Parlare di “mostri” equivale a evocare esseri genericamente spaventosi e disumani. I mostri non appartengono a una specie vivente definita: per tradizione sono l’incarnazione di un male morale ed estetico che oggi può servire da spauracchio per i bambini o da espediente retorico per descrivere criminali particolarmente crudeli. I mostri sono figure strumentali ai nostri ammonimenti contro il male – e non stupisce che l’etimologia latina della parola “monstrum” abbia origine proprio dal verbo “monere”, ammonire. Il confine netto che abbiamo posto tra loro e noi, tra l’umano e il mostruoso, ci permette di tirare un sospiro di sollievo, sicuri del fatto che finchè ci manteniamo “umani” e partecipiamo ai riti sociali secondo i codici tacitamente condivisi, siamo salvi. Capita però che nel periodo di maggior benessere e spensieratezza apparente che l’Italia abbia mai vissuto, il tempo del boom economico degli anni Sessanta, in cui sembrava ormai chiaro che il progresso e l’arricchimento sarebbero stati inarrestabili e alla portata di tutti, qualcuno abbia avuto l’acutezza di capire e dichiarare, che non solo i mostri erano in mezzo a noi, ma in molti casi eravamo proprio noi.
È il 1963 quando ne La ricotta, il cortometraggio di Pier Paolo Pasolini contenuto nel film antologico Ro.Go.Pa.G, l’autore fa dire a Orson Welles che l’uomo medio è “un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. Lo stesso anno, Dino Risi – padre della commedia all’italiana e regista che meglio di tutti ha saputo raccontare e prevedere le storture che sarebbero seguite all’arricchimento improvviso e alla rivoluzione di costume – gira un film che decide di intitolare proprio I mostri. Si tratta di una pellicola composta da venti episodi a sé stanti, tutti di durata diversa – alcuni brevissimi sketch, altri più lunghi e articolati nella trama – volti a raccontare i molti vizi e le poche virtù dell’italiano medio, le sue piccole meschinità e le sue grandi debolezze. I protagonisti indiscussi sono Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi che, insieme o alternati, interpretano di volta in volta padri che educano i figli all’egoismo e alla sopraffazione, mariti gelosi o disattenti, furbi affaristi o vittime ingenue, dando prova ancora una volta della loro capacità di vestire i panni di personaggi che, se pure nell’essenza sono sempre uguali, ogni volta si caricano di sfumature particolari e credibili, anche quando molto caricaturali.
I personaggi interpretati dai due sono al contempo “nessuno di definito” e “qualcuno di riconoscibile”. Dino Risi e gli altri sceneggiatori si propongono infatti di raccontare al pubblico che i “mostri” non sono tipi umani che possono essere ingabbiati in una precisa categoria socio-economica o professionale. I mostri sono i politici, i piccolo borghesi, gli ecclesiastici, i mostri sono tutti: la loro unica caratteristica comune è il modo in cui incarnano l’italianità stereotipata, una certa tendenza latente ad aggirare i divieti e le norme, a trarre beneficio dalle disgrazie degli altri, a ottenere prestigio e lustro sociale a scapito dei più deboli, anteponendo gli interessi privati a quelli pubblici. “Bisogna farsi furbi”, intima il padre impersonato da Tognazzi che educa il figlio alla furbizia e alla prepotenza nel primo episodio del film, intitolato ironicamente “L’educazione sentimentale”. Il sermone che è costretto a subire il figlio Paoletto è espressione di un nuovo modo di stare al passo con i tempi che vede nell’egoismo e nella diffidenza valori imprescindibili per la scalata sociale e la sopravvivenza quotidiana. Da questi mostri in bianco e nero emergono i tempi che hanno dato loro origine. Risuonano le canzoni estive di Edoardo Vianello nelle spiagge del divertimento e della mondanità, compare la televisione presentata come il nuovo oppio del popolo, in grado di ipnotizzare e assuefare, e sfrecciano le prime utilitarie con a bordo i primi automobilisti, che affermano fra i nuovi ricchi.
Il linguaggio scelto da Risi si serve del grottesco e del caricaturale, ma non cede totalmente al cinismo moraleggiante. Così come ne Il sorpasso, anche nei Mostri la maestria del regista sta nel raccontare gli italiani in tutta la loro furba decadenza. Eppure il suo giudizio non ha il sapore della condanna definitiva e senza appello, né tantomeno quello dell’assoluzione ammiccante a cui invece ci hanno abituati le commedie italiane dagli anni Ottanta in poi. Risi presenta un mosaico di varianti umane da cui lo spettatore, se trae una risata, non lo fa a discapito dei personaggi, deridendoli per presunta superiorità; non ride nemmeno insieme a loro come con Christian De Sica e Massimo Boldi, pavoneggiando un certo compiacimento nell’aderire a quella sfacciataggine e furberia meschina; lo spettatore si diverte, sì, ma ridendo con amarezza. La forza del regista milanese, ciò che ha reso le sue opere dei classici, è quella sua capacità di rendere onore all’etimologia della parola monstrum: Risi mostra, i suoi film sono moniti. Non impone una morale, né condanna spietatamente l’immorale, racconta perché se ne prenda coscienza e se ne abbia memoria, e lo fa in fondo con tenerezza, perché il grande caricaturista è quello che sa mantenere un equilibrio tra il disprezzo e la commozione per i suoi soggetti. Per fare buone caricature serve ironia, e l’ironia non è solo cinismo disincanto, ma anche intelligenza critica e malinconia. Basti guardare la scena finale dell’ultimo episodio del film, “La nobile arte”, dove un pugile in disgrazia, rimasto invalido dopo uno scontro con il campione in carica e regredito a uno stato quasi infantile, seduto in spiaggia sulla sedia a rotelle, segue con lo sguardo un aquilone mosso nel cielo sulle note di una melodia funebre, mentre sul mare tramonta il sole. La scena struggente sembra un presagio dei tempi bui che sarebbero seguiti ai fasti illusori degli anni Sessanta.
Nel 1977, infatti, dopo quattordici anni dall’uscita de I mostri, Risi tornerà al cinema insieme a Mario Monicelli e a Ettore Scola con I nuovi mostri, versione del mosaico di vizi italici aggiornata agli anni di piombo. “Differenze con I mostri del ’63? Quelli erano più buoni e più romantici, oggi sono più feroci e più drammatici. D’altra parte basta guardare la cronaca quotidiana fatta di terrorismo, violenza e soprusi,” risponde Risi in un’intervista sul nuovo film, che venne scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar nel 1978. Ne I nuovi mostri gli episodi sono 14, quattro dei quali non passeranno il vaglio della censura. I registi, che realizzano la pellicola per devolverne gli incassi a Ugo Guerra, un loro amico sceneggiatore gravemente malato, non firmano gli episodi. Si saprà solo successivamente chi è l’autore di ogni episodio. Scola ne firma la metà. Tra gli attori, questa volta, oltre a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, spiccano Alberto Sordi, Eros Pagni, Ornella Muti e Orietta Berti. I personaggi sono come dicevamo una versione storicamente aggiornata dei faccendieri del boom. Siamo alla fine degli anni Settanta, un periodo di violenti scontri politici, attacchi terroristici e cupezza diffusa: sono molti i riferimenti ai fatti di cronaca dell’epoca.
Nell’episodio “Autostop” Ornella Muti interpreta una giovane autostoppista molestata da un uomo che la carica in macchina per un passaggio, a cui per liberarsi fa credere di essere una terrorista evasa dal carcere. Il riferimento è all’evasione di Maria Pia Vianale e Franca Maria Salerno dei Nuclei Armati Proletari. In “Hostaria!”, l’episodio in cui Gassman e Tognazzi interpretano rispettivamente il cameriere e il cuoco di un umile osteria, si nomina invece Indro Montanelli, da poco gambizzato dalle BR. L’episodio, uno fra i più interessanti, vede un gruppo di altolocati clienti gustare la “zuppa alla porcara” della locanda, che altro non è che il frutto della zuffa furiosa del cameriere e del cuoco che in cucina si lanciano tutto ciò che capita loro a tiro e che finirà nel piatto dei borghesi in cerca di autenticità nel semplice cibo della tradizione romana. A chiudere la scena, un barboncino a capotavola, forse simbolicamente assurto a simbolo della frivolezza dei ricchi, troppo presi da sé per rendersi conto di ciò che accade a pochi passi dal loro naso.
In “Pronto soccorso”, un episodio che vede come protagonista Alberto Sordi nei panni del ridicolo aristocratico Giovan Maria Catalan Belmonte, si accenna poi allo scisma di Marcel Lefebvre, arcivescovo sospeso da Papa Paolo VI. Mentre il nobile bauscia cerca di arrivare in tempo a bordo della sua Rolls Royce alla riunione per discutere dello scisma che interessa l’alta gerarchia della Chiesa, si imbatte in un uomo, vittima di un pirata della strada. Il pellegrinaggio tra gli ospedali della capitale, dove il nobile si scontra con l’inefficienza della sanità pubblica – che non frequenta, abituato a rivolgersi a cliniche private – è l’occasione per offrire agli spettatori dieci minuti di esilarante monologo di Sordi nelle vesti di questo personaggio che è ormai tanto lontano dal Paese reale quanto più ne incarna i peggiori vizi: decadenza morale, vanità, ostentazione della ricchezza e totale disinteresse per la sofferenza altrui.
I “nuovi mostri” sono insomma quelli di sempre. I loro atteggiamenti sono mostruosi non perché costituiscano una deviazione della norma, ma piuttosto perché la incarnano a pieno, facendo della mediocrità, del qualunquismo e dell’arrivismo la legge che detta usi e costumi, adattandosi ai tempi e per questo risultando sempre attuale. Ma i mostri e i nuovi mostri sono sempre stati in mezzo a noi e in molti casi siamo noi. Questi film allora ci possono ancora ricordare l’importanza di mantenere l’attenzione viva sui nostri vizi, sui nostri tic e sulle nostre debolezze: magari ridendone, sì, ma sempre amaramente, con consapevolezza. Non fa bene né giustificarli con indulgenza né giudicarli con una presunta superiorità, è necessario vederli e saperli riconoscere, averne coscienza, in modo da cercare ogni giorno di essere un po’ meno mostri e un po’ più umani, sapendo che l’umano conterrà sempre un ché di mostruoso, e ciò che importa è tenerlo a bada.