Capita spesso di imbattersi in qualche articolo pseudoscientifico che legittima il nostro disordine con spiegazioni fin troppo clementi, del tipo: “Se sei disordinato è perché sei più intelligente”. Da persona molto poco avvezza all’ordine, mi sento onestamente di poter rispondere a qualsiasi congettura sulla tendenza a circondarsi di quintali di inutile roba ammucchiata come sinonimo di grande creatività con un certo scetticismo. Si diventa disordinati per molti motivi, ma di certo non per dare spazio al proprio genio folle: mancanza di tempo, mancanza di voglia, banale pigrizia, fino a veri e propri disturbi patologici. Detto ciò, mi sembra piuttosto scontato che il disordine non piaccia a nessuno se non a chi ci vive dentro, ed è frequente che questo generi anche una forma di senso di colpa e imbarazzo da parte di chi lo pratica regolarmente. Marie Kondo, la scrittrice giapponese che ultimamente fa molto parlare di sé grazie alla serie che Netflix le ha dedicato, Facciamo ordine con Marie Kondo, ha trovato il modo di cavalcare questa scia di mortificazione e frustrazione che una casa incasinata genera nei suoi proprietari fino a convertirla in una vera e propria rivoluzione esistenziale. Non è un mistero dunque che i suoi libri abbiano venduto milioni di copie in tutto il mondo, anche in Italia, dal momento che si presentano come la soluzione a portata di mano di un problema che ci si trascina dall’infanzia, quando si veniva rimproverati per non aver rimesso i giochi nella cesta. Ma come tutti i manuali di self-help che ci spiegano con un unico metodo universale come sistemare la nostra vita in dieci semplici mosse, anche il metodo KonMari, come viene chiamato, non è altro che un modo simpatico e apparentemente efficace di nascondere la polvere sotto al tappeto.
Come una sorta di Mary Poppins nipponica, questa donna in miniatura che non rinuncia mai a deliziosi cardigan di cachemire entra nelle case dei Banks di turno per aggiungere quel poco di zucchero affinché la pillola vada giù e l’energia domestica ricominci a circolare nel verso giusto. La prima cosa che si nota in questa serie è la fascinazione pregna di stupore che le famiglie occidentali manifestano di fronte al primo vero momento di konmarizzazione del focolare, ovvero il saluto alla casa. Marie infatti, accompagnata da una fedele traduttrice che la aiuta durante i passi più spinosi del suo bel parlare, come primo approccio dice grazie alla magione, nonostante il macello in cui si è trasformata. I proprietari, estremamente prostrati di fronte all’ingresso in casa di questa divinità dell’ordine, dopo i convenevoli iniziali, si ritrovano a dover prendere parte a una scena in sé ridicola ma che assume significato se interpretata nell’ottica del “In Giappone si fa così”. Perché di base, l’elemento che più genera interesse e stupore a chiunque si presti a questo restyling casalingo e mentale è proprio l’atmosfera rigorosa e minimalista che ci si aspetta da una campionessa di ordine giapponese. La fascinazione per l’Oriente passa attraverso molte cose, ma l’idea che il Giappone sia un immenso giardino di ciliegi dove si cammina solo in punta di piedi e si beve tè verde è forse l’immagine più diffusa – e ovviamente stereotipata – che si sia creata in Occidente. Complici i vari Muji, l’aspetto così sensato e coordinato del sushi, o qualsiasi altro prodotto culturale che ci ha spinti verso la rappresentazione di questo luogo comune che, di fatto, trova la sua incarnazione perfetta proprio in Marie Kondo, che mischia spiritualità esotica, senso di disciplina da Dojo Karate e un po’ di quella allegria da “arigatò” detto con le dita a V.
Tanto forte è dunque l’immedesimazione in questa aura da tempio giapponese dove crescono bonsai che non si accenna nemmeno un secondo di esitazione di fronte alle bizzarrie di una sconosciuta che parla con la casa in cui si trova. Ma del resto nel KonMari non c’è spazio per scetticismi o derisioni, visto che la colonna portante di questo metodo è proprio l’idea che gli oggetti che teniamo in casa ci infondano o meno gioia, e da ciò ne scaturisce il loro diritto alla permanenza in questa stessa. “Does it spark joy?” è infatti la frase più gettonata durante tutta la serie, e anche in questo caso, non c’è nessun segno di esitazione da parte delle vittime designate del piano Kondo quando si viene chiesto loro se una maglietta o un calzino genera questo senso di felicità vibrante che decreta il vero valore di una cosa. In caso in cui questa sorta di luccicanza non si presentasse, i proprietari allora dovranno congedarsi da quel paio di mutande con l’elastico distrutto ringraziandole per il loro operato e con gentilezza riporle nel bidone degli oggetti che non emanano gioia. Lo stesso trattamento lo si riserva ai libri, che dopo essere stati risvegliati da un pizzico di energia dovranno passare dal patibolo della gioia e dell’utilità: pensi che lo leggerai? No? Allora buttalo. A cosa servono del resto le librerie se non a rimanere vuote? Ma soprattutto, a cosa servono i libri se non a riempire uno spazio, sia mai che possederne qualcuno in più possa mai tornare utile nella vita. Con gli oggetti che rimangono, invece, Marie Kondo ne fa una composizione ordinata e sensata, illustrando come si piegano veramente bene magliette e pantaloni, come si infilano le decorazioni natalizie nelle scatole e come si mettono in ordine le spezie della cucina. In pratica, il metodo Marie Kondo potrebbe essere riassunto in tre semplici mosse: piega le magliette e i pantaloni e riponili in verticale, butta tutti i vestiti che non usi e infila le altre cose in scatole trasparenti così si vedono bene. Incredibile che siano serviti libri e serie tv per spiegare questi tre concetti, ma tant’è.
E così, tra gente che accumula quintali di vestiti sui letti per passarli alla cernita severa della gioia – mentre Marie Kondo sparisce e ritorna solo settimane dopo per assicurarsi che la casa stia prendendo la forma sperata – e scatoloni pieni di ricordi che riemergono dalla discarica comunale che si è creata in garage, ha luogo la magia rinnovatrice dell’arte del buttare via. Ma il ritratto di queste famiglie che si prestano al gioco, ahimè, sembra molto più complesso di una cassettiera in disordine, e durante tutti gli episodi ti viene da domandarti come possano essere così miopi da pensare che basti un manuale di how to per riordinare la casa per fare fronte a problemi davvero enormi. La prima famiglia, ad esempio, i Friend, celano nel loro casino una situazione esistenziale angosciante: il marito scoppia a ridere improvvisamente senza motivo, con un fare alla Tom Cruise da Oprah, e spiega candidamente che lavora dalle cinquanta alle sessanta ore a settimana, e che la sua famiglia alla fine vede solo il peggio di lui, qualunque cosa voglia dire questa affermazione. La madre, una giovane donna sopraffatta dal menage familiare, non riesce a raccapezzarsi in questa vita di pappe e pannolini, e ha rinunciato al suo lavoro per badare a una casa che non riesce nemmeno a tenere in ordine. E così entrambi parlano di frustrazione, impotenza, infelicità, sempre tenendosi la mano e chiamandosi “babe”, ma tradendo in ogni gesto il vero stato delle cose, ovvero lo squilibrio folle di un presente in cui una donna per essere madre e continuare a vivere la sua carriera deve essere ricca, mentre l’uomo deve ridursi ad apparire in casa come un ectoplasma che ogni tanto torna a salutare, magari anche incazzato e violento.
La stessa atmosfera la si percepisce poi con la famiglia che si definisce “I fantastici quattro”, in cui tutto il carico delle faccende domestiche è affidato alla madre, mentre il padre ammette con un sorriso di non saper cucinare niente ma di saper ordinare bene il cibo da asporto. Anche qua disordine e disorganizzazione sembrano il frutto di una mancata cooperazione tra gli elementi della famiglia che preferiscono delegare tutto a una sola figura, in questo caso la madre, fregandosene delle conseguenze. E viene quindi da chiedersi se piuttosto che insegnare a queste persone come si piegano le magliette, per quanto utile, non sarebbe il caso di educarle alla parità dei ruoli in una famiglia, alla libertà esistenziale di una madre che non per forza deve sottostare completamente al compito di angelo del focolare se questa figura non le si addice. Ma oltre alla questione dei ruoli e delle responsabilità all’interno delle famiglie, c’è anche un altro aspetto che Marie Kondo non sembra tenere in conto. Si ringraziano gli oggetti per il loro operato, come se tutto fosse stato utile e necessario da comprare, ma non si apre bocca sul perché la gente – tutti noi occidentali compresi – senta il bisogno impellente di acquistare in continuazione senza averne nemmeno il reale bisogno. In un episodio, una signora di origini giapponesi che ha accumulato sul letto una pila alta circa due metri di vestiti, spiega che quando litiga col marito va a comprare cose per rilassarsi, e vanta il diritto al silenzio di una coppia in cui si preferisce distendere la tensione con una nuova maglietta piuttosto che con un dialogo. Nessuno chiede mai perché si siano accumulate tante cose, semplicemente se ne prende atto e si buttano via quelle che non servono più, dando per scontato che siano sempre e comunque servite a qualcosa. Non ci si interroga sulla tracotanza consumistica che ci fa credere di avere sempre bisogno di un oggetto in più, tanto poi ce ne libereremo quando passerà la fatina della gioia.
Dal lancio della serie si è notato un incremento nelle donazioni per i negozi di cose di seconda mano, e di questo quanto meno non possiamo che essere felici. Ma allo stesso tempo, quand’è che ci libereremo di questa falsa esigenza di possessione, accumulo e spreco se ci consoliamo col fatto che tanto potremo dare via tutto “ai poveri”? Piuttosto che chiedere a una scarpa se ci trasmette gioia, dovremmo chiederci nel momento in cui la stiamo comprando se ci trasmette senso, se è davvero una cosa di cui abbiamo bisogno o se stiamo pigramente accontentando ogni nostro impulso all’acquisto solo per noia o frustrazione. Piuttosto che farci ipnotizzare dall’orientalismo in formato Netflix di Marie Kondo, che grazie alle nostre pile di vestiti accumula pile di dollari, dovremmo imparare a contenere quella vena consumistica che ci ha portato nel 2019 ad avere molta più spazzatura che cose da utilizzare. Tra l’essere un monaco tibetano e un accumulatore compulsivo si può trovare una via di mezzo. Ma prima ancora di dire ciao a una teiera, riavviciniamoci al valore delle cose e di chi le produce e opponiamoci a chi ci vuole fare credere che siano già vecchie, che magari emana più gioia un maglione di lana rattoppato che dieci di acrilico nuovi.