“Pachinko” è la serie che ci insegna come affrontare la sfortuna nutrendo ostinatamente la speranza - THE VISION

Nella tradizione napoletana si tramanda questo detto: “Il male peggiore è quello di chi conosce il bene e sa che non può averlo”, ed è stata la prima cosa che ho pensato appena finito Pachinko, la serie prodotta da Apple Tv tratta dal bestseller La moglie coreana, di Min Jin Lee. La showrunner coreana naturalizzata statunitense Soo Hugh, grazie a un lavoro durato quattro anni ha saputo con maestria andare oltre la semplice trasposizione, facendo uno dei migliori adattamenti degli ultimi tempi. Ampliando i contenuti del romanzo di Lee, la storia acquisisce infatti una profondità di sguardo ancora maggiore, tanto che ogni personaggio diventa un potenziale protagonista, grazie anche all’intreccio elaborato fra eventi e piani temporali diversi, che si alternano tra loro in un gioco fluido di rimandi e confronti fra presente e passato.

Dal primo episodio seguiamo la vita di Sunja ancor prima dalla sua nascita, benedetta dal favore degli antenati, che dopo la morte in culla dei suoi fratelli, hanno concesso a sua madre e a suo padre, uno storpio locandiere, di dare inizio a una nuova stirpe. Amata dai genitori, Sunja cresce nella piccola comunità di pescatori di Yeongdo all’inizio del Novecento, nella Corea Coloniale vittima dell’imperialismo giapponese, tra i campi di riso bianco – proibito ai coreani e riservato all’uso e consumo esclusivo dei giapponesi – e il mercato del pesce, dove, nonostante il terrore generale, è l’unica a non chinare il capo al passaggio delle autorità giapponesi. Presto si passa a New York, nel 1989, dove Solomon, il nipote di Sunja, giovane e ambizioso intermediario finanziario – un arrivista su cui ricadono tutte le speranze di redenzione della famiglia – lavora per una prestigiosa banca statunitense. Proprio nel primo episodio anche se gli viene negata la promozione che gli permetterebbe di salire ai piani alti, lui non demorde e sfrutta le proprie origini proponendosi di concludere un affare milionario con un’anziana signora, testarda e coreana come lui. Solomon torna così a Osaka dove Sunja si è stabilita nel 1931 in cerca di fortuna insieme al marito, il pastore Isak. Stravolgendo l’ordine cronologico è evidente il continuo paragone con il passato e la critica mossa alla contemporaneità: alle umiliazioni e ai soprusi subite dai coreani a causa dell’imperialismo giapponese viene accostato l’ingresso di Solomon nella succursale giapponese della banca e alle spie coreane che in Giappone denunciano i reazionari contro l’imperatore, i colleghi invidiosi e arrivisti di Solomon. Un gioco di specchi che mostra chiaramente quanto nel tempo la forma di potere esercitata da pochi si sia magari un po’ “abbellita”, ma nella sostanza resti identica, e l’aspirazione a diventare come “loro” sia ancora una trappola.

Il pachinko è il gioco d’azzardo più diffuso in Giappone, una sorta di flipper verticale che usa piccole sfere d’acciaio, affittate dal proprietario della sala al giocatore, perché in Giappone il gioco è illegale e con questo trucco si aggira la legge, evitando di introdurre denaro direttamente nella macchina. Lo scopo del gioco è quello di catturare il maggior numero possibile di sfere per poi poterle scambiare con altri premi o denaro nei negozi che offrono la possibilità di cambio al di fuori del casinò. Si ritiene che il gioco sia nato nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali e che il nome derivi da pachi pachi “qualcosa di leggero che esplode”, come i bambini iniziarono a chiamarlo a causa del rumore delle sfere che cadono. Solomon si vergogna dell’attività del padre proprio perché considerato un mestiere disonorevole e quindi l’unico accessibile ai zainichi come loro – cioè coreani residenti in Giappone e immigrati durante il periodo di dominazione giapponese.

Nel Pachinko muovere le palette per cercare di indirizzare le sfere non serve a tanto, come spiega Mozasu mentre insegna al piccolo Solomon come manomettere il gioco, eppure, è la speranza che spinge ogni giocatore a tornare in sala per sperperare quel poco che ha, mandando avanti il locale e così la vita e il mondo. La stessa forza che ha permesso a Sunja di far sopravvivere i suoi figli e che ha canalizzato tutti i suoi sforzi insieme a quelli di Mozasu per tentare di offrire a Solomon la possibilità di andarsene dal Giappone, un Paese che come allora non ha mai voluto accoglierli. Questo per Solomon vuol dire sopravvivere, accontentarsi mentre ciò che gli interessa veramente sembra essere l’affermazione della propria identità, anche a costo di sporcarsi le mani perché “fra soldi sporchi e soldi puliti non c’è differenza”. Si fa così spazio la rappresentazione di un divario generazionale che oggi più che mai è forte e apparentemente insanabile in Corea, in Giappone e in America e anche da noi.

Il pachinko diventa la metafora della storia dell’esistenza che insegue se stessa, che nel suo ciclo infinito di distruzione e creazione si riscopre ogni volta, generazione dopo generazione, diversa ma identica. Il gioco distingue fin da subito perfettamente anche noi sulla base di una sola discriminante: chi si arrende perché non può sopportare la vita e si aggrappa al passato e chi invece guarda avanti e rinnova dopo ogni colpo se stesso e il suo obiettivo. Chi gioca e chi no. Come ogni gioco d’azzardo si tratta di una prova più legata alla sorte che all’abilità ed è questo il filo che lega tutta l’esistenza della famiglia di Sunja, nelle cui vene sembra scorrere una maledizione. Proprio la dimensione storica e il susseguirsi di più calamità, insieme al perpetrarsi intergenerazionale della discriminazione rappresentano le palette manomesse da Mozasu, corsi e ricorsi storici, contro i quali il giocatore e nessuno di noi può niente. 

Se la sceneggiatura è densa e mantiene un livello di tensione costante, riuscendo a tenerti incollato allo schermo per otto episodi, e poi farti aspettare la seconda stagione già annunciata, la messinscena è elaborata e curata nei minimi dettagli, che anche a migliaia di chilometri di distanza e più di un centinaio di anni di differenza, riesce a coinvolgere in maniera intuitiva e mai didascalica nel clima tipico del mercato del pesce di Yeongdo, piccola isola a largo di Busan, in Corea del Sud nel 1915, o nel ghetto coreano di Osaka, prima nel 1931 e poi nel 1989. A questa alternanza spazio-temporale, corrisponde poi anche quella linguistica: la serie è infatti girata in coreano, inglese e giapponese, mostrando a seconda della lingua utilizzata sfumature diverse di ogni personaggio, come Solomon che riesce a essere determinato e risoluto solo trattando di affari in inglese.

La serie ricorda le parole di Hitchcock: “Il cinema è la vita senza le parti noiose”, proprio perché la famiglia di Sunja non è speciale, è solo una tra le tante di poveri immigrati coreani apolidi, prima ghettizzati in Giappone e poi divenuti col tempo wannabe in cerca di riscatto. Come ogni opera riuscita, Pachinko riesce a estrarre da una trama apparentemente banale un messaggio universale. Difficile infatti non rispecchiarsi, ciascuno a modo suo, in uno dei protagonisti o nelle consuetudini di una famiglia coreana che con fatica lotta – generazione dopo generazione – contro la sorte avversa, prima per la propria sopravvivenza e poi per affermare la propria identità.

L’ultima cena a casa di Sunja, in Corea, prima di partire per sempre per il Giappone, è a base di riso bianco, un lusso che sua madre le vuole donare: permetterle di assaggiare i sapori della sua terra. Nella nascente Osaka l’accoglienza da parte dei cognati è la stessa, mentre la miseria e la paura che si respirano nel ghetto coreano rendono impossibile riconoscere tra i compatrioti dei propri simili. Lo stesso ghetto, nel 1989, è ormai una baraccopoli dove Solomon va alla ricerca di Hana, la sorellastra scomparsa poco dopo la sua partenza negli Stati Uniti, trovando al suo posto un vecchio amico che ha scelto di abbandonare la sua famiglia e il suo lavoro e di vivere lì il resto della sua vita, libero da ogni costrizione sociale. Solomon gli offre del denaro prima di salutarlo, ma è chiaro che non ha ancora capito che non è questo il punto. Cresciuto nella sala pachinko di suo padre, Solomon si vergogna delle sue origini ed è alla disperata ricerca di un riconoscimento sociale, stanco di essere considerato un giapponese di seconda classe, ma deve ancora comprendere il vero significato della sua scalata al successo: quello che Sunja e Mozasu, il padre di Solomon, si ripetono davanti alla tomba ritrovata del padre di Sunja in Corea: “Per ogni nostro passo in avanti corrisponde il passo indietro di un altro”, collocando così il lavoro di Hugh in quella stessa corrente neorealista coreana che già con Parasite, di Bong Joon Ho, si era scagliata sulle forme di ingiustizie e ineguaglianze che il capitalismo riproduce costantemente.

L’unico momento in cui si riesce a vedere la famiglia al completo è nella sigla, tra le più riuscite degli ultimi tempi, quando le generazioni si incontrano per ballare insieme il brano “Let’s Llive for Ttoday” dei The Grass Roots nella sala pachinko di Mozasu. La nostalgia di un passato perduto per sempre e del sogno di un futuro che sarebbe potuto essere migliore permea tutta la serie e riflette a pieno il clima contemporaneo di smarrimento. Mentre il susseguirsi di periodi storici, eventi e Paesi diversi incalza le quattro generazioni della famiglia di Sunja, lei rappresenta la memoria che li lega e il motivo per cui, nonostante tutto, la famiglia riunita balla. Prima la pandemia, poi la guerra, il mondo sembra sempre più volgere verso un epilogo e per quanto si possa provare a far finta di nulla la costante sensazione di instabilità resta in sordina. Forse, è anche questa nuova sensibilità ad aver garantito a Pachinko un successo istantaneo e allora dovremmo accogliere, come Solomon, l’invito a fare i conti con le nostre origini per comprendere chi siamo e come resistere in attesa del momento giusto per ballare.

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