La reunion del cast di Friends diciassette anni dopo l’ultimo episodio della sitcom mi è sembrata una scusa per farci prendere parte a una sorta di rito catartico e piangere insieme al resto del mondo per un passato che non c’è più. La dentiera abbagliante di Matthew Perry, simile a quella di Ross nel famoso episodio dello sbiancamento non andato a buon fine; David Schwimmer vestito come un venticinquenne con felpa e giubbino di jeans, ma con i capelli visibilmente tinti; Courtney Cox con il volto intorpidito dal botox: una gigantesca baracca per farci rivivere tutti i momenti salienti della sitcom, con tanto di collegamento su Zoom con un Gunther molto invecchiato e visibilmente triste. Questa è di per sé un’operazione che non può che suscitare un misto di tenerezza e tristezza per qualcosa che è finito e che non tornerà più. Un po’ come le rimpatriate di classe dopo decenni in cui si fa il conto di chi si è sposato e chi ha un lavoro decente, il concetto stesso di “reunion” ha in sé il seme del rischio, sia che si tratti di un prodotto televisivo famoso in tutto il mondo sia che si tratti di una semplice pizzata tra ex compagni di scuola.
Da grande fan di Friends, non solo ho visto la reunion ma ho anche pianto in più momenti, mi sono divertita a rivedere alcune scene della sitcom e, alla fine, nonostante l’impatto straniante del vedere Jennifer Aniston con gli occhiali di Stefano Bonaccini di nuovo al Central Perk, me la sono goduta. Ma l’idea commerciale dietro a questa grande operazione nostalgia – al di là della riuscita del format che è comunque circoscritto al singolo episodio andato in onda – ribadisce una tendenza sempre più forte nel mondo dell’intrattenimento odierno. Sembra infatti che gli anni Venti del Duemila si arrovellino su un passato che non si riesce a dimenticare, costellati da costante citazionismo, ammiccamento ai cult, ripescaggio di trame, personaggi, ambientazioni, ma soprattutto da una serie infinita di reboot e remake. L’operazione messa in atto con il cast di Friends è dichiaratamente nostalgica, non è pensata per chi non conosce la sitcom ma per gli stessi fan, ed è in linea con un filone contemporaneo di retromania – come la chiama il critico Simon Reynolds – incessante, che si manifesta su diversi piani e che dovrebbe farci chiedere se non abbiamo per caso finito le idee.
Questo fenomeno sembra riprodursi anche in ambito musicale. Per citare un episodio molto recente e specifico di questo eterno ritorno basti per esempio ascoltare il testo di due hit estive appena uscite: “Salsa” di J-Ax e Jake la Furia e “Senorita” di Clementino e Nina Zilli, in cui vengono usati i versi di una celebre canzone da spiaggia degli anni Cinquanta come “La Bamba”. Ma è forse il caso dei Måneskin a fornirci l’esempio più interessante su questo tema: la band – composta da quattro ragazzi molto giovani, tutti nati tra il 1999 e il 2001 – è infatti una perfetta rivisitazione di tutti gli stilemi del rock classico, una sorta di restaurazione a regola d’arte di un tipo di musica e di look che richiama apertamente e con estrema cura del dettaglio molte band venute prima di loro dagli anni Sessanta in poi. A questo proposito è curioso come il gruppo sia riuscito persino a entrare nella classifica del Regno Unito, patria storica del rock, con un brano e un look che agisce a livello di impatto sul pubblico su due piani distinti: da un lato riporta alla mente un’immagine musicale che negli ultimi anni si è persa per strada, con annesse critiche e indignazione dei puristi del genere; dall’altro colpisce le nuove generazioni, che magari non hanno mai avuto contatto con il genere e percepiscono come innovativo uno stile codificato e già digerito da decenni.
Tornando al cinema e alla serialità: negli scorsi giorni è stato presentato il trailer del reboot di Gossip Girl, un’operazione interessante visto che non si tratta nemmeno di un prodotto in stile Stranger Things che celebra l’estetica e i temi tipici degli anni Ottanta e di film come I Goonies, ma fa un salto ancora più breve e quasi attuale nel passato recente, gli anni Dieci. Lo stesso discorso vale per il reboot delle Tartarughe Ninja, programmato per l’agosto del 2023, per quello di Sex and the City, di Spiderman – con i supereroi poi si apre una parentesi a parte, così come per la saga di Harry Potter – ma anche di Lizzie McGuire, poi cancellato, o per i nuovi inutili episodi di Gilmore Girls. C’è anche tutto il filone dei cartoni animati per bambini trasformati in remake live action, ossia il modo più semplice di riutilizzare tutti i classici portando le famiglie al cinema senza fare troppi sforzi di trama – Mulan, Aladdin, Lilli e il Vagabondo, Crudelia, ma anche Maleficent; per non parlare delle infinite saghe di Star Wars che ciclicamente vengono riprese e rivisitate in tutti i modi possibili, dai prequel ai sequel passando per Mandalorian e Baby Yoda.
La differenza di oggi rispetto a un’attitudine che esiste da sempre – Marx sosteneva nei suoi Scritti sull’arte che le epoche classiche ci sembrano così idilliache e perfette per lo stesso principio per cui la nostra infanzia ci sembra molto più rosea e piacevole dell’età adulta – sta però nella natura perlopiù commerciale e di massa che è alla base di queste operazioni, nonché in un senso di eccesso che caratterizza il nostro tempo. Sembra che, passati alcuni decenni di estrema creatività in vari ambiti, adesso ci trovassimo di fronte a una grande epoca di riciclo, come se avessimo fin troppo materiale da cui attingere e dovessimo ancora smaltirlo. Si tratta di una sensazione che si può apprezzare pienamente in due luoghi: nei negozi di abbigliamento usato e sfogliando il catalogo Netflix. In entrambi i casi appare evidente quanta roba sia ancora perfettamente utilizzabile, tanto che viene da chiedersi se abbia senso crearne di nuova.
Un altro aspetto centrale del tardo capitalismo e della società del consumo al picco della sua performance riguarda poi la fine di alcune forme artistiche come le abbiamo conosciute fino a questo punto. L’arrivo di Internet ha infatti indirizzato tutto il discorso culturale sulla brevità, l’accessibilità, la commistione di testo e immagine e questi cambiamenti hanno un impatto inevitabile anche su ciò che consumiamo dal punto di vista dei contenuti. Motivo per cui, attingere dai grandi classici dell’epoca d’oro delle serie tv o del cinema non è poi così strano, anzi, al contrario, se analizziamo il fenomeno da questa prospettiva, sembra quasi una conseguenza naturale dell’epoca in cui viviamo.
Il grande sottotesto di questa riflessione, tuttavia, è il punto dolente di un tratto innegabile della contemporaneità, una caratteristica che ha sempre fatto parte dell’essere umano: non accettare che qualcosa finisca, sia che si tratti della vita che di una serie televisiva andata in onda con la sua ultima puntata diciassette anni fa. In questo moto di perenne giovanilismo occidentale, tutto ciò che fa parte di decadi passate e che è ormai finito e superato può tornare in una nuova veste e in una nuova edizione, magari con qualche dettaglio modificato, con nuovi volti e qualche correzione rispetto ai temi dell’attualità verso cui c’è più attenzione. E forse l’unica idea di cui siamo rimasti a corto, più che quelle per le sceneggiature o per le canzoni, è l’idea che in effetti una fine c’è sempre, ci piaccia o no.