La satira verso i potenti è sparita dalla tv. Così ci accontentiamo di una comicità senza mordente. - THE VISION
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Invece di farmi provare sollievo e spensieratezza, tra le cose che mi hanno messo più angoscia in questo momento storico a dir poco devastante, c’è il fiume di meme e di commenti ironici nati dalla crisi di governo, dalla convocazione di Mario Draghi, ai deliri di onnipotenza di Matteo Renzi. Più siamo in casa a lavorare o a studiare da remoto, chi può farlo, più proviamo a sublimare i rapporti sociali con la nostra presenza online e più ogni notizia, anche la peggiore, può trasformarsi in una scusa per produrre una caterva di tweet, commenti, meme e post per riderci su. Se dovessi contare la quantità di battute su Draghi e Game of Thrones che ho letto negli ultimi giorni, probabilmente ci metterei svariate ore: non che prenderla in ridere sia una strategia sbagliata, l’ironia è sempre un’alleata dei momenti difficili, ma la mole di intrattenitori dell’ultima ora, così come di qualsiasi professione esercitabile online, dal critico cinematografico alla modella, fa riflettere su quanto certi temi e certi generi di contenuti culturali, sia alti che bassi, abbiano stravolto le loro forme negli ultimi anni grazie a internet, a volte abbassando di netto la qualità, altre invece garantendo libertà d’espressione e la possibilità di emergere anche dal basso. La satira politica – e la sua assenza quasi totale dalla televisione contemporanea, controbilanciata da una sovrapproduzione sul web che spesso scade nel dozzinale – è uno di questi temi su cui è il caso di interrogarsi, dal momento che il suo stato è sempre una cartina tornasole della situazione culturale e politica in cui ci troviamo.

Prima di tutto, è bene sottolineare che la satira politica non è un’etichetta che si applica a priori su un genere per conferirgli uno stato di superiorità intellettuale né una formula codificata sotto schemi rigidi entro i quali bisogna muoversi: qualsiasi ironia può essere “politica”, anche la più apparentemente surreale e distante dalla realtà; qualsiasi cosa produciamo culturalmente, dal verismo al dadaismo, è una conseguenza diretta del contesto sociale da cui proviene, anche quando se ne distanzia in modo esoterico. Non è dunque l’imitazione pedissequa e fedele di un parlamentare o lo sberleffo a un partito che determina il peso e la forza della comicità, altrimenti trasmissioni come Il Bagaglino, dove di parodie di politici se ne facevano in grandi quantità e tutte calibrate in modo abbastanza sapiente da non dare fastidio a nessuno, sarebbe una sorta di Charlie Hebdo della televisione anni Novanta. Non è così, Il Bagaglino non è mai stato un luogo di dissacrante critica alla società, né lo sono stati tanti altri programmi comici che hanno fatto comunque la storia della nostra tv, nonostante non abbiano mai avuto l’obiettivo di corrodere “i potenti” e il loro consenso o di risvegliare in qualche modo le coscienze.

Allo stesso tempo, ci sono stati in Italia tanti comici e intellettuali che, tramite diversi tipi di ironia, hanno raccontato a tutti gli effetti la storia politica del nostro Paese, anche su reti iper-generaliste come la Rai. Basti pensare a tutta la tradizione comica della televisione di Serena Dandini, dei fratelli Guzzanti, di Neri Marcorè, di Paolo Rossi e ancora prima di Dario Fo, di Giorgio Gaber e persino di Beppe Grillo, tanto impegnato a parlare di politica che poi ha deciso di farla in prima persona – con le conseguenze che conosciamo bene. Se non ha molto senso elencare nomi del passato tanto per rifugiarsi in un complesso dell’epoca d’oro, è però importante capire dove sia migrata  l’esigenza fondamentale e spontanea di satira politica che fino a pochi anni fa trovava molto spazio anche nei media più istituzionali e che oggi invece sembra essersi frammentata in tante altre piccole realtà molto meno generaliste.

Serena Dandini
Corrado Guzzanti

Irridere il forte, desacralizzare la sua intoccabilità, partire dal basso per raggiungere l’alto e dargli uno schiaffo metaforico è un meccanismo che esiste nella retorica da quando esistono gli uomini e le disparità, quindi da sempre. Non c’è nulla di divertente nel vedere un gigante che schiaccia un moscerino – al massimo c’è del sadico, altro tipo di umorismo – mentre trovare un nemico comune, irriderlo insieme e godere anche solo per un attimo di questo rovesciamento di ruoli è qualcosa che cominciamo a fare già a scuola, quando un compagno simpatico fa la caricatura di una professoressa cattiva. Questo dispositivo orale di tiro a bersaglio verso il potere, politico o meno che sia, è ciò che negli ultimi anni è migrato in lidi sempre più confinati a bolle di pubblico e sempre meno presente nei vecchi media come la televisione che, sebbene non abbia i numeri di vent’anni fa, costituisce ancora un mezzo primario di informazione del presente, con milioni di ascolti ogni giorno.

Se escludiamo le imitazioni di Crozza, ormai piuttosto ripetitive e non propriamente mordaci, il tono scherzoso di Propaganda Live – che sembra più una rivisitazione televisiva di Twitter, fatta eccezione per il contributo di Zerocalcare che è forse l’unico vero e proprio contenuto di satira politica che passa per una tv generalista – qualche raro ritorno di Serena Dandini con programmi brevi che rimangono purtroppo un po’ in sordina e i monologhi di Luciana Littizzetto, la situazione televisiva italiana, per quanto riguarda la satira politica, al momento è piuttosto desolante se paragonata a qualche decennio fa. L’unico programma comico che ha generato molto dibattito e consensi, nonostante gli ascolti bassi che però hanno compensato tutto in termini di riscontro online, specialmente tra le generazioni più giovani, è stato Una pezza di Lundini, trasmissione che fa dell’ironia meta-televisiva e delle situazioni surreali il suo cavallo di battaglia. Un esperimento che, esattamente come il docu-reality Il Collegio, è servito per dimostrare ai media classici che i giovani non guardano la tv forse anche perché è la televisione stessa a essere diventata un reparto di geriatria, con tutto il rispetto per la vecchia guardia.

Luciana Littizzetto

Ma al di là del successo sui social e delle capacità di questo comico surreale, la polemica che ha stimolato con un altro comico, storico volto della nostra tv, Daniele Luttazzi – ormai sempre più defilato anche per via delle diverse vicende ambigue che lo hanno coinvolto a proposito di plagio – è interessante. Non tanto per questo patetico scontro generazionale – che trova da un lato i puristi della satira politica dura, cruda e sagace e dall’altro le nuove leve dedite al surrealismo disimpegnato in nome della risata ebete – ma perché dalle parole sprezzanti di Luttazzi nei confronti di Lundini, a detta sua un comico innocuo che non crea nessun problema in tv e per questo così amato da tutti, si può cogliere lo spunto di una riflessione più profonda che non ha tanto a che fare con la frecciatina di un veterano diretta a una nuova leva.

Daniele Luttazzi

La satira politica, in questo momento, è sicuramente un genere meno comune di quanto non fosse vent’anni fa in tv. In parte si può giustificare questo calo di interesse con una saturazione generale dovuta agli anni di Berlusconi: durante i suoi mandati i comici più famosi e importanti non perdevano occasione per criticarlo in qualsiasi modo possibile – e giustamente. Oggi, il “nemico” sembra molto più impalpabile, frammentato e difficile da cogliere per trasformarlo in un vero e proprio oggetto di derisione, tant’è che, un altro comico contemporaneo, Edoardo Ferrario, ha per esempio impostato il fulcro del suo programma per RaiPlay, Paese reale, sulla parodia degli elettori, invece che degli eletti, in una trasmissione che, giusto per dimostrare ancora una volta la lontananza della tv da qualsiasi cosa possa essere considerata comica e politica, è stata trasmessa solo in streaming.

Edoardo Ferrario in una puntata di “Paese Reale”

Ci sarebbe allora da chiedersi se la satira politica – mirata ed esplicita – non sia al momento in qualche modo indebolita dalla politica stessa, dato che ormai quest’ultima si presenta spontaneamente in un modo talmente caricaturale da non lasciare più nulla all’imitazione. In effetti, basta farsi un giro tra i profili social di Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Renzi o molti altri – per fortuna, non proprio tutti – per avere a portata di mano una rappresentazione comica, per non dire grottesca, concessa dalle stesse cariche dello Stato. A cosa serve una Sabina Guzzanti travestita da Massimo D’Alema quando c’è già un parlamentare che si immortala mentre corre, un senatore che addenta una fetta di pane e Nutella, una ministra che va in barca a vela, una segretaria di partito che addirittura crea i meme che la ritraggono?

In questo momento, essendosi interrotto quel senso di distacco e superiorità che c’era tra il politico e gli elettori – un processo iniziato con Berlusconi e concretizzatosi con il Movimento 5 Stelle e la sua retorica sulla democrazia diretta – si è anche persa l’esigenza di creare qualsiasi forma di dissenso e sberleffo comico. Questo elemento di disorientamento sicuramente influisce, ma solo in parte; altrimenti, tornando al punto di partenza, non ci sarebbero i meme, le pagine satiriche sui social, i gruppi su Facebook o i canali su Telegram dove si ironizza sulla situazione politica attuale dalla mattina alla sera. Quindi, forse, non è tanto che non esistono più i Gaber o i Guzzanti, ma semplicemente che non esiste uno spazio collettivo e generalista come un tempo era la televisione entro cui si possano esprimere liberamente anche attacchi spietati, senza badare alle conseguenze. Probabilmente alla televisione fa più comodo così o magari è perché c’è una distanza talmente grande da un punto di vista mediale tra le vecchie e le nuove generazioni che – escludendo quasi del tutto le ultime da qualsiasi luogo istituzionale, se non per reality o talent show dove appaiono come innocenti concorrenti senza nessuna voce in capitolo se non per prestarsi a giochi demenziali – si evita di rischiare qualsiasi forma di contatto che potrebbe nuocere all’unico scopo che domina qualsiasi palinsesto: gli ascolti, la pubblicità, il profitto. Tutto il resto è superfluo. E l’azzardo di investire su format che puntino a un intrattenimento meno disimpegnato e che non si adagino sul consenso di un pubblico rodato e fedele non viene corso quasi mai.

Questo discorso non vale solo per la televisione e per la satira, ma per qualsiasi argomento che non rientri nel raggio di interesse dei media istituzionali, dai grossi giornali alla tv di Stato: da un lato ci sono i giovani con i loro meme e i loro interessi “incomprensibili”, da TikTok a Twitch, dall’altro i vecchi con i loro programmi tutti identici, ormai da decenni, con ospiti incartapecoriti cuciti sulle poltrone; in mezzo, nessun punto di incontro se non per spararsi a vista. La satira politica è sempre stata uno strumento per mettere sotto ai riflettori tutte le malefatte più indecenti e ridicole delle nostre classi dirigenti; in questo momento, siamo così sopraffatti dalla mole di idiozie che provengono “dall’alto” che ci accontentiamo di sghignazzare con un meme e finirla là.

La satira politica non si è estinta, non è sparita nel nulla, né ha smesso di essere rilevante, sono i modi in cui la esprimiamo che hanno totalmente cambiato forma. In questa trasformazione si perde sempre di più un senso di collettività e coesione generale, in favore di tante piccole realtà frammentate che si autoalimentano tramite quel fenomeno che viene definito echo chamber. Se la televisione invece di trincerarsi dietro alla sua formula innocua e autocompiacente si aprisse alla possibilità di ospitare anche contenitori capaci di lasciar spazio a una creatività meno mansueta e condiscendente, e se noi nuove generazioni ci crogiolassimo meno nella sicurezza di Internet, magari si troverebbe un punto di incontro e tutti quei meme satirici potrebbero diventare il punto di partenza per un confronto politico generazionale che al momento sembra totalmente assente.

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