso semplificata del problema, omettono di considerare che non sempre le vicende in cui sono stati coinvolti i serial killer possono essere spiegate esclusivamente facendo appello a una storia personale tragica. L’attenzione nei confronti del trauma di natura clinica è figlia di una società che tende a costruire barriere per difendersi dal potenziale pericolo di trasformarsi in un “mostro”. Non è un caso se la maggior parte degli assassini seriali viene rinominata dai media con epiteti che rimandano alla disumanità. Ed Gein, che ha ispirato i personaggi di Lecter e Hewitt, passerà alla storia come “il macellaio di Plainfiled”; Dahmer verrà ricordato per essere stato “il cannibale di Milwaukee”; Henry Howard Holmes invece come “l’arcidemonio”. Si tratta di espressioni che ci aiutano a estrometterli dalla società, a considerarli come cellule impazzite che devono essere allontanate proprio per non intaccare il tessuto collettivo con la loro ontologica malvagità.
Simone Sauza nel suo libro Tutto era cenere a questo proposito scrive: “Il sentire che il mondo che abitiamo è un mondo condiviso è un tratto fondamentale dell’esperienza degli altri e di ciò che chiamiamo empatia. Esso non è un palcoscenico ma è la rete di senso in cui possiamo dire ‘io’; rete che ci struttura e viene strutturata dall’interazione”. Nell’ipotesi dell’autore, l’omicida seriale diviene tale anche in seguito alla perdita di questa dimensione relazionale, quando cioè non percepisce più la presenza del mondo che abbiamo in comune. Questa interpretazione, a cavallo tra filosofia e psicologia, non si pone in antitesi con le evidenze di natura psichiatrica. È ovvio che le personalità degli assassini seriali nascondano tratti ossessivi, sadici, manipolativi e antisociali che necessitano di essere indagati. Tuttavia, a differenza di quanto alcuni potrebbero credere, molte persone si ritrovano a vivere quelle che i neuropsichiatri definiscono “esperienze sfavorevoli infantili”, ovvero eventi traumatici, spesso continuativi, come la trascuratezza, l’abuso fisico o sessuale, l’esposizione alla violenza intrafamiliare, eppure non tutte si trasformano in efferati assassini seriali. Adottare un’impostazione che, seguendo il ragionamento di Sauza, permetta di non escludere il peso della dimensione relazionale, dell’empatia e della co-costruzione di senso ci consente di considerarli meno “mostruosi”, meno dissimili, e al contrario tragicamente più umani.
Nonostante, o forse proprio a causa di, una narrazione tutta focalizzata sulle origini traumatiche, gli sceneggiatori tendono a rappresentare questi killer come soggetti brillanti, abili manipolatori capaci di mettere in atto azioni crudeli senza farsi scoprire. La biografia di molti assassini seriali mostra però come queste caratteristiche raccontino solo una parte della storia, dato che in realtà al tempo stesso appaiono come persone comuni, protette da un sistema di potere che paradossalmente garantisce loro una certa impunità. Emblematica in questo senso è la storia di John Mane Gacy, conosciuto come il “clown killer”, che negli anni Settanta ha rapito, seviziato e ucciso più di trenta ragazzini. Sposato con la figlia di un ricco imprenditore e militante nel partito democratico, cominciò molestando un adolescente, Donald Voorhees, negli anni Sessanta. In seguito alla denuncia venne incarcerato, ma liberato su cauzione dopo pochi mesi di detenzione, durante i quali continuò a professare di essere un perseguitato politico e a comportarsi da detenuto modello. Dopo aver lasciato la moglie, aprì una ditta di costruzioni e iniziò con gli omicidi seriali. Nelle sue mire finirono anche due suoi dipendenti che, nonostante il tentativo di violenza, riuscirono a fuggire; Gacy, però, poco tempo dopo la prima aggressione non andata a segno, tornò a molestarli sessualmente sul luogo di lavoro, motivo che non porterà i due a denunciarlo, bensì a lasciare l’incarico facendo perdere le proprie tracce.
Il desiderio di uccidere, quindi, è spesso sostenuto da un sistema che consente agli assassini di agire indisturbati, forti del loro posizionamento o della ricchezza accumulata. Nella vicenda di Ted Bundy, per esempio, ci sono molte testimonianze che la polizia ignora, tanto da permettere al killer di agire indisturbato e trasferirsi in un altro stato prima che gli agenti potessero mettersi sulle sue tracce. Anche Henry Howard Holmes – che, tra il 1892 e il 1894 a Englewood, una località dell’Illinois vicina a Chicago, uccide centinaia di persone all’interno del suo hotel, o “il Castello”, fatto costruire attraverso i soldi ottenuti da truffe assicurative – ha potuto muoversi inosservato perché le sue azioni venivano sistematicamente ignorate. Holmes iniziò a uccidere per riscuotere le assicurazioni delle sue ignare vittime, solo col tempo però finì per dare vero e proprio sfogo alla sua personalità sadica, arrivando a torturare fino alla morte le persone che, sventuratamente, soggiornavano nel suo hotel, intascando poi i loro averi. Si pensa che abbia ucciso circa duecento persone. Sarà Marion Hedgepeth, una complice a cui aveva promesso un’ingente somma di denaro mai elargita, a denunciarlo, obbligando la polizia a riaprire i casi delle scomparse e delle morti sospette avvenute nei quattro anni precedenti.
In Dahmer, il killer porta su di sé lo stigma dell’essere omosessuale, tuttavia esso risulta attenuato in ragione del suo aspetto e del suo ceto sociale. Bianco, biondo, appartenente alla classe media e con un volto “da bravo ragazzo”, l’omicida riceve in più occasioni un trattamento di favore da parte della polizia e della giustizia. Nonostante le segnalazioni, per lo più compiute dalle vicine di casa – donne nere e marginalizzate – il killer non solo non viene fermato, ma addirittura in un caso gli viene riaffidata la giovanissima vittima che era riuscita a fuggire dal suo appartamento. Dahmer compie omicidi ai margini dei circuiti sociali considerati rispettabili. Si metteva sulle tracce delle vittime muovendosi intorno ai gay bar della città e adescando prevalentemente giovani uomini, spesso minorenni, di origini asiatiche o afroamericane, portandoli nel suo appartamento in un quartiere periferico e povero della città. Dahmer quindi non è “visto”, ha potuto uccidere anzitutto perché la società stessa, che poi lo ha chiamato “mostro”, gli ha concesso una totale impunità grazie all’ostracismo nei confronti dell’omosessualità e al razzismo dilagante.
La serie ha il pregio di mostrare gli effetti che una cultura innervata di razzismo e omofobia ha avuto sullo sviluppo della vicenda. Tuttavia, non riesce a distaccarsi dall’idea della mostruosità insita nel protagonista. La vicenda che riguarda Jeffrey Dahmer si radica così in un “altrove” a cui noi non apparteniamo, illudendoci che ci sia una netta separazione tra il nostro stare al mondo e quello dell’omicida. Riconoscere, al contrario, che la nostra storia non sia poi così distante da quella del “mostro”, che ci assomiglia più di quanto vorremmo credere, significa assumere la fragilità della realtà ed esporci a una possibilità. Il serial killer – usando ancora le parole di Sauza – è “un’estrinsecazione parossistica dell’uomo comune”, per questo non possiamo appellarci all’ontologia per dichiarare la nostra assoluta estraneità a quell’esistenza. Al contrario, quello che ci insegnano storie come quella narrata in Dahmer è che vi è una zona grigia, uno spazio e un tempo antecedente a quella frattura originaria ed è lì che l’intervento delle persone e delle relazioni può aiutarci a scrivere una storia diversa.