In Italia quando muoiono sono tutti Maestri, ma la tv di Zavoli era l’opposto di quella superficiale di oggi - THE VISION

Ieri è stata la giornata dei coccodrilli per la morte di Sergio Zavoli, come era inevitabile che fosse. Copia-incolla selvaggi da Wikipedia, vecchi filmati riproposti per dovere di cronaca, giudizi sull’uomo e sul professionista grondanti ammirazione più che giustificata. Tutto ciò che probabilmente Zavoli non avrebbe mai fatto con gli altri e non avrebbe mai voluto per se stesso. Se c’è una lezione che più di tutte ha lasciato al giornalismo, infatti, è quella di travalicare la superficialità della notizia, evitando facili sentimentalismi. Zavoli raccontava il fatto nudo, lo mostrava al pubblico e poi lo approfondiva mettendosi di lato. Oggi però siamo nell’era del gilettismo, dove il conduttore è sotto i riflettori e brama l’applauso del pubblico, dove il giornalista non fa domande ma indirizza le risposte, dove il protagonismo porta a cercare il consenso personale più che la verità, dove anche le parole di commemorazione sono scritte per attirare l’attenzione su se stessi.

Tra tutte le intuizioni che ha avuto Zavoli, in oltre settant’anni di carriera, quella che maggiormente rispecchia il suo modo di intendere il giornalismo e la televisione è sicuramente il programma La notte della Repubblica. 18 puntate andate in onda a cavallo tra il 1989 e il 1990 e ora disponibili su RaiPlay. Per descrivere la trasmissione è riduttivo parlare di approfondimento giornalistico, perché all’interno è possibile trovare l’analisi di un ventennio (dal 1969 al 1989) nevralgico per la storia del nostro Paese, il racconto degli anni di piombo e del periodo più duro dal secondo dopoguerra, dalla strage di Piazza Fontana alla sconfitta del terrorismo. A rendere La notte della Repubblica una pietra miliare però non è solo l’elenco degli argomenti che affrontava, ma il modo in cui sono stati trattati.

Zavoli fa parlare i diretti protagonisti. Durante le interviste lui non si vede, si sente soltanto la sua voce, per il resto la scelta registica è vincente: sfondo nero e telecamera sull’ospite, spesso in primo piano. Se oggi le interviste si dividono in processi (quando viene invitato il politico nemico) e tappeti rossi (Barbara D’Urso che intervista Berlusconi), quella di Zavoli appare quasi come una seduta di psicanalisi. Il conduttore non giudica, così come non lo fa lo psicologo, ma indaga a fondo, vuole capire e far capire qualcosa ai suoi spettatori, andare oltre il velo della notizia filtrata. Non esiste inoltre alcun tipo di censura o tentennamento etico e morale: viene dato spazio a membri delle brigate rosse, a terroristi neofascisti, a magistrati e presidenti del Consiglio, senza distinzioni. Non sta al giornalista sentenziare, insegna Zavoli: non è il suo compito. Questo non vuol dire consegnarsi alla passività: Zavoli incalza l’ospite, lo contraddice quando serve, indaga, ma non alza mai la voce e lascia che siano i fatti e il modo in cui vengono raccontati a instradare lo spettatore.a dibattito con diversi ospiti. Tra questi, Zavoli ha voluto invitare politici di ogni fazione, protagonisti di quel tempo – da Tina Anselmi a Giovanni Leone, da Oscar Luigi Scalfaro a Giuliano Amato – mischiati con giovani che in futuro avrebbero occupato posizioni di potere, anche se in questo caso con risultati discutibili: su tutti Roberto Formigoni, Pier Ferdinando Casini e Ignazio La Russa. Durante il dibattito le luci sono accese anche sullo sfondo, Zavoli è visibile, non c’è l’intimità delle interviste singole e il clima è totalmente diverso dai talk show politici moderni: non c’è l’animosità di chi cerca la rissa, non si parla per slogan, il conduttore modera senza invadere gli spazi ma indirizzando la discussione verso il nucleo della questione con domande dirette e pertinenti. E soprattutto non c’è il pubblico con gli applausi comandati, quella claque di invasati che oggi muta in base all’ospite e, quindi, applaude tutti come si fosse allo stadio.

È quindi normale stupirsi quando i giornalisti di oggi mandano messaggi per Zavoli in un tripudio di “Ciao maestro”, quando sono i primi a non aver seguito il suo esempio. La sua televisione era l’esatto contrario di quella di adesso, improntata sulla superficialità e sulla banalizzazione degli argomenti. Oggi si fa share con l’ospite che urla di più, con lo scandalo che diventa virale sul web e crea curiosità per la trasmissione del giorno o della settimana dopo. I tempi sono cambiati e così i talk show, è vero, ma è innegabile un crollo della qualità del servizio pubblico e privato. I tempi televisivi sono molto più veloci, non viene mai concessa una pausa di riflessione, un ospite che argomenta prendendosi il tempo necessario: l’urgenza di riempire ogni vuoto ha cannibalizzato il modo di impostare una trasmissione. Zavoli lasciava agli ospiti la possibilità di ragionare, c’era un attimo di attesa prima dell’esternazione di un pensiero. A rivedere oggi quei filmati, sembra tutto al rallentatore, ma il cervello degli spettatori riusciva a immagazzinare le informazioni. Oggi no.

Per capire come realizzare un’intervista di valore, La notte della Repubblica è la miglior scuola possibile. Durante la dodicesima puntata, la seconda dedicata al caso Moro, Zavoli intervista Mario Moretti, uno dei capi delle Brigate Rosse, tra i carcerieri del leader della Democrazia cristiana. Zavoli non spettacolarizza l’evento, ricorda che Moretti è stato condannato a sei ergastoli e si pone nei suoi confronti senza astio o pregiudizi. Il risultato è molto diverso da quanto ci si sarebbe potuti aspettare: Moretti appare come un uomo distinto, persino elegante nei modi, pacato, dal linguaggio forbito, che espone le sue idee. Per un attimo dimentichiamo che stiamo ascoltando un terrorista. Per non mitizzare il personaggio, Zavoli però risveglia la nostra coscienza chiedendo a Moretti: “Cosa direbbe a Eleonora Moro?”, la vedova di Aldo. Ancora una volta restiamo sbigottiti di fronte alla risposta di Moretti, che spiega il gioco dei ruoli lasciando intendere che fosse inevitabile avere come nemico il capo della Democrazia Cristiana. Zavoli replica con una placidità disarmante, dicendo che in uno Stato di diritto essere presidente della Democrazia Cristiana non implica il destino di essere ucciso. Moretti si rifugia nel concetto di scontro sociale, ma inizia a innervosirsi, tira fuori una penna e la agita mentre parla. Zavoli, senza mai aggredirlo, l’ha messo con le spalle al muro.

Nella televisione di oggi accade esattamente il contrario. Ci si ferma alla denuncia creando uno show d’aggressione contro il carnefice, e ogni possibilità di riflessione innescata dalla vicenda si esaurisce così. Zavoli non assaliva mai l’intervistato. La ragione è semplice: non era il suo ruolo. Il giornalista non può e non deve travestirsi da magistrato, deve raccontare una vicenda in modo limpido, senza omissioni, per informare il pubblico al di là del bene e del male. Nella settima puntata de La notte della Repubblica, dedicata all’attacco alla magistratura, Zavoli intervista Mario Sossi, magistrato rapito dalle Brigate Rosse, e Alberto Franceschini, che delle BR era un membro di spicco. Immaginate come verrebbe gestita oggi un incontro del genere. Zavoli invece è riuscito a guidare una delle puntate più interessanti, senza sfruttare il clamore della spettacolarizzazione.

Mario Sossi

Quello che manca oggi nel giornalismo televisivo è lo spazio necessario per l’approfondimento. Anche le trasmissioni che realizzano reportage ben fatti, poi dedicano spazio a personaggi acchiappa-share. Ne è un esempio Piazza Pulita di Corrado Formigli: per ogni ottimo servizio sui curdi bisogna bilanciare con qualche rissa in studio, con Sgarbi che manda a cagare il conduttore o altri ospiti che se la promettono a vicenda. Perché probabilmente i dirigenti temono che se il programma fosse esclusivamente basato sui reportage di guerra o sulle inchieste di livello, resterebbe un prodotto di nicchia, per un pubblico fidelizzato ma non per la massa, quella che è invece attratta dallo scandalo che va in tendenza su YouTube. E stiamo parlando di un giornalista preparato, figuriamoci le trasmissioni dove la percentuale di trash scavalca qualsiasi altro contenuto. La notte della Repubblica era la quintessenza del servizio pubblico che in molti vorrebbero, e che ora non abbiamo più.

Un altro frammento da menzionare è l’intervista a Vincenzo Vinciguerra, terrorista neofascista che ha partecipato alla strage di Peteano. Anche in questo caso il “mostro” inizialmente ci appare umano, garbato, come durante l’intervista a Moretti. Vinciguerra, reo confesso e condannato all’ergastolo, parla di una guerra contro lo Stato, espone le sue ragioni riconducendo le azioni a un attacco militare contro le istituzioni. Ancora una volta Zavoli smaschera il fanatismo senza gesti eclatanti. Chiede a Vinciguerra quali fossero le attività del suo gruppo, e come risposta ottiene un elenco monco: volantinaggio, manifestazioni, proselitismo. Zavoli interviene pronunciando solo tre parole: “Mettere qualche bomba”. E qui Vinciguerra, come Moretti, si trasforma: c’è un accenno di risata nel suo volto, ammette che “qualche bomba è stata messa” e compare nei suoi occhi una luce tra il folle e il dissacrante, sbatte le palpebre in modo diverso. Zavoli l’ha messo a nudo con tre parole.

Un’altra lezione che ci ha lasciato Zavoli è quella di inquadrare un personaggio nel suo complesso, e risulta quindi inevitabile farlo anche con la sua figura. Zavoli non era di certo quel che si definisce un giornalista “scomodo” – non che sia necessario per forza esserlo per essere bravi giornalisti – e certamente rientrava nella cultura nazionalpopolare. Non superò mai certi confini, anche se avrebbe potuto, e questo l’ha portato a svolgere qualsiasi mansione alla Rai, fino ad arrivare al vertice come direttore, e in seguito presidente della commissione di Vigilanza proprio nel periodo dell’affaire Santoro. Inoltre è stato Senatore per 17 anni, prima con i Ds e poi con il Pd. Zavoli era senza dubbio parte integrante dell’establishment televisivo e politico italiano, ma ciò non ha mai tolto valore alla sua professionalità, o declassato il suo lavoro. Ciò che è giusto ricordare, però, è che non remava certo controcorrente – altrimenti nel 1943 non avrebbe scritto sulla testata dei Gruppi universitari fascisti.

Zavoli verrà ricordato per tanti aspetti del suo lavoro, per la creazione di programmi innovativi – come Il processo alla tappa, che ha rivoluzionato il modo di vedere il ciclismo – per i suoi saggi e le sue poesie. È però La notte della Repubblica il contenitore di tutte le sue migliori qualità, l’eredità che ha lasciato a un’intera nazione. Perché in quegli incontri viene raccontata una storia, la nostra, e nel miglior modo possibile.

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