“Perché impariamo a vivere senza le nostre madri? Sembra quasi uno scopo che ci diamo… emanciparci a ogni costo. Io non voglio emanciparmi”, dice Charlotte Gainsbourg nel suo debutto alla regia Jane by Charlotte, in cui si espone nel tentativo di superare il pudore che fin da piccola la caratterizza, esplorando il suo rapporto con la madre, Jane Birkin. Esplorare il pudore.
Il documentario diretto da Gainsbourg è profondamente intimo, commovente e accogliente, sia nelle scene girate tra le mura domestiche di Jane, nel suo vecchio giardino (dove appare anche la piccola nipote, Alice, che pianta dei semi insieme alla nonna), ma anche in sala di registrazione, su un palcoscenico, o su un tetto di New York. Con grazia e dolcezza le due icone del cinema e della musica rock si confrontano con semplicità e poche pesate parole su enormi temi, che anche quando sembrano molto distanti tra loro sono in realtà molto prossimi e intrecciati. Il rapporto con la propria immagine e la sua percezione, con la posa e il farsi ritrarre, la disponibilità nel lasciarsi toccare, raggiungere, la maternità, il pudore, il corpo, le articolazioni dell’amore, la famiglia, gli uomini, il pubblico, i viaggi, il rapporto con gli oggetti, il giardinaggio, le case, il rapporto coi figli, la morte della sorella di Charlotte, la fotografa Kate Barry, avuta da Jane insieme al suo primo marito, il compositore John Barry, e morta suicida nel 2013, a quarantasei anni, l’ansia di controllo, la gelosia, la sindrome dell’impostora: tutto nel documentario, quando viene avvicinato da Charlotte e Jane, assume le sfumature di un segreto svelato a mezza voce.
Uno dei grandi dilemmi delle relazioni affettive, prima fra tutte quella tra genitori e figli è quello tra dipendenza e indipendenza. La nostra infanzia, dal punto di vista biologico, è eccezionalmente lunga e indifesa e l’enorme investimento richiesto dal fare uno o più figli è un aspetto cruciale che ci contraddistingue come specie. I caregivers devono assumersi la piena responsabilità del cucciolo di essere umano, la più dipendente delle creature, ma al tempo stesso devono anche trasformarlo in un adulto totalmente autonomo. Quando nasce un bambino si passano mesi, per non dire anni, sorreggendolo per molte ore al giorno, nutrendolo, spesso col nostro latte prodotto dal corpo stesso, composto dai liquidi e dal cibo che a nostra volta assumiamo, e poi svezzandoli, trovando e cucinando per loro cibi specifici con attenzione e cura, per non parlare della routine dell’addormentamento e delle ripetute sveglie notturne. Così quasi come dopo un parto, Jane dice che il suicidio di Kate l’ha fatta cambiare molto fisicamente. All’improvviso non riusciva più a portare gli stessi vestiti, vestiti che portava da vent’anni. Era diventata improvvisamente più tarchiata, pesante. “Sono vicina al punto in cui una se ne frega di tutto,” dice Jane commentando i consigli che le ha dato il chirurgo estetico. “A un certo punto non ti riconosci più allo specchio. Allora togli lo specchio, non ci pensi, scrivi, crei,” continua. “È meglio togliersi gli occhiali, così diventa tutto più fluido ed è più facile fregarsene”.
La cosa che a tanti sembra assurda è che spesso ci si occupa della sfiancante cura dei figli con soddisfazione e persino felicità. E dopo tutto questo impegno, questi sforzi, questa fatica, passano un po’ di anni e si finisce con qualche sporadico messaggio su whatsapp spedito da una città a decine di chilometri di distanza, o magari da un altro Paese o continente. Un’altra relazione affettiva caratterizzata da due simili estremi apparirebbe a dir poco sbilanciata, strana, per non dire patologica. I figli, infatti, passano da un livello di dipendenza infinitamente superiore a quello di qualsiasi amante a un’indipendenza e a un distacco infinitamente superiore a quello della persona più indifferente ed estranea, ed è giusto che sia così – per entrambe le figure in questione. Se infanzia e intimità sono strettamente legate tra loro, i figli adulti dovrebbero apparirci in un certo senso come stranieri.
Così Charlotte e Jane appaiono vicine e lontane. Il film si apre con la madre, che all’inizio di un suo concerto in Giappone entra sul palco, circondata dagli orchestrali, cantando “Ces petit riens”, canzone di Serge Gainsbourg dal testo estremamente evocativo, che mescola amore ed esistenzialismo (“On se souvient de rien, et puisqu’on oublie tout, rien c’est bien mieux que tout”), per poi mandarlo a fanculo. E in questo premeditato atto liberatorio appare quasi più giovane e scanzonata della figlia, la cui musica è pura espressione di disagio, ma al tempo stesso della capacità di abitarlo creativamente, emanando un’atmosfera a metà tra l’abbraccio e la tenaglia, che descrive alla perfezione certi luoghi emotivi, i luoghi dell’insonnia e del rischio, che sono gli stessi della creazione artistica e della ricerca interiori, che non tutti frequentano.
Charlotte e Jane, come ogni madre e ogni figlia, sono molto diverse e molto simili allo stesso tempo. Charlotte ci mette le immagini, il ritmo, il montaggio, lo sguardo, la musica, Jane la sua età, la sua vita, il suo essere un simbolo e una persona al tempo stesso. Charlotte appare sempre in jeans e maglietta, coi capelli spettinati, struccata. Jane invece ha perennemente i capelli disordinatamente raccolti con una pinza, eppure un dettaglio che potrebbe sembrare sciatto su di lei diventa elegante. Fare un film sulla madre, usando una telecamera, è solo una scusa per poterla guardare come non ho mai fatto, confessa Charlotte. Tra le due è sempre intercorsa una sorta di intenso pudore, una specie di tensione, un non detto, come la forza leggera che si crea avvicinando gli stessi poli delle calamite. Jane afferma che fin da piccola, a differenza delle altre due sorelle, Charlotte le appariva misteriosa, segreta, lontana e riservata.
Il dialogo tra madre e figlia è uno dei grandi topoi narrativi della nostra storia recente. Mi viene in mente Sinfonia di autunno, il film del 1978 diretto da Ingmar Bergman. Nel film, Eva invita a trascorrere una vacanza a casa sua la madre Charlotte, pianista di fama internazionale che non vede da sette anni e che ha perso da poco tempo il suo compagno, morto in una clinica dopo una lunga malattia. Eva ha perso il figlio prima che compisse quattro anni e da due si prende cura della sorella disabile, che sua madre aveva affidato a una casa di cura. Questo incontro porta Eva e Charlotte a confrontarsi sul tema dell’amore, della realizzazione personale e della cura, in quella che è probabilmente la loro prima conversazione onesta. Ma penso anche al romanzo Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout o al commovente memoir Non sono più uscita dalla mia notte, in cui Annie Ernaux racconta del progredire dell’Alzheimer di sua madre. L’amore, l’affermazione della propria identità, la cura, il rispetto dei confini altrui, le aspettative si intersecano dando vita a storie stratificate, cariche di emozioni, in cui è impossibile non immedesimarsi.
Dopo una vita di mariti, musica, spettacolo, figlie, viaggi, Birkin cantò per la prima volta, sola, dal vivo al Bataclan nel 1987. Questo avvenimento per lei segna uno spartiacque. “Volevo togliere tutti gli attributi femminili per andare avanti. Mi sono fatta più fluida. Volevo che le persone ascoltassero bene le mie parole, come le cantavo bene, senza essere distratti dal mio aspetto”. Prima era sempre tutto un playback, ha iniziato a cantare tardi. “Ma se non canti davvero non prendi niente sul serio,” dice. “Se canti sei nuda, è tutto diverso. […] non so come facciano gli atleti, tutti quelli che devono fare cose spaventose, come fanno a farle per la prima volta”. Mostrando il suo modo fragile di stare nel mondo e di agire, spaventata da tutto eppure coraggiosa, con umiltà e rispetto, forse generato dal sentirsi ingiustamente privilegiata, in primis dal proprio padre, a discapito della sorella. “Avevo tutto senza averlo meritato, non avevo meritato questa enorme devozione,” confessa Jane.
Così Jane dice di non riuscire a buttare via nulla, perché per lei gli oggetti sono ricordi, storie, anche quelli rotti, che non possono servire più a niente. Si rende conto di avere un atteggiamento al confine della patologia, ma mettere in ordine le sue cose le genera un senso d’angoscia, così come il vivere da sola. Ha bisogno di gentilezza, di specchi buoni e lusinghieri. Camminando per New York, a Jane sembra tutto lontano, un punto all’orizzonte nel passato; a Charlotte, invece, sembra tutto come fosse ieri; così ricordano l’insegnamento di Agnés Varda: “Bisogna catturare il presente”. E per riunire lo spazio e il tempo cantano insieme “La ballade de Johnny Jane” con la loro voce sottile, sussurrata eppure ruvida al tempo stesso. “Hey Johnny Jane / Tu balades tes cheveux courts, ton teint livide / À la recherche de ton amour suicide. […] Hey Johnny Jane / Ne fais pas l’enfant, ne sois pas si stupide / Regarde les choses en face, sois lucide / Hey Johnny Jane / Efface tout ça, recommence, liquide / De ta mémoire ces brefs instants torrides”.
Charlotte Gainsbourg si inserisce con questa sua opera nel solco intimista documentaristico di tanti grandi autori del cinema francese, da Agnès Varda a Chris Marker, dando vita a un dialogo filmico a due voci, tra presente, passato e futuro, realtà e ricordo, una sorta di lettera intima cinematografica immersa in un’atmosfera fiabesca, sospesa, evocativa, in cui una madre e una figlia dopo tanti anni ritrovano un modo per accarezzarsi e dirsi che si amano ancora.