Nel 1976, mentre in Italia infuriano gli anni di piombo, lo sport internazionale rappresenta uno dei principali terreni di scontro della guerra fredda. L’Unione Sovietica mostra la propria superiorità nelle tante discipline in cui vanta una lunga tradizione d’eccellenza. Il talento senza precedenti che lascia tutti a bocca aperta durante le competizioni di ginnastica artistica alle Olimpiadi di Montreal, però, non è sovietico: arriva dalla Romania. Si chiama Nadia Comӑneci, e non ha ancora quindici anni. La vita della ginnasta, il cui nome ancora oggi oltre alla gloria sportiva evoca un’esistenza travagliata, da quel momento però non sarà più la stessa, perché diventerà una pedina nelle mani del regime.
Scoperta a sei anni dagli allenatori Béla e Marta Károlyi, Comӑneci entra nella loro scuola di ginnastica, nota – come molte palestre di questa disciplina – per gli allenamenti spietati. Non sempre è chiaro il punto in cui la realtà sconfina nella leggenda, ma diverse ex allieve dei Károlyi hanno raccontato di metodi brutali, cibo razionato, violenze e punizioni fisiche e psicologiche. La luce ancora accesa nella camerata a tarda sera, una volta, comportò ad esempio una corsa in pigiama sotto la neve, e questa non era neanche la cosa peggiore che poteva capitare. In cambio, però, c’era la vittoria. Oggi, infatti, la stessa Comӑneci riconosce che quegli allenamenti le fornirono a tutti gli effetti il metodo per raggiungere il successo.
Da piccola era felice di fare ginnastica perché le permetteva di fare in palestra cose che non poteva fare a casa. Ma il suo talento, unito alla disciplina, le fece ben presto ottenere riconoscimenti importanti, prima in patria e poi nel mondo, allontanandola sempre di più dalla gioia e dal divertimento che le procurava quella disciplina. Ai campionati rumeni nel 1969 arrivò tredicesima, per poi scalare in pochissimo tempo le classifiche, prima nei campionati nazionali a squadre, e poi, nel 1975, ai campionati europei di Skien, in Norvegia. Nel marzo del 1976 partecipò all’edizione inaugurale dell’American Cup a New York, e qui, sia nelle fasi preliminari che nel round finale al volteggio, un’esecuzione perfetta le fece ottenere un punteggio da 10, a cui ne seguirono altri due nel corso dello stesso anno, in Giappone, nel volteggio e alle parallele asimmetriche. Il mondo si accorse di lei.
È così che a 14 anni, con i suoi 155 cm di altezza per 40 chili di peso, in un body bianco a maniche lunghe, Nadia Comӑneci arrivò alle Olimpiadi di Montreal, in Canada. Il 18 luglio, con la routine obbligatoria alle parallele asimmetriche – a cui diede un tocco personale conferendo alla sequenza una maggiore ampiezza di ogni gesto – fu la prima ginnasta a ricevere il massimo punteggio ottenibile alle Olimpiadi, con un’esibizione che divenne immortale. Sul tabellone, che non era predisposto per segnare quattro cifre (tra intere e decimali), perché si pensava che nessuno potesse totalizzare quel punteggio, apparve un “1,00”. E dopo un attimo di confusione, fu chiaro ci si trovasse davanti al leggendario “10 perfetto”. Il suo non era il primo 10 in assoluto: la prima atleta ad averlo ottenuto era stata, al volteggio e al corpo libero, la sovietica Nelli Kim, esponente della grande scuola russa. Ma non era mai successo in un’Olimpiade. Per di più, nel corso di quell’edizione, Comӑneci ripeté la performance per altre sei volte, vincendo complessivamente tre medaglie d’oro (concorso generale individuale, trave e parallele asimmetriche), una d’argento (concorso generale a squadre) e una di bronzo (corpo libero). Con quelle performance Comӑneci resta inoltre la più giovane atleta di sempre ad aver vinto un titolo olimpico, perché il limite minimo d’età nella ginnastica venne poi fissato a 16 anni.
Non è raro che la gloria a cui arrivano queste atlete nasconda soprusi e controllo maniacale, senza alcun rispetto o pietà, ma anche violenze psicologiche e sessuali. Ne è un esempio il rapporto di dipendenza e terrore verso il coach di cui è stata vittima la sovietica Olga Korbut negli anni Settanta, o le testimonianze della ginnasta statunitense Simone Biles e delle colleghe sugli abusi subiti dal medico sportivo Larry Nassar, che ricordano che quelle dinamiche sono ancora attuali, come dimostrano le recenti denunce per maltrattamenti e umiliazioni delle atlete italiane di ginnastica ritmica. E non solo nella ginnastica: nell’agosto 2020, dopo sette mesi di indagini, il mondo del pattinaggio su ghiaccio francese ha affrontato un’inchiesta che coinvolge 21 persone, tra allenatori ed ex, di cui ben 12 accusate di abusi fisici e verbali e in qualche caso di stupro ai danni di giovanissime pattinatrici; i fatti risalgono a 20-30 anni fa e li ha raccontati solo di recente l’ex campionessa Sara Abitbol, dando il coraggio a tante ex colleghe di uscire allo scoperto. Stiamo quindi parlando di un problema sistemico, occultato in maniera omertosa a diversi livelli. Qualcosa di non poi così lontano a quanto accadeva durante la guerra fredda, nelle grandi potenze che usavano gli sportivi come potenti strumenti di propaganda.
All’epoca, inoltre, si faceva un uso sistematico di questi mezzi, compresi farmaci per posticipare la pubertà (come, forse, successo anche a Comӑneci) e – come in Germania Est – un vero e proprio doping di Stato a base di steroidi anabolizzanti androgeni. Queste pratiche, probabilmente ancora sfruttate da certi regimi, rientravano in un sistema degenerato che creava grandi stelle, ma anche storie drammatiche come quella di Yelena Mukhina, investita suo malgrado della responsabilità di competere proprio con la fortissima Romania alle Olimpiadi di Mosca del 1980. Mukhina fu costretta ad allenarsi con una frattura non saldata alla caviglia e a provare, contro la sua volontà, il “salto Thomas”, un esercizio molto rischioso, poi vietato nella ginnastica femminile, ed eseguito non a caso per l’ultima volta nel 1992 dall’atleta cinese He Xuemei, a quindici anni. Mukhina, a due settimane dalle Olimpiadi, cercando di eseguirlo si spezzò il collo, restando tetraplegica: una tragedia che il governo si affrettò a insabbiare. “La vita umana ha poco valore davanti al prestigio di una nazione: ce lo insegnano fin da piccoli”, dirà la stessa Mukhina. Spinta dalla propaganda più o meno esplicita e dalla pressione dei governi, questa disciplina, di cui un tempo venivano giudicate grazia e leggerezza, divenne così uno sport estremo, dalle difficoltà tecniche sempre più elevate, che ne accrebbero esponenzialmente il rischio di infortuni.
Della Romania, da cui veniva Comӑneci, all’epoca si sapeva ben poco: era un Paese isolato ai confini d’Europa, dove il regime di Nicolae Ceaușescu seguiva un comunismo nazionalista, autarchico e autoritario, fondato sull’industrializzazione forzata. Uno degli obiettivi principali era l’aumento demografico, con l’obbligo per le famiglie di avere almeno cinque figli e il divieto di abortire. L’epiteto del presidente, conducător – dalla stessa radice latina di “duce” – rivelava la sua vicinanza al fascismo. Per far fronte al debito, Ceauşescu faceva esportare tutto ciò che veniva prodotto in patria, mentre la popolazione si barcamenava tra razionamenti di cibo e corrente elettrica. Rispetto agli altri regimi comunisti, improntati a un rigido burocratismo e al prestigio accademico, quello romeno aveva aspetti grotteschi che sfociavano in condizioni di vita inumane, mentre il dittatore viveva nel lusso sfrenato del suo spaventoso palazzo e sua moglie, senza alcun titolo di studio, era insignita di allori scientifici. In questo contesto, il regime approfitta subito della nuova campionessa, ed è così che il talento di Comӑneci viene immediatamente sfruttato a fini propagandistici. Il dittatore la invita a palazzo, le conferisce onori, arrivando a renderla l’amante di suo figlio Nicu, alcolizzato e violento, da cui riuscirà a staccarsi solo a vent’anni. Oggi, l’atleta ricorda di essere stata consapevole della propria bravura, ma di non essersi mai resa conto della sua portata, né delle sue conseguenze politiche.
La pressione agonistica inizia a farsi sentire davvero alle Olimpiadi del 1980. L’atleta è consapevole di dover dimostrare a tutti i costi di essere la migliore, ma alle parallele asimmetriche fa un errore e cade. In quell’edizione vince comunque due ori e due argenti. Sa che quelle saranno le sue ultime Olimpiadi, e forse non le dispiace nemmeno troppo: è quasi una liberazione. Vorrebbe dedicarsi ad altro, forse studiare medicina, ma intanto trascorrono anni difficili, in cui la sua carriera prosegue, mentre è costretta a vivere in solitudine nel palazzo ricevuto in dono dai Ceauşescu, lontana da tutti. Arriva a tentare il suicidio bevendo candeggina, ma viene salvata e il regime riesce a evitare lo scandalo. Spiata dagli agenti segreti, può uscire solo a bordo di un’auto di Stato. La situazione peggiora ulteriormente quando, nel 1981, durante un viaggio negli Stati Uniti per un evento sportivo, i Károlyi decidono di non rientrare in Romania; da allora, a Nadia non viene più concesso di viaggiare all’estero. Davanti a una pressione intollerabile, si ritira definitivamente dalla ginnastica nel 1984.
Ha 27 anni quando, una notte, fugge a piedi, abbandonando Bucarest: cammina per sei ore verso il confine ungherese, e da lì raggiunge Vienna in auto con Constantin Panait, un amico che poi diventerà il suo manager. È un viaggio che vuole fare da anni, ma non ha mai trovato nessuno disposto ad aiutarla. Chiede asilo politico all’ambasciata degli Stati Uniti e, ottenutolo, parte. Oggi Comӑneci sostiene che la notte in cui lasciò Bucarest sia stata la prima volta nella vita in cui non ha avuto paura. Si ambienta così negli Stati Uniti, dove Panait si rivela un carceriere, fino a che non trova il sostegno dell’atleta americano Bart Conner, che la reintroduce nell’ambiente della ginnastica e con cui anni dopo si sposerà. Siamo nel 1989 e di lì a poco il mondo in cui è cresciuta verrà sconvolto per sempre. Il muro di Berlino è già caduto quando, in dicembre, a Timişoara esplodono le proteste contro il regime rumeno, e da lì si diffondono in tutto il Paese. La notte di Natale Ceauşescu viene processato sommariamente e giustiziato, mentre il figlio Nicu finisce in carcere, dove morirà a 45 anni.
Nadia Comӑneci lavora ancora oggi con il marito all’accademia di ginnastica che hanno fondato e torna spesso in Romania, dove è impegnata socialmente. Il suo passato atletico è diventato un pezzo di storia sportiva, fatta di gloria, sì, ma anche di propaganda politica giocata sulla pelle di tanti giovani, per non dire bambini, talentuosi, che ancora oggi vengono usati come pedine di giochi di potere spietati, sacrificando la loro infanzia per un presunto bene comune della nazione.