A causa di una mia discutibile passione, mi capita spesso di ritrovarmi a guardare con un certo interesse programmi di TV regionali, in particolare quelli del luogo in cui sono nata, ovvero la Sicilia. Mi è capitato di recente di imbattermi in una trasmissione che ha riportato alla luce vecchie sensazioni che pensavo di aver sepolto una volta ottenuta la licenza media, quando mi sono ritrovata davanti a una puntata di Sicilia Cabaret che, guarda caso, andava in onda in contemporanea con Colorado. Facendo zapping tra questi due programmi, tra travestimenti da forze dell’ordine, battute ripetute ossessivamente come mantra, ironie sulle differenze tra Nord e Sud Italia, mi sono tornati in mente gli anni in cui, da adolescente, ogni giorno di scuola era scandito da qualche citazione di Zelig che puntualmente veniva interpretata da quel compagno simpatico, o da gruppi di persone che come un coro di ultras urlava compatto “Chi è Tatiana?”. Penso che chiunque – o quasi – abbia avuto la fortuna di ritrovarsi teenager in quella fase della storia d’Italia, quella dei primi anni Zero, quando sembrava che un filtro Mediaset fosse stato applicato a qualsiasi manifestazione della realtà, abbia come me una sorta di trauma per tutto ciò che riguarda il coinvolgimento di un comico, un microfono e un palcoscenico. Per fortuna però, nel frattempo, sono arrivati internet, l’ADSL e la possibilità di conoscere anche ciò che avviene al di là di un monologo di Enrico Brignano sul matrimonio e le mogli petulanti che rovinano la vita agli uomini e di un duetto canoro di Claudio Bisio e Vanessa Incontrada.
A colmare questo enorme vuoto comico e cosmico che le trasmissioni di Serena Dandini, pilastri dell’umorismo in TV, avevano lasciato con la loro dipartita, permettendo al cabaret da prima serata di esercitare l’egemonia sulla risata indotta, è stato principalmente il web, con il suo carico di materiale anglosassone da cui trarre spunto e la volontà di alcuni di cimentarsi in un genere apparentemente inedito e d’avanguardia. La stand-up comedy, con una formula diversa di comicità – dal punto di vista formale e contenutistico – ha conquistato spazio come nuovo genere che non ha proprio nulla a che fare con lo stile di artisti come Dado o Gabriele Cirilli – senza nulla togliere alle loro performance. E così, dopo alcuni anni di sperimentazione sul genere e di consolidamento sul campo, la scena degli stand-up comedians italiani è stata riconosciuta da Netflix, il portale che meglio valorizza questo tipo di spettacolo, con i suoi famosi special che da qualche anno raccolgono non solo i nomi più noti ma anche tanti altri performer emergenti internazionali. I primi tre protagonisti italiani sono Edoardo Ferrario, un nome abbastanza conosciuto su internet per via della sua serie di qualche anno fa Esami, Francesco De Carlo e Saverio Raimondo, e portano in scena spettacoli piuttosto diversi tra loro ma che rispettano i parametri di questo genere, ovvero quei dettagli fondamentali che creano uno spartiacque tra ciò che definiamo classico cabaret e ciò che invece non lo è.
La storia della stand-up anglosassone è piuttosto lunga e complessa, fatta di nomi della tradizione come Richard Pryor, Lenny Bruce, George Carlin, Bill Hicks e altri più recenti come Louis CK, Ricky Gervais e Dave Chappelle, giusto per dirne alcuni. La lista è lunga e gli stili molteplici, ma il punto principale è sempre stato lo stesso, ovvero portare in scena con un assetto molto informale e scarno – l’abbigliamento del comico è appositamente sciatto – una serie di temi che normalmente rimarrebbero taciuti: dalle nevrosi personali ai tabù sociali, religione e sesso infatti occupano spesso un posto predominante negli spettacoli. L’effetto che si deve – o almeno, dovrebbe – raggiungere è quello di fare sì che chi si sta esibendo più che un attore su un palco sembri un amico, l’amico cazzone ed esibizionista che al tavolo di un bar ti racconta qualcosa di sé o del mondo circostante nel modo più divertente e disinibito possibile. La questione della quarta parete è fondamentale: il comico non sta recitando un monologo – anche se tecnicamente è quello che sta facendo – ma ti sta coinvolgendo in un suo personale dialogo con se stesso, che ha come fine ultimo la definizione freudiana del motto di spirito – ovvero il crollo delle barriere del super-io che lasciano spazio alla fuoriuscita delle parti più nascoste, oscene, represse e indicibili dell’io sommerso attraverso una risata condivisa e spesso anche catartica. Ovviamente, questo è quello che succede quando il comico in questione colpisce nel segno, cosa che non sempre avviene, motivo per cui nella stand-up una cosa fondamentale è proprio l’errore, la sperimentazione costante, la messa a punto delle proprie battute attraverso spazi come gli open mic in cui mettersi alla prova per qualche minuto e testare l’efficacia della propria capacità comunicativa. Quello che sembra un dettaglio diventa così un punto fondamentale di questo genere di spettacolo: il luogo, il pubblico, l’intimità di un dialogo con persone che stanno bevendo una birra e vogliono farsi due risate.
YouTube, e le altre piattaforme che si sono attrezzate per permettere di fruire di questo tipo di esibizioni, ha aperto le porte di questa formula anche a noi italiani che, seppure abbiamo sempre avuto una tradizione di monologhisti affine come tipologia di contenuti e come intenzione a quelli della stand-up – basti pensare al primo Grillo, per esempio, o a Paolo Rossi, a Roberto Benigni, fino addirittura a un certo Fiorello – non eravamo ancora avvezzi a questo preciso modo di rapportarsi alla comicità. I primi a puntare su questa espressione e a gettare le basi, intorno 2009, sono stati alcuni comici attraverso una rassegna di stand-up che si svolgeva a Roma, Satiriasi, dentro la quale hanno cominciato a emergere i primi nomi più acclamati del genere: Giorgio Montanini, Filippo Giardina, Pietro Sparacino, Daniele Fabbri, Velia Lalli, insieme ad altri che si sono aggiunti e poi staccati dal gruppo di partenza per dare vita a iniziative simili. Nel frattempo, a supportare la scena è arrivata anche la televisione, con trasmissioni come Stand up Comedy – alla quale seguirà anche Natural Born Comedians e CCN – sul canale di Sky Comedy Central. Un’altra spinta decisiva è stata quella dell’Oppio Cafè, sempre a Roma, luogo in cui muovono i primi passi comici come Saverio Raimondo, oggi probabilmente uno dei volti di riferimento più autorevoli della stand-up italiana, Francesco De Carlo, che già si esibiva a Satiriasi, ed Edoardo Ferrario, proprio i tre che poi diventeranno i primi protagonisti degli speciali Netflix. È in questo contesto piuttosto di nicchia che si cominciano a formare le nuove leve del genere: Stefano Rapone, Nicolò Falcone, Michela Giraud, Luca Ravenna, Daniele Tinti, Carmine Del Grosso, una lista in crescita, a riprova della prolificità e dell’efficacia di questo genere così semplice e scarno.
Per capire perché la stand-up funziona così bene e ha un alto potenziale anche in Italia basta guardare i primi due episodi e rendersi conto di quanto quest’ora di esibizione possa essere allo stesso tempo esaustiva e scorrevole. Il primo, quello di Edoardo Ferrario, Temi Caldi, sembra veramente una serata con un amico del liceo che ti racconta le peripezie del suo ultimo viaggio. Con una comicità molto pulita e affatto volgare, Ferrario sposa la strategia del contenuto relatable attraverso una serie di temi che ti fanno pensare tutto il tempo cose come “Be’ sì, in effetti le birre artigianali hanno proprio rotto le palle”. Il suo pubblico sono i millennial, che da studenti universitari hanno fatto l’Erasmus, leggono l’oroscopo di Brezsny e in viaggio ridono se incontrano un americano con il pile Columbus e gli occhiali da sole tecnici da globetrotter. La sua abilità sta proprio nel riuscire a mettere insieme tutte queste esperienze che in tanti condividiamo e raccontarle in un modo così accurato e puntuale nel sottolinearne le contraddizioni che non può che far ridere, come succedeva con quel compagno in fondo al pullman durante la gita a Firenze al quarto anno di liceo. Francesco De Carlo, invece, punta più su una struttura paradossale, con una serie di temi che vengono articolati attraverso sviluppi assurdi: nel suo spettacolo, Cose di questo mondo, i destinatari sembrano essere più adulti rispetto a quelli di Ferrario e, anche se il centro della narrazione rimane comunque improntato sull’immedesimazione, c’è un aspetto più astratto nel suo modo di raccontarsi. De Carlo prende quindi la strada del racconto illogico e stravagante per parlarci di cose come un trasferimento a Londra e le aspettative deluse di un italiano che prova a sfondare all’estero passando per Facebook o le ubriacature moleste e soprattutto una certa propensione alla raffigurazione cinica del disagio esistenziale di un quarantenne. A differenza di Ferrario, poi, decide di atterrare su un finale impegnato con una metafora sulle diversità, critica evidente al clima politico italiano attuale, servendosi di un riferimento ironico recente, quello della pizza con l’ananas, e riportando dunque la comunicazione su un piano di coinvolgimento e comprensione immediate, che stimola proprio quella complicità necessaria tra pubblico e artista.
Non dico che trasmissioni come Zelig e Colorado non abbiano costituito un pezzo di storia, né che sia da stupidi trovarle divertenti, e nemmeno ritengo che la comicità italiana si esaurisca in questo filone, perché ci sono stati negli anni tanti esempi televisivi – e più di recente anche su internet – di artisti arguti e intelligenti, non ancorati a schemi di rappresentazione monotoni e alienanti. La possibilità di esplorare un genere nuovo in cui cimentarsi è sempre positiva, anche perché offre una declinazione diversa a seconda del contesto a cui si applica: seppure la struttura e gli stilemi siano fondamentalmente quelli di stampo anglosassone, la forma che può prendere in Italia è diversa, arricchita di temi e modi di pensare che ci appartengono, e quindi comunque originale. Importando la stand-up e rendendola in un certo senso nostra abbiamo la possibilità di aggiungere altro materiale alla comicità: le trasmissioni coi personaggi travestiti in modo buffo e quelle cinque/dieci parole da ripetere urlando all’infinito forse non si estingueranno mai, ma è bene sapere che se hai voglia di ridere guardando una persona che si esibisce su un palco con un microfono, senza per forza aspettarti sia seguita da un balletto di una quindicina di ragazze mezze nude, puoi farlo.