Sono passati tre anni dall’ultimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, regista che ha vinto un Oscar nel 2014 e che a ridosso del 2022 è di nuovo candidato al prestigioso premio americano con la sua nuova opera, per la prima volta autobiografica, È stata la mano di dio. L’ultima volta che un suo film era passato dalle sale cinematografiche era stata con i due episodi di Loro, una sorta di biografia a libera interpretazione di Silvio Berlusconi e dei suoi anni più noti, quelli di Vallettopoli. Non era la prima volta che Sorrentino usava la storia di un politico italiano per una sua pellicola: già nel 2008, con il Il divo, il regista napoletano aveva dato prova della sua grande sensibilità estetica e capacità di mettere in scena gli elementi essenziali della nostra cultura recente, dipingendoli con il suo tocco personale ormai riconoscibile e coerente.
Non mi piace parlare degli artisti dividendoli in eredi e maestri, penso che non esista un prodotto culturale che non peschi inevitabilmente in qualcosa che c’è già stato prima, interpretandolo in modo diverso; motivo per cui non trovo necessario definire Sorrentino come un ipotetico erede di Fellini. Eppure, se ne Il divo l’atmosfera e il senso finale dell’opera riusciva a trasmettere quel moto felliniano di cinematografia, purtroppo in Loro questa operazione mi è sembrata fallire. Il motivo di questo fallimento – termine che chiaramente definisce in modo iperbolico la riuscita o meno delle opere di uno dei più acclamati registi italiani di sempre – tre anni fa lo avevo attribuito a una ragione precisa: il fatto che Sorrentino, da un certo momento in poi, fosse caduto nella trappola stilistica del manierismo verso sé stesso.
Lasciando da parte il fenomeno de La grande bellezza, e tutte le relative polemiche che ha generato sui suoi meriti e sul suo valore effettivo – critiche spesso fatte più per il piacere di fare becero opinionismo che per altro – i film più recenti di Paolo Sorrentino, per quanto tecnicamente impeccabili e affascinanti, avevano qualcosa di distante dalle sue prime opere. Sia Youth, del 2015, che This Must Be the Place, del 2011, così come i due capitoli di Loro, hanno un velo di incomprensibilità forzata e di eccesso; al contrario de L’amico di famiglia o de L’uomo in più, nelle pellicole più recenti sembrava come se l’intento fosse più quello di riprodurre un cinema appunto sorrentiniano, strizzando l’occhio a simboli e linguaggi consolidati dal regista. Motivo per cui, quando ho visto il trailer di È stata la mano di dio – film che è stato nelle sale cinematografiche a fine novembre per qualche giorno e da oggi è disponibile sulla piattaforma Netflix – ho pensato che il rischio di un’altra “sorrentinata”, per così dire, ossia di un’altra pellicola che finiva col parodizzare gli stilemi dell’autore, fosse molto alto. Splendide panoramiche sul golfo di Napoli, Maradona e lo scudetto, San Gennaro, Pino Daniele: tutti gli elementi che saltano all’occhio a un primo sguardo di È stata la mano di dio sembrano voler suggerire che il film possa essere una perfetta ricostruzione degli stereotipi più cari al regista, gonfi di retorica, facili ammiccamenti. Soprattutto, non ci vuole molto a cadere nel luogo comune e nella faciloneria estetica quando si parla di Napoli e della sua iconografia, già abbondantemente raccontata e iper-rappresentata in qualsiasi forma.
Una cosa che si dice spesso di Paolo Sorrentino è che sia un regista antipatico, schivo, snob; si suppone, con un’analisi superficiale del suo cinema, che alla raffinatezza delle immagini e dei temi corrisponda una sua altezzosità tipica della classe intellettuale. In una sua intervista recente, a proposito del suo ultimo film, il regista ha detto che È stata la mano di dio è un film che serve a spiegare ai suoi figli i suoi silenzi. La storia personale di Paolo Sorrentino la conosciamo più o meno tutti, e anche se non la si conosce, non si tratta di spoilerare il suo film: Sorrentino è rimasto orfano di entrambi i genitori quando aveva diciassette anni. La sua vita, comprensibilmente, da quel momento in poi non è stata più la stessa. Il carattere introverso, solitario, taciturno, che a molti può risultare appunto antipatico, è il frutto di un vissuto che definire unico sarebbe riduttivo. Un regista, uno scrittore, un artista di qualsiasi tipo con una storia personale del genere potrebbe usarla come materia prima per esordire nel mondo della narrazione, di qualsiasi forma si tratti. La cosa che più mi ha colpito di questo film è proprio il fatto che Sorrentino abbia scelto di raccontarla a cinquant’anni, dopo aver scritto e diretto altri nove film e aver vinto premi di altissimo livello, dopo aver consolidato il suo carattere e la sua estetica cinematografica portando tutt’altro che la sua autobiografia in scena, che al massimo è sempre stata accennata con piccoli segni visibili solo a uno sguardo attento – Maradona in Youth, per esempio, in qualche tratto di Jep Gambardella o di Tony Pisapia. Con una storia simile tra le mani, Sorrentino avrebbe potuto fare un esordio incredibile, quasi facile direi, e invece ha scelto di avere la maturità e il distacco necessario per trasformare la sua enorme tragedia in una vera e propria opera d’arte.
È stata la mano di dio, infatti, è un percorso intimo, delicato e al contempo mitologico all’interno dell’adolescenza dell’alter ego del regista napoletano – Fabietto Schisa, interpretato da un giovane attore esordiente di grande talento, Filippo Scotti – e della sua famiglia. Nella scena finale, quando Fabietto conosce il regista Capuano, autore con cui Sorrentino cominciò la sua esperienza cinematografica, il cineasta gli urla delle frasi simboliche, che riassumono il senso del film e non a caso sono presenti anche nel trailer: “Ce l’hai qualcosa da raccontare?”, chiede Capuano urlando al giovane Fabietto sperduto in questa nuova vita con una tragedia enorme che gli pesa sulla schiena ricurva da adolescente. In una conferenza stampa, l’attore feticcio di Sorrentino, Toni Servillo, dice una cosa molto toccante a proposito di questa frase provocatoria con cui Capuano sprona il ragazzo perduto a trovare una strada. Servillo – che nel film interpreta il padre di Sorrentino, un ruolo molto complicato che l’attore non carica di niente se non di una simpatia bonaria e spontanea, familiare – dice di sentirsi fiero di aver visto cosa ha avuto da raccontare il regista negli anni successivi a quell’incontro epifanico. Fuori da ogni retorica pietista e dalla potenziale drammaticità – che pur è presente in mille forme nel film – il senso di questa opera è, nella sua particolarità familiare, proprio quello di dare senso anche alla cosa più atroce che ci possa accadere, come la perdita di entrambi i genitori in un’età molto precoce, attraverso il racconto, il mezzo universale e intramontabile che abbiamo come esseri umani di stare in vita anche dopo la morte.
E dunque, i silenzi di cui parla Sorrentino quando spiega come ha trovato dopo tanti anni la forza di raccontare la sua storia diventano delle immagini che sono al contempo iper-sorrentiniane ma anche rivestite di una nuova luce, come se il regista avesse per la prima volta giocato su un piano di sottrazione invece che di addizione. C’è la magnificenza gloriosa, ci sono i personaggi simbolo, le pause, le figure inspiegabili, oniriche e grottesche, ci sono tutti gli elementi tipici del suo stile, ma sono come alleggeriti dalla smania di comunicare qualcosa, perché è già tutto dentro ai personaggi e alla città di Napoli. Non ci sono rumori né frastuoni, non c’è il caos pantagruelico conviviale partenopeo, anche se c’è il mosaico familiare scherzoso, contraddittorio e folle di ogni famiglia. Tutti i protagonisti di È stata la mano di dio hanno un tratto surreale e pittoresco, tutti hanno qualcosa di caricaturale e di esagerato, ma nessuno va mai oltre il limite dell’eccesso, in un perfetto equilibrio tra la carica teatrale e maestosa delle immagini di Paolo Sorrentino, ormai diventate iconiche nella loro riconoscibilità, e la delicatezza struggente di un racconto che se non lo si vive è quasi impossibile da raccontare.
Eppure, Paolo Sorrentino è riuscito a portarlo sullo schermo in un modo che a mio avviso non si avvicina a nessuno dei suoi film precedenti, con una sapienza e un distacco adulto che mi fa immaginare che finalmente sia riuscito ad avere una visione d’insieme dell’insensatezza e della sofferenza che ha, forse, anche se solo in parte, elaborato. Una sintesi della sua poetica, oltre che della sua estetica, in un dipinto che mette insieme tutto ciò che simbolicamente descrive la sua esistenza ma che diventa anche nostro: così come io non ho mai vissuto il Napoli di Maradona ma la storia di questo calciatore mi commuove e mi entusiasma come se fosse stata mia, allo stesso modo È stata la mano di dio riesce a essere un film per tutti, anche per chi con Sorrentino non ha niente a che fare, o chi dello scudetto del 1987 o di come vive una normale famiglia medio borghese napoletana di fine anni Ottanta al Vomero non sa niente. Se Paolo Sorrentino ha scelto dopo vent’anni di carriera cinematografica di mettere in scena la cosa più difficile e intima che potesse condividere con i suoi figli per spiegare loro i suoi silenzi, ritengo che con È stata la mano di dio ci sia riuscito perfettamente. E non credo esista premio più prestigioso di questo.