Otto minuti di standing ovation a Venezia non sono pochi. E sono decisamente più rilevanti e significativi se a riceverli è un cinecomic, ovvero un film ispirato a un fumetto. Se poi vince anche il Leone d’Oro allora si è più che legittimati a pensare che una piccola rivoluzione sia in corso. Joker di Todd Phillips è stato presentato e promosso come il film che avrebbe allontanato definitivamente i cinecomic dall’aura buonista, family friendly e ridanciana del monopolio Marvel / Disney per riportarli a una dimensione più autoriale, cruda e realistica – da festival per l’appunto. Posso dire che il risultato è stato raggiunto, ma con l’inganno.
L’inganno è pensare che il vincitore del Festival di Venezia sia un cinecomic: il Joker di Todd Phillips non ha nulla a che fare con il personaggio creato da Bob Kane e apparso sul primo numero di Batman nel 1940, ma è una lucida riflessione sulla malattia psichica in un Paese, gli Stati Uniti, dove non sembra esserci spazio – sociale, economico, intellettuale – per il concetto di malattia. Una riflessione su un uomo che ha “solo pensieri negativi, ogni singolo giorno” in una società che mette “la ricerca della felicità” nella sua Dichiarazione di indipendenza come uno dei diritti inalienabili dell’individuo. Con queste premesse si può apprezzare Joker per quello che realmente è.
Arthur Fleck è un aspirante cabarettista nella Gotham City dei primi anni Ottanta. In città c’è aria di rivolta, con uno sciopero della nettezza urbana che lascia crescere indisturbati topi enormi nelle strade, e persone sono stanche di subire ingiustizie. Tra queste c’è Arthur che, fin dall’inizio del film, viene pestato, derubato, deriso; insomma un loser. Arthur soffre di una non precisata malattia psichica che lo costringe a scoppiare in un’acuta e inquietante risata nei momenti più inopportuni. “Perdona la mia risata, ho una malattia” è scritto su un biglietto da visita che porge per giustificarsi. Arthur vive con una madre bisognosa di cure, che ha lasciato il suo cuore nella casa di Thomas Wayne, magnate di Gotham presso cui prestava servizio, padre del futuro Batman, Bruce Wayne, e neo candidato sindaco della città.
Arthur è uno dei personaggi più “sfigati” che il cinema ci abbia regalato negli ultimi anni: aspirante stand up comedian, vive in una condizione pietosa e gli unici momenti di felicità sembra averli davanti allo schermo della tv, dove il suo eroe Murray – il presentatore di uno show stile Late Night interpretato da Robert De Niro – gli regala preziosi sorrisi, e incrociando lo sguardo di una bistrattata Zazi Beetz, sua vicina di casa. Arthur resiste alle continue angherie, fino a quando qualcosa dentro di lui non si rompe definitivamente: il sistema sanitario non gli fornisce più le medicine ed è così che Arthur smette di indossare la maschera della persona normale e capisce che la sua vera identità è quella folle del Joker.
Joker è la nemesi di Batman. Così come l’uomo pipistrello è il simbolo dell’ordine, della pace e della giustizia, Joker è un agente del caos. Non esiste una vera origin story di Joker – un fumetto che ne racconti le origini –, ma esistono diverse versioni alternative. Quella che si avvicina di più alla vicenda raccontata nel film di Phillips è quella di The Killing Joke di Alan Moore, ma sono veramente poche le similitudini (anche lì il futuro Joker era un aspirante comico) e non si può indicare quel fumetto come fonte di ispirazione per il film. Non ci è dato sapere il motivo per cui il Joker non abbia mai avuto un suo mito fondativo – forse la natura del personaggio, così straniante, estrema e inafferrabile non la richiede –, ma quello che sappiamo è che, dal momento in cui è esistito un Batman, è esistito anche un Joker.
In questo senso, tutte le trasposizioni cinematografiche e televisive di Bruce Wayne hanno avuto un Joker che lo affiancasse. Importante è notare che, mentre Batman è sempre Batman, il Joker ha assunto in ogni trasposizione sembianze e caratteristiche completamente diverse. Durante la famosa serie Batman, trasmessa dal 1966 al 1968, Joker era interpretato da Cesar Romero, ed era più un ladro e un imbroglione che un vero e proprio assassino. Diverso il discorso nell’adattamento del 1989 di Tim Burton, dove il Joker di Jack Nicholson si evolve in un serial killer assoldato dalla mala di Gotham. Il Joker di Nicholson è un amante dell’arte, un eccentrico, che usa la musica di Prince per introdursi a una festa. È un Joker che conserva la sua vena comica e surreale e si inserisce a pieno diritto nella galleria di freaks portati in scena da Tim Burton.
Tralasciando l’interpretazione di Jared Leto in Suicide Squad, veniamo a Heath Ledger. Ledger ne Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan è l’unico ad averlo raccontato per quello che realmente il personaggio dovrebbe essere. Non a caso, ogni volta che il Joker di The Dark Knight cerca di raccontare le sue origini finisce per raccontare una storia diversa. Non a caso l’ultima battuta del personaggio nel film è rivolta a Batman: “Io e te siamo destinati a fare questa cosa per sempre”. Questa cosa è scontrarsi, combattersi, essere le due facce della stessa medaglia malata. Heath Ledger ha saputo cogliere il lato più intimo del personaggio, stabilendo un metro di paragone per le interpretazioni future.
Nell’affrontare questa prova Joaquin Phoenix fa quello che sa fare meglio e che già aveva fatto in altri film. E considerando che Daniel Day Lewis si è ritirato dalle scene, Phoenix è per quanto mi riguarda il miglior attore in circolazione, perfetto per questa interpretazione. Il corpo asciutto e deformato in mille diversi spasmi di Joaquin fornisce a Phillips la raison d’etre di questo film. Anche se eravamo abituati a prove simili – una su tutte per assonanze stilistiche e tematiche è quella in The Master di Paul Thomas Anderson – non si può che rimanere a bocca aperta davanti alle distorsioni di cui è capace il corpo e il volto dell’attore. Ogni singolo primo piano regala un’intensità che commuove, e il continuo passaggio dalle lacrime alle risate è il pretesto per permettere all’attore di esprimersi ai suoi massimi livelli. La scena dell’entrata nello studio televisivo entrerà nelle scene di culto della storia del cinema, così come il balletto lungo le scale di casa. Phoenix regala profondità a un personaggio che, di per sé, è fin troppo scritto, fin troppo giustificato dalla sceneggiatura. Per fare una paragone, il Travis Bickle di Taxi Driver viveva una parabola molto simile a quella di Arthur Fleck. Ma Scorsese – insieme allo sceneggiatore Schrader – non aveva sentito la necessità di giustificare con un passato di abusi o una malattia mentale gli atteggiamenti del suo personaggio. Phillips e Silver – gli sceneggiatori di Joker – caricano invece il loro protagonista con un passato, e un presente, che farebbe impazzire chiunque.
Il riferimento a Scorsese non è casuale. Come non è un caso che Scorsese dovesse figurare come produttore del film – ha poi rinunciato per problemi di tempistiche. In tutto il film si respira l’aria di due grandi film degli anni Settanta del regista italoamericano. Da una parte il più famoso Taxi Driver, dall’altra il meno conosciuto The King of Comedy. Nel secondo un giovane Robert De Niro interpreta un aspirante comico ossessionato da un host di uno show televisivo interpretato da Jerry Lewis. Il Rupert Pupkin di De Niro ricorda in molti tic e atteggiamenti l’Arthur Fleck di Phoenix. Anche in questo film l’incapacità di ottenere le risate del pubblico e la fama sfocia nella violenza. Non credo sia un caso che il Murray di Joker sia interpretato da Robert De Niro. In Taxi Driver, invece, Robert De Niro navigava per le strade di New York a bordo del suo taxi, incanalando odio e disprezzo in una missione omicida. Per Travis uccidere il senatore Palantine rappresentava un atto salvifico, non solo per sé, ma per tutta la società.
Il modo in cui Scorsese raccontava Rupert e Travis era sicuramente meno semplicistico rispetto a quello che fa Phillips con Joker. La malattia mentale veniva mostrata non come un dato di fatto da giustificare con un biglietto, ma come una condizione più complessa, meno scontata, costruita su una quotidianità non iperbolica – senza pagliacci o supereroi – ma fatta di piccoli quotidiani fallimenti. Mancano la delicatezza e l’umanità dello sguardo di Scorsese verso i suoi personaggi. È forse per questo che molti critici statunitensi hanno espresso il loro straniamento dopo aver visto Joker.
Il film negli Stati Uniti è stato accusato di sostenere un certo tipo di violenza legata agli incel – abbreviazione del neologismo Involuntary Celibate che definisce una nuova categoria di persone rimaste involontariamente sole e sconfitte – raccontando senza filtro la storia di un loser che si libera dai propri problemi grazie a gesti violenti e di carattere quasi terroristico. Fanno sorridere le critiche alla musica di Marilyn Manson o ai film di Tarantino come cause di omicidi e stragi, ma sono critiche giustificate dal momento storico che stanno vivendo gli Stati Uniti. Ogni mezz’ora negli Stati Uniti qualcuno impugna un’arma e uccide persone innocenti in strada, a scuola, nei cinema o sul posto di lavoro. È normale che in Europa, dove questo fenomeno è praticamente sconosciuto, il film abbia ricevuto meno critiche di questo tipo.
Indipendentemente dalle critiche, rimane il fatto che Joker sia un film che parla della e alla società statunitense di oggi. Una società che si definisce nella sua profonda crisi di valori, dove il sogno americano si è corrotto fino a diventare una continua ansia da prestazione e dove il ritorno a un passato glorioso – Make America Great Again – ha il valore e la credibilità di uno slogan elettorale stampato su un cappellino rosso. È proprio questo suo rivolgersi in modo sguaiato e onesto ai limiti del brutale al pubblico il vero valore di Joker. Non credo possa esistere un vero film su Joker senza Batman, ma allo stesso modo credo che, se l’intenzione di Phillips era quella di puntare il dito contro la degenerazione del suo Paese, la scelta di portare ancora una volta in scena la genesi di personaggio della Dc Comics sia la più azzeccata di sempre.