
Si dice che di fronte alla morte siamo soli, e probabilmente è vero, perché siamo soli anche di fronte alla vita. Si potrebbe prendere la solitudine come una semplice caratteristica e non come una tragedia, dovremmo sforzarci di venire a patti con l’impossibilità di condividere la nostra esperienza in quanto singoli individui, per forza di cose unici (anche se non particolarmente speciali), anche perché ci potremmo godere meglio quei rari lampi di apertura in cui l’esperienza stessa smentisce questo dato di fatto, dandoci la possibilità di sperimentare un improvviso contatto con gli altri, l’abbattimento dei confini che ci definiscono nell’incontro, cosa che di solito definiamo “amore” o in alcuni casi “arte”. Ciononostante la morte resta all’apice dell’incondivisibilità, in quanto fenomeno che non si può nemmeno tentare di raccontare se non dall’esterno. A esso segue la nascita, i due grandi misteri dell’universo, che ancora una volta ci appare formato da una continua alternanza di coppie d’opposti.
L’unicità dell’esperienza è uno dei punti alla base dell’etica e della morale e per forza di cose della discussione bioetica e giuridica sull’eutanasia, tema affrontato nel 2004 da Mare dentro, film diretto da Alejandro Amenabár (già autore di Apri gli occhi, da cui è stato fatto il remake Vanilla Sky e di The Others), che mette in scena la storia vera di Ramón Sampedro, interpretato da uno Javier Bardem invecchiato di vent’anni – ruolo che gli valse la coppa Volpi al Festival di Cannes. Sampedro, dopo un tuffo sfortunato dagli scogli, invece di annegare viene salvato e si risveglia in ospedale ormai tetraplegico. Dopo ventisei anni passati a letto, circondato dall’affetto silenzioso del padre e della famiglia del fratello maggiore, ascoltando musica, guardando fuori dalla finestra e componendo faticosamente poesie grazie a una bacchetta tenuta tra le labbra (il titolo è tratto da una di queste) decide di intraprendere una battaglia legale per ottenere il diritto al suicidio assistito e avere una morte dignitosa, alla luce del sole. Così arriva Julia, avvocata che gli propone di assisterlo gratuitamente, perché anche a lei si scopre essere stata diagnosticata due anni prima una grave sindrome degenerativa che porta a reiterati infarti cerebrali, che non le permette di immaginare alcun tipo di futuro positivo – mancanza di prospettiva che inevitabilmente finisce per intaccare anche la serenità del suo presente.

Siamo soli perché siamo. Dal momento stesso in cui iniziamo a esistere ci separiamo e la nostra esperienza diventa unica. Eppure, come capacità adattativa tendiamo a immedesimarci negli altri – che poi vuol dire riempire gli altri di noi stessi – è questo il grande equivoco dell’empatia, pensare di essersi calati nei panni di qualcuno, quando semplicemente ci stiamo esercitando a vivere una situazione che non ci appartiene con il nostro corredo esperienziale. Dovrebbe allora risultare impossibile qualsiasi giudizio sulla decisione di porre termine alla propria vita (così come su tante altre). Ma il corpo è un fatto sociale e culturale, ci insegna l’antropologia, e quello sulla disponibilità o indisponibilità della vita è uno dei dibattiti cardini della civiltà occidentale. Le rappresentazioni e le pratiche relative ai corpi sono simboliche e largamente arbitrarie, coerenti con le altre rappresentazioni della società, la religione, le idee sulla natura (che è uno dei concetti più culturali e antropici che ci siano), il sistema delle relazioni sociali e quindi in ultima analisi il sistema del potere. Per questo il corpo è uno dei campi di battaglia preferiti del potere, perché è l’origine di ogni simbolo presente all’interno di una società. Da qui le perenni battaglie sul diritto all’interruzione di gravidanza, sulla transizione di genere e sull’eutanasia.

Mare dentro è un film su questo tema, sì, ma è soprattutto un film sulle varie forme d’amore – inteso come comunanza – che corrono tra gli esseri umani. Fin dall’inizio sembra che a parte il padre, uomo rude e taciturno d’altri tempi, e la cognata, che dopo tanti anni di accudimento ama Ramón come un figlio, tutte le persone che vanno al suo capezzale (in particolare le donne) vogliano convincerlo che la vita è bella e che sempre vale la pena di essere vissuta, ma si capisce ben presto che stanno disperatamente sforzandosi di convincere se stesse. È chiaro fin dall’inizio, infatti, che Ramón disattende le loro aspettative, sfugge all’idea che queste persone si sono fatte di lui e al personaggio in cui cercano di incasellarlo e questo fa sì che si mettano loro in discussione, finendo per rivalutare le proprie coordinate esistenziali. Ramón, infatti, è un uomo profondamente attaccato alla vita, che non si è mai risparmiato, ha vissuto con ardore finché il suo corpo glielo ha permesso e anche nei ventisei anni successivi all’incidente ha continuato a dare e a ricevere in tutti i modi che gli sono stati possibili, andando a scoprire pieghe dell’essere che, sembra suggerire il film, se non fosse stato costretto a letto forse non avrebbe mai scoperto. Per Ramón è chiaro che la sua volontà è personale, sa che forse ci saranno altre persone tetraplegiche che nonostante tutto vogliono continuare a vivere, ma per lui non è così e desidera che il suo diritto a morire sia rispettato, anche da chi istintivamente o filosoficamente sarebbe contrario a questa scelta, e prima di tutto dallo Stato. Da qui emerge la necessità di differenziare la vita biologica dalla vita biografica.
