Si possono dire tante cose su Milano: la si può trovare una città insostenibile per i suoi ritmi e la si può amare per lo stesso motivo. Se Roma è la città eterna che non cambia mai, sempre identica a se stessa, attaccata con i denti e con le unghie al suo passato – non a caso Federico Fellini in Roma sceglie la metro come metafora della sua immutabilità – Milano è l’esatto opposto, mai uguale a se stessa: è la capitale morale e allo stesso tempo quella immorale di tangentopoli, è la città del boom economico, dell’industria, delle brigate rosse, di piazza Fontana, di Craxi e di Berlusconi. È al contempo il luogo del progresso più spedito e inarrestabile, del modello Milano alla Beppe Sala, e del razzismo retrogrado e populista di Matteo Salvini, un paradosso piuttosto emblematico. Nel 2020 Milano è la città degli influencer, del digitale, della fashion week e, più in generale, della week di qualsiasi cosa. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, di Instagram non c’era traccia, di YouTube e content creator neppure, ma non mancava di certo la spinta creativa e oppositiva che si genera in un luogo di fermento e dinamicità come una città che incarna la quintessenza del modernismo occidentale. C’era un sottobosco culturale, figlio di una specifica tradizione meneghina, che si intersecava con il tessuto urbano attraverso club e teatri; c’erano Paolo Rossi e lo Zelig, la scena di comici e cabarettisti che si presentava come alternativa all’egemonia mediatica berlusconiana, e che al contempo ne faceva parte.
Le cose non sbucano mai fuori dal nulla, e se un fenomeno si concentra in modo così specifico e connotato in un luogo, significa che il terreno era fertile, come nel caso evidente della scena comica di quegli anni e del suo ruolo nella nostra tv in quelli successivi. Televisione e teatri, compresi i club dove si esibivano i cabarettisti e gli attori che vivevano a Milano ma che – come tante persone che tuttora popolano la città – non erano nate lì, sono sicuramente i due elementi cardine dello sviluppo così denso e prolifico della comicità. Paolo Rossi è forse il personaggio migliore attraverso cui comprendere quel periodo, perché è in qualche modo il simbolo di ciò che stava accadendo nel momento di massima espansione comunicativa berlusconiana, ma anche con lo scombussolamento nazionale del dopo “Mani pulite”. Seguendo il percorso professionale e artistico del comico – triestino di nascita, ma milanese d’adozione – si possono comprendere molte delle cose che stavano avendo luogo in Italia in quello specifico momento, una fase sociale e culturale del nostro Paese in cui hanno preso forma strutture comunicative molto precise che si riflettono ancora oggi nelle manifestazioni dei media.
Per orientarsi in questa moltitudine di forme, spazi e personaggi, si può partire da un film del 1987 che mette in scena in modo chiaro – forse ai limiti del didascalico – ciò che stava succedendo: Kamikazen – Ultima notte a Milano. Questo film di Gabriele Salvatores, sceneggiato da Gino e Michele, due autori che hanno scritto la storia della comicità italiana, è infatti più che una pellicola di finzione una sorta di documentario, dal momento che riassume tutto ciò che stava succedendo dal punto di vista di chi viveva la scena culturale underground di quell’epoca in prima persona. Gli attori e i cabarettisti che erano passati per un pelo dal Derby Club, uno storico locale milanese che tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta aveva dato spazio ad artisti come Gaber e Jannacci, creando uno spazio di aggregazione che definire fertile sarebbe riduttivo, erano confluiti in una nuova realtà, quella dello Zelig.
L’avvento della televisione privata, che in Italia si traduce con il nome di Silvio Berlusconi e del suo apparato mediatico mastodontico, aveva infatti stravolto le carte sul tavolo dell’intrattenimento: un cambiamento che ha a tutti gli effetti cambiato l’Italia stessa. In particolare, era Drive In a dettare le nuove regole della comicità, la storica trasmissione anni Ottanta di Antonio Ricci, l’autore del fortunato “telegiornale satirico” Striscia la notizia, baluardo di pseudo-informazione che tutt’oggi tiene salde le redini del suo successo. Un tripudio di edonismo reaganiano che prendeva forma in studi televisivi ultra-pacchiani, stracolmi di donne oggetto e battute dozzinali, ma proprio per questo tanto allettante per un pubblico che non vedeva l’ora di staccare il cervello dalla pesantezza degli anni di piombo. In Kamikazen si vede chiaramente quale fosse il ruolo di questo palcoscenico targato Mediaset. I giovani comici emergenti, che provavano a fare del cabaret il loro mestiere, sapevano bene quanto una presenza in quel coacervo di iperconsumismo anni Ottanta avrebbe potuto determinare una svolta di carriera senza paragoni. E infatti, i protagonisti del film – che poi erano anche i protagonisti della scena comica di quel periodo: Paolo Rossi, Antonio Catania, Silvio Orlando, Claudio Bisio – sono chiamati a esibirsi davanti a un ipotetico autore della trasmissione, un talent scout in cerca di nomi da aggiungere al cartellone già piuttosto nutrito di Drive In.
Il legame tra i locali come il Derby prima e lo Zelig poi e la scena comica di quel periodo è fondamentale, anche perché l’unica alternativa a questo tipo di realtà dove potersi esibire era la televisione. Una televisione che, se da un lato promuoveva questi format carichi, edulcorati e non proprio raffinati (per non dire proprio volgari), dall’altro si poteva declinare anche in forme completamente diverse, come quella messa in piedi da Paolo Rossi, esponente della comicità anti-sistema per eccellenza. Se da un lato la tv di Serena Dandini creava quella ondata di comicità romana nella seconda serata di Rai 3, fatta di Guzzanti e TV delle ragazze, a Milano nasceva un gruppo di comici non allineati con l’estetica Mediaset – ma non per questo estranei a quelle reti: basti pensare alla furbizia di Berlusconi di “accaparrarsi” sia la Dandini che Rossi pochi anni dopo con Comici – che confluivano in quel piccolo miracolo televisivo che è stato Su la testa! nella sua unica stagione di messa in onda, nell’inverno del 1992. Un programma andato in onda che, insieme allo Zelig, ha fatto da trampolino di lancio per molti.
Si trattava di uno studio-tendone messo in piedi in un quartiere popolare milanese famoso per diverse ragioni, ossia Baggio, ora tornato alla ribalta grazie a Ghali, un tempo noto anche per la canzone di Gaber Il tic: “Lavoravo in quel di Baggio alla catena di montaggio”. L’intento del programma era creare una serie di episodi monotematici come risposta allo scandalo di “Mani pulite”, il terremoto giudiziario che ha causato uno stravolgimento politico per il nostro Paese e che metteva Milano in ginocchio. La comicità di Su la testa! per quanto fosse spesso leggera, surreale e scanzonata, non si tratteneva da una satira pungente, disillusa ma anche per certi versi speranzosa come quella messa in scena da Paolo Rossi – il tema del futuro e dell’eredità di ciò che stava succedendo era centrale.
Rossi basava i suoi monologhi su temi di attualità raccontati a metà tra una favola, un diario personale e una parodia della realtà che prendeva forma, ad esempio, tra i tanti pezzi scritti per la trasmissione, in un’assurda imitazione di Umberto Bossi. Ben prima che la Lega Nord diventasse la Lega di tutti, quella che non fa discriminazioni tra Nord e Sud ma odia indistintamente tutto ciò che viene percepito come estraneo – oggi gli immigrati, domani chissà – nei primi anni Novanta c’era infatti la Lega di Umberto Bossi. Un fenomeno che Rossi scompone e parodizza in modo a dir poco accurato, con il suo solito stile che sembra un inciampare tra le parole, ma che arriva sempre dritto al punto senza la minima esitazione, portando chi ascolta con apparente leggerezza a conclusioni tutt’altro che superficiali.
Su la testa! è stato un momento particolarmente fortunato per la comicità milanese che dai club si trasferiva alla televisione, tanto che nella trasmissione c’erano anche Aldo Giovanni e Giacomo, il trio destinato a diventare un simbolo del genere negli anni successivi, con film cult come Tre uomini e una gamba, per non parlare di tutta la parte teatrale. Gino e Michele, autori della trasmissione insieme a Rossi, saranno poi anche autori di Zelig, il programma Mediaset che avrebbe dovuto riportare in tv l’atmosfera del locale da cui prende il nome ma che con gli anni, come quasi tutto nella televisione commerciale, si è trasformato in un prodotto dozzinale e di qualità non proprio raffinata. Maurizio Milani, Bebo Storti, tra gli altri nomi lanciati dalla trasmissione, Lucia Vasini, ex moglie di Rossi, attrice con cui condividerà spesso il palco anche nelle sue trasposizioni di Mistero buffo di Dario Fo. E poi ovviamente Antonio Albanese con il suo Alex Drastico, parodia del terrone machista – “Io ce l’ho tanto” – uno dei primi veri personaggi storici del comico di origini siciliane e calabresi che, con Rossi e gli altri, ha poi continuato insieme alla Gialappa’s, con i vari Mai dire, un programma che insieme a Blob ha anticipato tutto ciò che facciamo su internet oggi: scomporre la televisione, commentarla, estrapolarne le parti più involontariamente comiche; in sostanza, renderla un meme.
Se da un lato la tv di Berlusconi fagocitava qualsiasi spazio diventando un punto di riferimento per gli italiani, dall’altro viveva una fase in cui si poteva permettere ancora di dare spazio alle voci brillanti e dissidenti come quella di Paolo Rossi, nonostante lui stesso concludesse un suo monologo sul Cavaliere dicendo: “L’unica chiusa comica di questo pezzo è la mia che non lavorerò mai più a Canale Cinque”. Rossi, negli anni, ha continuato sia con il teatro che con la comicità, e le cose nel frattempo sono molto cambiate, i media e il modo in cui nascono nuovi talenti dello spettacolo ancora di più. La sua carriera e quella dei comici che lo hanno affiancato in quegli anni preziosi, però, rimane un punto fermo nella nostra cultura e in quella di una città come Milano che, sotto la patina di conformismo che spesso indossa per moda o puro marketing di sé stessa, ha una storia ricca di persone come Paolo Rossi, che con la sua comicità, anche nonsense e paradossale, ha sempre e solo sognato un mondo più divertente, egualitario e giusto.