Dave Chappelle, nel suo speciale Netflix da 20 milioni di dollari L’era del caos, parla della transizione di Caitlyn Jenner. “Mi manca Bruce,” dice, riferendosi al nome della star dei reality quando ancora era uomo. Ha appena fatto una battuta sui “froci delle prigioni”, si è chiesto “come cazzo sia possibile che le persone trans abbiano battuto i negri nelle olimpiadi della discriminazione” e ora racconta di una collega transgender che quando arrivava in ufficio “sbatteva il suo vecchio cazzo sulla scrivania”. Il pubblico in sala ride, la comunità LGBTQ+ invece no. Anzi, qualcuno si è offeso molto e diversi critici hanno definito le battute di Chappelle omofobe e transfobiche, arrivando a chiedere a Netflix di cancellare lo show dal palinsesto.
“E fattela una risata!” è quello che si sente ripetere costantemente chi si offende per una frase che invece sembra far ridere tutti gli altri. Un comico sa benissimo che è impossibile che ogni persona che lo ascolta rida per ogni singola battuta. La commedia non può funzionare sempre, perché si basa su un equilibrio di tensioni che non sempre riesce. Una battuta non è la classica storia divisa in tre atti, ma è fatta da due parti: un elemento di tensione “artificiale”, aggiunto dal comico come se fosse un conservante per aumentarne la durata, e il suo scioglimento tramite quella che in inglese si chiama punchline, il metaforico pugno finale. Questo l’ho imparato da Hannah Gadsby e dal suo show di stand-up comedy prodotto da Netflix, Nanette, che in un solo pomeriggio mi ha fatto ridere un sacco di volte e piangere altrettante.
Io sono una femminista permalosa, di quelle che si offendono facilmente. Spesso mi sono chiesta dove finisse il mio carattere, poco accondiscendente per natura, e dove subentrasse invece la secolare suscettibilità del movimento al quale sento di appartenere. “E fattela una risata!” è, in effetti, la frase che mi sono sentita dire più spesso quando una battuta misogina proprio non è riuscita a strapparmi neanche mezzo sorriso. Poi ho visto Nanette, e ho capito che non è un problema mio o del femminismo se non rido a una battuta di merda, ma di chi fa commedia. Ho capito che fare una boutade saltando la parte della tensione e arrivando dritto alla punchline non funziona. Se la battuta sulla donna trans che “sbatte il suo vecchio cazzo sulla scrivania” di Dave Chappelle fosse stato il climax di un racconto sulla difficoltà delle donne trans nel mondo del lavoro, probabilmente avrebbero tutti riso di gusto. E invece le persone trans sono state ancora una volta prese in giro da uomo etero, come già accade normalmente senza che l’uomo in questione sia un comico professionista pagato fior di dollari. La battuta non funziona perché inverte l’ordine delle cose, prima il pugno e poi la tensione.
Hannah Gadsby in Nanette fa qualcosa di profondamente diverso da quello che ha sempre fatto la commedia, ovvero prendere di mira un gruppo sociale, anche il proprio, e scherzarci sopra. Ci spiega che cos’è la commedia e, soprattutto, cos’è la stand-up comedy fatta da una lesbica non binaria in un settore largamente dominato da maschi etero che ultimamente ha dovuto fare i conti con figure problematiche come Bill Cosby o Louis C.K. Gadsby. In un perfetto equilibrio tra tensione e pugni in faccia, nell’ora e dieci di monologo girato alla Sydney Opera House, Gadsby non racconta soltanto la sua storia personale di donna omosessuale in un contesto conservatore come quello dell’isola della Tasmania di cui è originaria, ma riesce anche a far valere la sua storia nella narrazione dominante. Non solo come “storia fra le tante”, quella di una donna lesbica in un mondo a lei ostile, ma come storia universale, che mette in dubbio la legittimità della narrazione dominante stessa.
Quando Jean-François Lyotard parlò di narrazione dominante come la storia della battaglia collettiva dell’umanità per la libertà, sottolineò come questa narrazione avesse la funzione di narrare e “scusare” l’autorità. Questa narrazione è stata scritta da e per gli uomini, che si sono così costruiti un mondo a loro immagine e somiglianza, il mondo dei miti dove gli eroi sono sempre maschi. La critica femminista ha spesso individuato nel modo in cui vengono raccontate le donne un’opposizione alla narrazione dominante, una forma di resistenza a questo sistema escludente. Questo ha avuto però il limite di relegare i prodotti culturali femminili a una sommossa circoscritta all’orticello delle donne, lo scaffale rosa della Feltrinelli. Ad Hannah Gadsby non interessa sovvertire l’ordine costituito: il suo non è un rifiuto della narrazione dominante, ma un tentativo di trasformarla in una piattaforma dove tutte le storie trovino legittimazione.
Di narrazioni femministe e queer fortunatamente ne abbiamo tante. Sono storie di riscatto e rivalsa, di affermazione e di ricerca del sé. Queste storie ormai sono accettate dai più, riconosciute e raccontate anche nel circuito mainstream.
Hannah Gadsby non aveva bisogno di raccontare la sua storia, perché l’ha già fatto. Sull’essere una lesbica butch e non convenzionale in una Bible belt australiana – un’area con alta concentrazione di cristiani – ci ha fatto una lunga carriera: dopo aver vinto la gara Raw Comedy per la più famosa radio del continente e il talent So You Think You’re Funny? del Fringe Festival di Edimburgo nel 2006, è entrata a far parte delle voci più significative della stand-up comedy australiana e inglese. È diventata una presenza fissa del Melbourne Comedy Festival, dove si è fatta notare per il suo brillante humour autoironico, e ha partecipato a diversi programmi della televisione nazionale. Si è imposta anche negli Stati Uniti dopo essere apparsa nella serie Tv di Josh Thomas a tema LGBTQ+ Please Like Me, interpretando Hannah, una sorta di alter ego di se stessa.
Gadsby riconosce di aver costruito in passato un personaggio divertente e godibilissimo, in grado di scherzare sulla sua omosessualità e il suo aspetto. Un personaggio, appunto, che si è cristallizzato in storie, come quella del coming out, che non ha potuto raccontare per intero, di cui ha dovuto omettere i particolari più dolorosi per incastrarle in uno show di stand up comedy. Basare la narrazione femminista e queer sull’auto-denigrazione significa abbassarla a un livello più accessibile: tutti, a prescindere dal nostro genere e orientamento, abbiamo storie di fallimenti e sfighe più o meno divertenti da raccontare e in cui gli altri si possono immedesimare. Queste storie hanno il potere di avvicinarci e di metterci tutti sullo stesso piano al di là delle differenze, ma hanno anche il limite di raccontarci come vittime e non come protagonisti, come oggetti passivi e non come soggetti attivi. Gadsby lo dice bene all’inizio del suo spettacolo: “Ho costruito una carriera sull’umorismo auto-denigratorio, e non voglio farlo più […] Perché capite cosa significa l’auto-denigrazione quando viene da qualcuno che è già ai margini? Non è umiltà, è umiliazione.”
Nanette è incredibile perché non è distruttivo né auto-distruttivo. Tira una riga definitiva sopra la narrazione queer e femminista che vuole ancora le minoranze impegnate a ritagliarsi un angolino nella narrazione dominante perpetrando lo stereotipo di vittime, per quanto autoironiche e divertenti. Nella vita di Gadsby non tutte le tensioni si sono sciolte con una punchline. Alcune sono rimaste irrisolte ed è come se con Nanette l’artista cercasse di sgarbugliarle una dopo l’altra. Lo si capisce anche dalla struttura del monologo: la prima parte è puramente comica, tradizionale, quello che ci aspetteremmo dalla stand-up comedy, tensione-pugno, tensione-pugno, tensione-pugno. Senza sosta. Nella seconda parte, prende tutto quello che ha detto in precedenza e lo rigira, evidenziandone le contraddizioni. Gadsby si appropria, finalmente, non di un posticino nella narrazione dominante, ma della sua personale narrazione.
Non è azzardato dire che c’è stata una commedia “pre-Nanette” e che ci sarà una commedia “post-Nanette”. Nel suo essere meta-teatrale, il monologo di Hannah Gadsby (per cui l’autrice rigetta l’etichetta di stand-up comedy) ha creato una linea di demarcazione con la quale tutti i comici dovranno fare i conti. Non si tratta solo dell’opportunità di fare battute omofobe o trans fobiche, si tratta piuttosto del modo in cui raccontiamo le storie e le persone che le abitano. È difficile capire a chi si rivolga Nanette. Più volte mentre lo guardavo mi sono chiesta se una persona che è completamente estranea alle dinamiche femministe e LGBTQ+ possa apprezzarlo.
Sono convinta che “Nanette” sia, innanzitutto, un manuale di istruzioni per femministe e persone queer su come si legittimano le proprie storie. Ma quello che sorprende è che Gadsby, senza cadere nella trappola che appiattisce le storie etero e gay come tutte uguali, riesce a rivolgersi anche al tanto bistrattato “maschio bianco ed etero” con efficacia. Non tanto per dirgli cosa c’è di sbagliato in lui, ma cosa c’è di sbagliato nel modo in cui le femministe e le persone queer si lasciano trattare da lui. L’autrice riesce a metterlo in mezzo senza lanciare strali d’accusa e, così facendo, viene ascoltata. “Questo riguarda il modo in cui portiamo avanti il dibattito sui temi sensibili,” dice a un certo punto Hannah Gadbsy. “È tossico, è infantile, è distruttivo. Pensiamo sia più importante avere ragione che richiamarci all’umanità delle persone con cui non siamo d’accordo”. È un discorso universale, che tocca tutti indistintamente nel profondo. Chi ha visto Nanette ha detto di aver impiegato giorni prima di capirlo davvero e di sentirsi cambiato. Quindi, chiunque voi siate, smettetela di fare quello che state facendo e correte a guardare Nanette. E fatevela una risata.