La nostra società ci vuole produttivi, non innamorati. Come mostra Modern Love.

Ho visto l’intera Modern Love, serie nata dall’acclamata rubrica del New York Times, passata per un podcast e infine arrivata su Amazon Prime Video. Con quell’amore giustapposto più che accompagnato all’aggettivo, sembrava fatta apposta per soddisfare la domanda di qualcosa di nuovo, attuale e interessante su uno degli argomenti più controversi, dibattuti, ma anche triti e ritriti dell’intero universo: le relazioni. La durata di 30 minuti per episodio avallava il binge watching; la regia, l’adattamento e la produzione sono affidati per buona parte a John Carney, una specie di lasciapassare sulla fiducia: Carney è il regista di Once, pellicola irlandese girata con una telecamera a mano, vincitrice di un Oscar per la migliore canzone e che, insieme a Lost in Translation, ha fatto da apripista al racconto del sentimento amoroso tra due sconosciuti che sembra realizzarsi ma non si concretizza mai. Il binomio musica come collante sociale più storia d’amore possibile ma non portata a compimento era stato ripreso anche nel meno fortunato – nonostante il cast hollywoodiano composto da Keira Knightley, Mark Ruffalo e Adam Levine – Tutto può cambiare. Modern Love sembrava tentare una nuova strada.

La nuova strada è sempre lastricata di buone intenzioni: Modern Love si propone come una sorta di prontuario ai tempi che cambiano e, dunque, cambiano anche le nostre relazioni, il modo in cui ci raccontiamo e rapportiamo agli altri, concetti come l’amicizia, la fedeltà, la paternità, la maternità, la famiglia, perché cambiamo noi – riflessi allo specchio dei social network – e cambia anche il mondo che resta fuori. Bisogna essere pronti al peggio e, insieme, ottimisti. Darsi da fare per raggiungere una qualche stabilità, ma anche non dare l’impressione di pensarci troppo. E, anche se va tutto malissimo, se l’amore non funziona, bisogna tenere da parte l’esperienza e il cinismo accumulati e restare pronti a buttar via tutto come immondizia, sorridendo, una mattina come le altre. In Modern Love, ora partirebbe una canzone o la sigla, poi il titolo, lungo e didascalico: “Quando una serie tv vuole convincerti che andrà tutto bene, anzi, benissimo”. Ma a differenza di Un posto al sole, in cui da vent’anni qualsiasi guaio, ammazzamento, intrigo e via dicendo è appianato dopo un tot di puntate in forza dell’essere ambientato a Posillipo, Modern Love è esente da guai – al massimo ci sono infortuni, malattie in qualche modo curabili, ma persino la morte arriva quando non risulta del tutto inattesa – quasi fosse l’Upper West Side di New York e la sua ricchezza, anche e soprattutto immobiliare, a fare da balsamo, , al punto che lo stesso New York Times, nella recensione della serie, scrive che la serie, quando funziona, è l’equivalente televisivo di un cappuccino instagrammabile e che – in alcuni casi –, rapportando le situazioni professionali dei protagonisti al contesto in cui vivono, si hanno scenari più fantasiosi di qualsiasi cosa mai mostrata in Game of Thrones in un contesto “porno-immobiliare”.

Abbiamo così la giovane donna che vive in un meraviglioso palazzo grazie ad un lascito dei genitori, alle prese con appuntamenti che non lasciano molto e il suo comprimario angelo custode, Guzmin, portiere dello stabile, personaggio più adatto a Il cielo sopra Berlino che a un quartiere bene di New York, al punto da lasciar credere che i due finiranno insieme oppure lui è uno psicopatico. Poi c’è la giornalista che, in virtù del grande amore che le ha dato buca vent’anni prima – e parliamo di Andy Garcia – prima lascia il marito, poi fa da tempestivo cupido per un genietto delle app scordando, a fin di bene e senza averne una querela, la deontologia. La lezione non è, semplicemente, “fintanto che puoi, segui il tuo cuore”, ma che le coppie (sono almeno sei quelle menzionate) possono formarsi e sformarsi con una facilità impressionante e senza che nessuno si preoccupi in maniera evidente della ripercussione economica della cosa: si può dismettere qualsiasi rapporto, lasciare chiunque anche se ci hai messo su casa, ricominciare sempre, prima di tutto da solo. Il terzo episodio, protagonista Anne Hathaway sola sulla scena per buona parte del tempo, affronta l’argomento più ostico: il disturbo bipolare di personalità. La malattia incide sulla sfera sentimentale e professionale, ma lei è una brillante avvocata, è giovane, è bella, ha visto La La Land al punto di replicarlo con l’immaginazione nei momenti buoni. Certo, le malattie non fanno distinzione di classe o di portafoglio, ma il racconto televisivo della storia – in quasi tutti i casi ben diverso dalla versione testuale sia nel tone of voice, che nell’evoluzione e nel finale – sembra fatto apposta per presentare il disturbo bipolare in versione ridotta e abbellita, sommerso da particolari scenici lussuosissimi al punto che, ad attirare l’attenzione, è il cappotto rosa con pelliccia indossato dalla protagonista. I restanti episodi seguono questa linea senza scossoni fino all’ultimo, l’ottavo, che racconta l’amore da anziani, quando giurarsi fedeltà fino alla morte sembra non rappresentare chissà quale impegno. Nella chiusa, la puntata convoglia tutte le altre, tributando il giusto merito a New York che, nonostante tutto, per ogni strada, incrocio, angolo, ha una storia di brave persone alla ricerca di se stesse.

I frame narrativi sono quelli di Sex and the city, ma senza Carrie Bradshaw e la sua voce narrante dotata d’ironia e sarcasmo, e, soprattutto, Love Actually di cui Modern Love replica, per certi versi, il titolo e la struttura concatenata, ma senza lo humor inglese necessario per evitare di risultare stucchevole. Ma forse lo zucchero narrativo in abbondanza è necessario per una serie che parte da un assunto piuttosto amaro: se un tempo amore, amicizia e famiglia corrispondevano a costrutti sociali riconosciuti, ora questi ruoli non sono più così ovvi, per ognuno di loro è prevista una scelta da fare prima di tutto in solitudine, in nome e in virtù del precetto di salvezza più noto del mondo occidentale: cavarsela da soli, soprattutto se aiutati da un lauto conto in banca. Ne Il canto di Penelope, Margaret Atwood fa dire alla protagonista: “Credevo nelle soluzioni felici, che si ottengono tenendo chiuse le porte”. In Modern Love, l’approccio è simile, le porte dei meravigliosi appartamenti sono chiuse alla povertà, all’ignoranza, alla bruttura, al punto che anche quando si lascia entrare una homeless, lo si fa momentaneamente e perché si otterrà qualcosa in cambio. Nulla di male, giacché siamo pur sempre nella versione più aggiornata di una rom-com e nessuno si aspettava un documentario, ma se lo show è ispirato a storie vere, bisogna ammettere che viene meno l’onestà intellettuale nel riportarle su schermo. L’oggetto della trattazione infatti, più si va avanti con gli episodi, più diventa un altro e cioè la sostenibilità finanziaria di qualsiasi rapporto mettiamo in conto di avere, persino quello con noi stessi. Le storie raccontate e che conservano il titolo originale con cui sono comparse sul New York Times, sono sì incentrate sull’incontro, al momento giusto, con uno sconosciuto che regala la certezza che il sentimento amoroso non sia del tutto vano. Ma nessuna di queste storie potrebbe farcela senza il benessere economico necessario a sostenerne le attese. Che si espliciti in convivenze, divorzi, terapie, progenie e via dicendo, l’amore deve arrivare inatteso eppure trovare tutto pronto. È il premio (di consolazione, in alcuni casi) per chi ha compiuto lo sforzo di regolare i conti, guardarsi allo specchio, sistemarsi, dare un colpo di riavvio al passato per permettere al disco del presente di tornare a suonare, poi, semmai, viene l’apertura al prossimo e con il prossimo. Più che generare coppie, famiglie, unioni, legami, l’amore moderno serve, dunque, a convalidare come un biglietto, far scattare come un cilindro in una serratura, una nuova consapevolezza di sé, una nuova autostima, fatto privatissimo.

C’è, in questo, una rielaborazione del Se io ti amo, che cosa c’entri tu di Goethe, con la sottilissima differenza che qui, almeno in partenza, nessuno ama nessuno eppure c’entrano tutti, perché tutti, da esseri umani, conoscono solitudine, sofferenze e difficoltà nel superarle. Da rappresentanti di una società che ci vuole sempre e comunque dotati di una certa cultura progressista, senza che qualcuno se lo aspetti o ce lo chieda, dobbiamo dunque fare la nostra parte per far sì che si continui a credere, ad amare o, almeno, a pensare di farlo.

“Lei faccia ciò che deve fare, non cambierà niente per me o per chiunque altro le voglia veramente bene. Io sono qui con un ombrello.”

“Hai detto che mi vuoi bene?”

“Ho detto che sta per piovere. Qualunque cosa lei decida di fare, avrà bisogno delle sue forze e non di un raffreddore.”

Questo scambio di battute dall’episodio 8 è l’unica cosa cosa che mi è rimasta dell’intera prima stagione della serie (è già prevista la seconda). Non è la sola che ricordo, ma quella che mi sembra racchiudere un minimo di sincerità sull’intero approccio metodologico adottato: serviamo interi, in salute per quanto possibile, capaci di intendere, di volere, di prendere decisioni economicamente foraggiate sulla nostra vita, perché, qualunque cosa scegliamo di fare, dovremmo avere ben chiaro che si tratterà soprattutto di farcela da soli. Una morale piuttosto triste, a ben guardare: tendiamo tutti verso un certo sentimentalismo sui rapporti umani perché intrisi di una certa cultura a riguardo, ma a nessuno tocca davvero l’obbligo di avere cura di un altro senza pretendere qualcosa in cambio o sporcandosi le mani sul serio. L’unica possibilità sta nella comparsa della “gentilezza degli sconosciuti”, come diceva Blanche Dubois in Un tram che si chiama desiderio, opera di Tennessee Williams datata 1947. Speriamo che, come per i protagonisti di Modern Love, anche nel nostro caso sia ben riposta.

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