Nel saggio del filosofo ungherese György Lukács Teoria del romanzo, un testo fondamentale per la critica letteraria del Novecento, l’autore descrive il momento di frattura nella storia tra epica e modernità. Nell’epoca classica, l’eroe epico era colui che, come Ulisse, incarnava in modo totale la collettività di cui faceva parte; non si trattava di un individuo ma di un simbolo della totalità, dell’identificazione tra società e uomo, una concezione della realtà completa e uniforme, a differenza di quella moderna in cui l’eroe è distaccato, autonomo. Ogni popolo ha la sua epica, il suo mito di fondazione, il suo eroe, il racconto simbolico di ciò che serve per auto-rappresentarsi e quindi definirsi: gli Stati Uniti, che di certo paragonati agli antichi Greci e ai Romani dell’Eneide sono una civiltà decisamente giovane, hanno raccontato le gesta dei loro eroi, per esempio, con il cinema western. Sembra un paragone azzardato quello tra John Wayne e Achille, e per certi versi in effetti lo è, ma se intendiamo l’epica come racconto di un eroe che rappresenta il proprio popolo, le carovane, i cowboy, la lotta con gli indiani, altro non è che un mito di fondazione. L’America continua a essere la civiltà centro dell’Occidente, la cultura egemone della modernità, e non smette di produrre eroi, racconti, simboli e icone, storie che affascinano e plasmano il modo di pensare anche di chi vive nelle province dell’Impero, come noi. I cercatori d’oro non si sono estinti, si sono solo trasformati in yuppie, CEO e capitalisti rampanti; i pellerossa non lanciano frecce ai visi pallidi, ma le battaglie continuano, vere o metaforiche che siano. In questo senso, lo sport, è diventato il luogo in cui si riproducono in modo controllato e regolamentato le dinamiche della guerra, e così come ogni guerra ha un eroe, l’epica americana ne ha trovato uno che incarna tutte le caratteristiche della civiltà a cui appartiene: Michael Jordan, il giocatore di basket più famoso di sempre, è esattamente questo, un eroe epico, e la Nike è la sua spada.
Nelle settimane di lockdown c’è stato chi per sopperire alla chiusura delle palestre si è improvvisato allenatore di se stesso, tentazione alla quale ho ceduto subito anche io pur di non abbandonarmi all’idea di impazzire chiusa in casa. La soluzione più sensata era quella di scaricare un’app per fare esercizi, e come me immagino molti si sono trovati davanti a una miriade di possibilità. Senza neanche pensarci troppo, l’unica che ho scaricato è stata l’app della Nike; non avevo avuto particolari raccomandazioni, né sembrava avere nulla di eccezionale rispetto alle sue simili, eppure nella mia testa – la testa di una persona che si crede immune al marketing, povera illusa – quella sagoma del baffo e del JUST DO IT è sinonimo di qualità, di allenamento fatto bene, di sudore e muscoli, fatica e soddisfazione. Niente di tutto ciò è reale, dal momento che non sono un paio di scarpe o una maglietta tecnica a determinare il successo dei tuoi allenamenti, o almeno, lo sono solo in modo molto parziale.
Il desiderio di acquistare un paio di sneakers Nike, quel senso di appagamento estetico e qualitativo che un semplice brand di vestiti riesce a conferire ai suoi prodotti, è il risultato della campagna di marketing più incredibile di sempre, e ha come protagonista un uomo che incarna alla perfezione tutte le caratteristiche che nei nostri occhi da sportivi non professionisti servono per fare una vera e propria magia. Ma questo si tratta di un gioco di prestigio, una suggestione che funziona alla grande e che diventa ancora più affascinante se si pensa che la Nike è quello che è perché a un certo punto della sua storia, quando era ancora un brand minore, a metà degli anni Ottanta, ha incontrato Michael Jordan. O meglio, ha incontrato e ingaggiato un ragazzo di ventun’anni che sarebbe diventato di lì a poco il cocktail perfetto di tutto ciò che un americano – e di conseguenza un occidentale in pieno tardo capitalismo – punta a mescolare, ossia successo, determinazione, fatica, ambizione, individualismo e intransigenza ai limiti della cattiveria.
Durante la quarantena, però, non abbiamo solo trasformato le terrazze di casa in corsie da velocisti e i salotti in sale pesi, non si vive di soli squat. Piattaforme di streaming come Netflix hanno ovviamente fatto affari d’oro, grazie anche al sapiente rilascio di alcuni dei nuovi titoli più allettanti del catalogo. The Last Dance, il documentario mitopoietico sull’eroe d’America degli anni Novanta, è stato uno di questi e, come previsto, la sua uscita anticipata dovuta all’emergenza sanitaria ha solo dato l’ultimo colpo di grazia a un prodotto audiovisivo che era già destinato a diventare un cult. Guardare dieci ore totali sulla formazione del miracolo sportivo, e quindi epico, degli Stati Uniti dei Chicago Bulls, la squadra di basket che ha cambiato per sempre la storia di questo sport e con sé anche la storia del suo Paese, ha unito persino chi come me della pallacanestro americana non conosce quasi nulla.
Il ricordo più vivido che ho di MJ e di ciò che comportava la sua esistenza nel dibattito mediatico anni Novanta è il suo ruolo in un film, Space Jam, che, sempre parlando di cult, generò non poche conseguenze nell’immaginario collettivo di chiunque fosse bambino o ragazzino in quegli anni fortunati per il consolidamento della predominanza culturale americana. Anche nella provincia più remota d’Italia, chiunque può dire di aver avuto almeno un compagnetto di classe che veniva alle feste con la felpa dei Chicago Bulls, chiunque può dire di sapere cosa sia un paio di Air Jordan, anche solo per sentito dire e chiunque, indipendentemente dalla sua passione per lo sport, sa chi è Michael Jordan. La sua presenza nel mondo del basket nel decennio in cui la squadra del toro rosso ha battuto ogni record, così come nella squadra definita “dream team” che non a caso che vinse l’oro alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992, equivale alla nascita di un’idea di personalizzazione dello sport e di conseguenza degli abiti che indossa, senza la quale non esisterebbero né il marketing né l’idea di brand come li intendiamo oggi. Potremmo dire “sono solo un paio di sneakers”, o “è solo un giocatore di basket”, certo; un paio di sneakers e un giocatore di basket capace di creare quello che si definisce il “Jordan Effect”, un impatto talmente forte sul mercato da cambiare l’economia di un Paese. Con la partnership nata tra Michael Jordan e la Nike negli anni Ottanta e consolidata a pieno e in modo universale nei Novanta, il giocatore di basket paragonato per popolarità persino a Gesù Cristo diventa non solo il rappresentante di un paio di scarpe ma esportatore per eccellenza di americanità, simbolo della mentalità Made in USA che propaga ogni sua emanazione attraverso un prodotto, qualcosa che, una volta acquistata, ti rende speciale perché parte di un’idea più grande. In altre parole, propaganda.
Il documentario racconta tutta la storia dei Chicago Bulls capitanati da Jordan, da quando era un rookie negli anni Ottanta, appena uscito dal college in North Carolina, fino alla sua breve interruzione con il basket dopo la morte del padre e il tentativo con il baseball, passando per il suo problema di dipendenza col gioco d’azzardo – raccontato in modo abbastanza vago. Essendo un prodotto voluto e pensato da MJ stesso, ovviamente, non è di certo un documento giornalistico senza momenti di parte, pensati apposta per vendere di nuovo il marchio del campione, il brand Jordan, nonostante siano incluse anche alcune sottotrame più problematiche che lo riguardano. Ma al di là della storia interessante di una squadra unica e probabilmente irripetibile, di tutte le dinamiche complesse che riguardano il dietro le quinte di uno sport, dal ruolo dell’allenatore alle pressioni di un vero e proprio franchising, da The Last Dance emergono le ragioni per cui questo personaggio non può essere considerato solo uno dei tantissimi atleti che nel corso degli anni sono diventati celebri in tutto il mondo. MJ è infatti un vero e proprio tassello che si è aggiunto al modo che abbiamo di concepire un marchio, la sua allure, quel senso inspiegabile di attrazione ci spinge a scaricare un’app piuttosto che un’altra, il motore che muove una buona parte dell’economia odierna fatta di brand e sponsorizzazioni. Come sintetizza bene l’autore Roy Johnson, “Prima di MJ le sneakers servivano solo per giocare a basket. All’improvviso, erano diventate moda e cultura”, un modo di esprimere identità – ma anche conformità, omologazione – che passa attraverso la manifestazione esplicita di appartenenza a un gruppo, in questo caso quello della cultura urban anni Novanta, modellato sull’estetica del rap che fioriva sempre di più, sui film di Spike Lee, sul simbolo del Jumpman diventato ormai un pezzo di storia.
Non era usuale che un giocatore di basket diventasse testimonial e icona di un marchio sportivo, dal momento che questo tipo di personalizzazione del brand avveniva più con i tennisti, atleti che giocano in solitario, nomi e cognomi più che componenti di un team. Con Michael Jordan, la Nike del dirigente di marketing Sonny Vaccaro, l’uomo che ebbe l’intuito di puntare tutto sul campione del North Carolina appena entrato nel circuito del NBA, trasformò l’idea stessa di scarpa sportiva, tramutandola da oggetto funzionale allo svolgimento di una disciplina a simbolo di ribellione, potenza, determinazione. MJ, che inizialmente era titubante sul suo passaggio alla Nike – preferiva i marchi classici del basket come Adidas o Converse – indossò un modello pensato apposta per lui, ciò che viene definito signature shoes, e che subito passarono alla storia per una ragione molto semplice: erano proibite. Le Air Jordan, chiamate così per il soprannome di MJ, erano infatti scarpe che si “ribellavano” agli standard imposti dalla NBA per quanto riguardava i colori, dal momento che contenevano molto più rosso e nero – i colori dei Bulls – di quanto fosse consentito. E cosa c’è di più affascinante dal punto di vista del marketing di un oggetto che si oppone alle regole, avvolgendo delle semplici scarpe con un’aura di sovversione? Questo inizio fortunato, aggiunto alla carriera in inesorabile ascesa di MJ hanno fatto sì che quelle semplici sneakers si siano convertite nel simbolo per eccellenza di un modo di fare sport, e quindi di vivere.
Quando ci vestiamo stiamo dichiarando qualcosa, a prescindere da quanto ne siamo consapevoli, o da quanto ci interessi la moda; anche disinteressarsi alla moda è, di fatto, uno statement, come piace definirlo oggi. E indossare una maglietta con il simbolo di una squadra, delle scarpe con il logo di un campione senza tempo, spietato e invincibile, è un gigantesco, enorme statement, dal momento che non c’è niente di più chiaro del nome di un team, dei suoi colori, una dichiarazione d’intenti e di personalità immediati. “Be like Mike” – una celebre pubblicità della Gatorade che divenne un vero e proprio modo di pensare – gli spot della Nike, tutto ciò che ruotava attorno a questo eroe in un momento di grande splendore degli Stati Uniti, gli anni Novanta, erano di fatto la quintessenza di una dichiarazione culturale, tanto da portare MJ a compiere un gesto piuttosto forte come coprire il marchio della Reebok – sponsor della nazionale di basket a Barcellona nel 1992 – con la bandiera dell’America. MJ è l’eroe – o meglio, la mascotte – dell’America post-Bush senior, l’America di Bill Clinton che “esporta civiltà” e conquista tutti con lo splendore dell’immagine, il fascino del successo, di un personaggio che incarna tutte le caratteristiche che ti fanno pensare “voglio essere come lui”, appunto, Be Like Mike, vesti americano, gioca americano, pensa americano. Il marchio e l’uomo, nel caso della Nike e di MJ, erano diventati una cosa sola; non più un’azienda e uno sponsor, ma un’identificazione totale tra la forma e il contenuto del messaggio di un eroe del capitalismo e della sua nuova bandiera, che non era fatta a stelle e strisce ma a forma di baffo. Finisce l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti dominano il mondo esattamente come Jordan domina l’avversario, schiacciandolo e imponendosi con una violenza affascinante, seducente; se nella Seconda Guerra Mondiale i marines distribuivano cioccolato ai bambini delle città liberate dal nazifascismo, negli anni Novanta l’America distribuisce sneakers dal design perfetto – ma a caro prezzo, ovviamente.
Per capire bene di cosa si compone questa mentalità prevaricante e spietata che caratterizza il gioco di Jordan e fa da metafora per lo spirito americano, è interessante citare un esempio che lo riguarda. Quando gli venne chiesto di supportare un politico di colore del Partito Democratico, Harvey Gannt, Jordan rispose con una frase celebre, “Anche i Repubblicani comprano le sneakers”. Niente di più americano di una risposta simile, una terra che ha fatto del profitto il suo unico vero credo, a prescindere da etica o gusti personali. Michael Jordan è diventato l’eroe epico degli Stati Uniti dal momento in cui ha firmato quel contratto con la Nike, portandola a livelli mai visti prima per un’azienda simile; tutt’oggi, basta l’uscita di un documentario come The Last Dance per fare salire i prezzi e per fare riaccendere la scintilla del “Be like Mike”, tanto da spingere qualcuno a comprare un paio di Air Jordan all’asta per più di mezzo milione di dollari. MJ è di fatto la cosa più simile alla personificazione di tutti i valori che hanno spinto l’America a essere ciò che è oggi, tra un individualismo sfrenato – elemento alla base del capitalismo – e una determinazione militare e ostinata che lo ha reso una persona detestabile, cosa di cui lui è pienamente consapevole, ma allo stesso tempo invincibile, e tutto “solo” grazie a uno sport e a delle scarpe. Una competizione senza freni, alimentata spesso anche dalla stampa stessa, che aizzava l’eroe contro il prossimo nemico da dominare e spazzare via; una dinamica che coinvolgeva persino i suoi compagni di squadra, sui quali applicava una strategia simile, sempre volta al predominio, al conflitto, all’espressione concreta della mania statunitense per il controllo e l’invasione, nel nome di un titolo durante un torneo di basket, e nel nome della civiltà e del progresso durante una guerra. Oggi la cultura dell’hype che gira intorno alle sneakers probabilmente non sarebbe esistita senza l’epopea di questo giocatore, e la cultura dell’hype è la stessa su cui si regge l’egemonia estetica e ideologica degli Stati Uniti: esportiamo un’idea, la imponiamo al mondo, ma la vestiamo con gli abiti più sexy che abbiamo, e come fai a dire di no? Ci si può fermare e chiedersi “Perché voglio proprio quel paio di scarpe?” e darsi un milione di risposte, tutte probabilmente valide, ma nessuna di questa capace di negare la potenza narrativa e persuasiva di quello che è stato un vero e proprio mito moderno, perché è davvero difficile trovare una risposta più esaustiva del “Be like Mike”.