Sappiamo bene che la retorica dell’epoca d’oro e dei bei tempi che furono è solo una speculazione sul nulla. Piuttosto che dal reale contesto storico, la propensione soggettiva verso una decade passata direi che deriva da una affinità elettiva con quel periodo: se la mia passione è il rock, non c’è dubbio che immaginarmi adolescente a Liverpool, all’inizio degli anni Sessanta, in uno scantinato, a sentire suonare una nuova band composta da quattro ragazzi con il caschetto mi appaia come una prospettiva molto più allettante di vivere la decade del rap. Ogni decennio ha le sue eccellenze e non credo ci sia nulla di male a mettere da parte tutti i contro e le dovute analisi del caso – sì, negli anni Sessanta in Italia c’erano il grande cinema, la letteratura, il boom economico, ma c’erano anche l’abusivismo edilizio, l’immigrazione e i diritti sociali ancora da conquistare – per provare nostalgia di un’epoca che non si è vissuta. Forse perché a rifugiarsi nel passato si trova il conforto dell’innocenza, come spiegava Marx quando diceva che guardiamo a quella degli antichi Greci come epoca perfetta perché è un po’ come se fosse “l’infanzia” del mondo, il momento più puro e autentico della vita. Io non so dire se gli anni Settanta in California fossero così belli e divertenti come vengono raccontati nell’ultimo film di Paul Thomas Anderson, Licorice pizza, o se è tutto un effetto ottico dovuto alla sua bravura. So solo che se il suo obiettivo era quello di farci provare la mancanza di una cosa che non abbiamo mai vissuto direi che ci sia riuscito alla perfezione.
Partiamo da un presupposto, ossia che Paul Thomas Anderson è uno di quei registi che non si precludono di usare in maniera esplicita una componente autobiografica nei propri film. Nel suo caso, non si parla tanto di episodi o di personaggi che ricordano la sua vita, ma di un luogo, che è Los Angeles, più precisamente San Fernando Valley. Anderson è nato nel cinema, non solo perché la California della seconda metà del Novecento è forse il set per eccellenza del cinema occidentale, ma anche perché, come capita spesso a chi è nato in quelle zone, in famiglia molti lavoravano nel settore (Ernie Anderson, il padre, era per esempio un attore e doppiatore). Questa centralità del luogo si percepisce in quasi tutti i suoi film, dove lo scenario di confine tra lo spettacolo, la magnificenza della performance e l’alienazione malinconica che ne deriva, come un contrappasso per il suo splendore, fanno da protagonisti, come per esempio in Magnolia. La spontaneità dello spettacolo e la sua integrazione con il mondo circostante, che lo accoglie e ne fa bene primario, sono due elementi portanti anche di Licorice pizza, che a differenza di altre pellicole di Anderson prende una direzione molto più ironica che tragica e introspettiva: il mondo del cinema, in questo lungometraggio, è infatti una parodia di sé stesso, una divertente caricatura bozzettistica di situazioni in cui ci si poteva trovare camminando per Los Angeles negli anni Settanta.
Il primo paragone che mi è venuto in mente guardando Licorice pizza è C’era una volta a Hollywood, il film di Quentin Tarantino uscito nell’autunno del 2019. Oltre al fatto che i due registi si conoscono molto bene, trovo una certa complementarietà tra le loro recenti pellicole, non solo da un punto di vista formale, con luci e atmosfere simili, ma anche per una sorta di canone che tracciano entrambi. La nostalgia del passato, in particolare di un passato cinematografico, che traspare da entrambe le opere – in quella di Tarantino addirittura si spinge fino a “migliorare” il passato, riscrivendo la storia di Sharon Tate – non è tanto filtrata da un sentimento di rimpianto e di disfatta del presente, quanto da una sana lente autoironica che distorce tutto lo splendore in una nuova forma comica. Sia in C’era una volta a Hollywood che in Licorice pizza, infatti, i protagonisti incontrano personaggi del cinema hollywoodiano, molti dei quali sono davvero esistiti o ispirati a persone vere, che trasformano la narrazione epica e invincibile del cinema americano classico in tante piccole macchiette, parodie divertenti ed esagerate del carattere tipico statunitense.
È interessante che ciò avvenga attraverso il cinema di due grandi autori recenti, tra i più grandi degli ultimi vent’anni, in un momento in cui l’egemonia culturale americana non ha più la centralità che aveva nel Novecento: è come se, arrivati alla fase discendente dell’impero, gli statunitensi trovassero molto più senso nella scomposizione del loro passato glorioso, rivivendolo attraverso una forma parodistica, ma non per questo sminuendolo, e trovandosi faccia a faccia con ciò che ha rappresentato. Il divo del cinema Western, il genere per eccellenza dell’epica statunitense, in crisi con sé stesso e con la sua rilevanza nel mondo che evolve (Leonardo Di Caprio nel film di Tarantino), e il divo tenebroso, che in sella alla sua motocicletta sfida la giungla, con un piglio alla Hemingway (Sean Penn nel film di Anderson): in entrambi i casi, più che la glorificazione e la celebrazione del grande passato recente del Paese più influente dell’ultimo secolo, è la risata di quel mondo, l’ironia postmoderna, o forse ormai post-postmoderna, del presente, che dà una nuova chiave di lettura a una realtà che tutti abbiamo sognato e che ora, per molti versi, vive una fase decadente.
Oltre alla cornice estetica nostalgica e ironica con cui si presenta Licorice pizza, un altro aspetto centrale di questo film è il cast. La trama è infatti composta da una serie di piccoli capitoli, tutti autoconcludenti, inseriti in una storia più grande, quella tra i due protagonisti, Alana e Gary. Ciascuno degli attori, protagonisti grandi o piccoli che siano, è incastonato alla perfezione in questo mosaico umano che forma un clima familiare per il regista, nel senso che si tratta di quasi tutti suoi reali amici. Alana Haim, che interpreta Alana Kane, la venticinquenne di origini ebraiche che non ha ancora trovato una vera e propria direzione nella vita e che si ritrova invischiata in questa strana relazione con Gary Valentine, attore di quindici anni, interpretato da Cooper Hoffman, sono entrambi due nomi cari ad Anderson. La prima, infatti, è la chitarrista della celebre band di sorelle “le Haim” – per cui Paul Thomas Anderson ha girato alcuni videoclip – che compaiono tutte nel film, recitando in pratica loro stesse: si tratta di un trio che rappresenta forse la quintessenza della coolness indie americana e che, a mio avviso, trova finalmente un senso molto più interessante nel cinema che nella musica. Non che le Haim siano una band scadente e senza personalità, sono tre musiciste molto brave e talentuose che hanno collaborato con nomi importanti della scena musicale statunitense come Julian Casablancas, ma seguendole da tempo ho sempre avuto l’impressione che fossero “sprecate” come semplici musiciste, dato che hanno un impatto visivo molto forte, cosa che salta all’occhio in Licorice pizza. Alana Haim al suo esordio è infatti a dir poco centrata, con un viso che ricorda quello di Barbara Streisand – probabilmente non a caso, dato che l’attrice è presente in modo indiretto nel film – e un piglio da tomboy che la rendono simpatica e sensuale allo stesso tempo.
Cooper Hoffman, invece, è nato nel 2003 ed è il figlio di un attore molto caro al regista, Philip Seymour Hoffman, morto di overdose nel 2014. Hoffman e Anderson avevano lavorato insieme in diversi film e la presenza di suo figlio in questa sua ultima opera, oltre alla ottima interpretazione di un adolescente in cui si vede tutto il mix tra infanzia e ansia di diventare grandi, dà a Licorice pizza anche un prezioso senso di proiezione verso il futuro, oltre che di nostalgia per il passato. Insieme a questi due bravi attori alle loro prime armi, c’è però anche un gran cast di professionisti, da Sean Penn a Bradley Cooper, fino alla moglie di Anderson, l’attrice comica Maya Rudolph. In questa atmosfera da romanzo di formazione, in cui i due protagonisti si inseguono, si respingono e si ritrovano nonostante la loro grande differenza di età, ogni piccolo dettaglio è curato per rendere il dipinto di Los Angeles negli anni Settanta un concentrato di bellezza: dalla colonna sonora ai vestiti che indossa Alana, ogni cosa di Licorice pizza ti fa venire voglia anche solo per un momento di essere lì con loro, in quel passato idealizzato, fiabesco, ma non per questo inesistente o falso. Così come ciascuno di noi porta con sé un dettaglio della propria infanzia, dal sapore di un gelato che non esiste più al suono di un cartone animato in videocassetta, in Licorice pizza questo senso di familiarità è un ricordo antico di Paul Thomas Anderson che diventa collettivo. Senza edulcorare in modo eccessivo il passato, ma esaltandone i lati più belli, questo film è una piccola concessione di due ore che possiamo farci tutti, indugiando senza sensi di colpa nella nostalgia di un’epoca mai vissuta che non si autoassolve ma, al contrario, ride di sé, unico vero antidoto alla nostalgia.