“Il mondo secondo Garp” è una delle più belle interpretazioni che ci ha lasciato Robin Williams - THE VISION

Se mi chiedeste un’opera di narrativa femminista da consigliarvi oggi vi direi Il mondo secondo Garp. Ma lo ha scritto un uomo, John Irving, direte. È vero, ma resta uno dei più grandi romanzi femministi che abbia mai letto, perché tratta il femminismo come un ambito di riflessione, a cui avvicinarsi in maniera pragmatica, nel bene e nel male proprio di qualsiasi movimento politico. Il mondo secondo Garp mostra il femminismo da un punto di vista esterno e al tempo stesso molto vicino – quello di Garp, figlio di una donna, Jenny Fields, che grazie al suo romanzo autobiografico dallo scarso valore letterario e ai messaggi rivoluzionari per la condizione femminile che veicola diventa un importante simbolo femminista. In questo modo, empatico e sarcastico a un tempo, ne mostra la potenza fuor di retorica, la necessità e l’urgenza: non attraverso chissà quale complicato ma pur sempre fondamentale discorso astratto, ma proprio attraverso i fatti, il famoso show don’t tell che viene tanto bene a una certa scuola di autori statunitensi. Irving, con la sua voce inconfondibile e la sua capacità di mescolare serio e faceto in un modo che oscilla tra il realismo e il surrealismo, rimane sempre credibile, fin dall’inizio della storia ci mostra insieme ai suoi personaggi perché il patriarcato, e il mondo che si basa su esso, sia incontrovertibilmente una merda; e le donne (incluse le donne trans, cosa tutt’altro che scontata per l’epoca) in questo sistema siano le minoranze che ci rimettono di più, perché è come se l’intera società accettasse il loro sacrificio e la loro sofferenza.

Irving ammette di essere stato indeciso fino all’ultimo su quale dei due personaggi incentrare la vicenda, se Jenny o Garp; poi, anche per motivi autobiografici, ha optato per Garp – probabilmente anche perché era ben consapevole che da un punto di vista stilistico il racconto di formazione di un uomo che si interseca così profondamente a quella della nascita del movimento femminista per come lo conosciamo oggi avrebbe creato più tensione narrativa, e quindi azione e possibile conflitto e contradditorio. Garp, infatti, vive faticosamente la notorietà della madre, le sue frequentazioni e anche la realtà di aiuto e accoglienza per le donne che crea nella grande casa di famiglia sulla costa. Garp, da un lato, incarna profondamente i valori di Jenny, si occupa dei figli e della casa, lasciando grande libertà alla moglie Helen; ma dall’altro ciclicamente entra in frizione con il mondo che quei valori rappresentano e con le sue aporie. Garp vive il femminismo come un uomo può fare, sostenendolo e al tempo stesso mettendone in luce i punti più critici, e nutrendo sempre la sensazione di esserne volente o nolente estraneo, per quanto prossimo (basti pensare al divieto per lui di partecipare al grande, nonché primo, funerale femminsita).

Lo stile di Irving è leggero, libero da qualsiasi autoindulgenza o sentimentalismo, anche nei momenti più drammatici. Come tutti i grandi scrittori, Irving sa maneggiare la materia composta dalle parole, la temperatura delle varie parti in cui si articola la storia e la distanza da cui raccontarla. Rapisce dalle prime tre righe e non ti lascia più, facendoti emozionare come pochi altri libri della storia recente. Alla fine dei conti, è questo che il lettore chiede alla fiction – è inutile fare gli snob e girarci intorno. Quando leggiamo un romanzo vogliamo sia in grado di farci precipitare nel suo mondo, come Alice nella tana del Bianconiglio, vogliamo affezionarci ai suoi personaggi, condividere le loro avventure e disavventure, vivere insieme a loro e cambiare i nostri orizzonti, ampliare il nostro panorama. E una delle cose più sorprendenti di questa storia è che anche se è stata scritta nel 1978, nel 2022 appare assolutamente contemporanea. La periferia residenziale, il rapporto tra genitori e figli, con il sesso e il desiderio, con il mondo della cultura, e dell’editoria in particolare, il divario di classe: sono passati quasi quarantacinque anni e non è cambiato niente. A riprova del fatto che, al di là dell’accelerazione data dalla scienza, il cervello dell’essere umano – e il suo modo di funzionare – è davvero pressoché lo stesso di duemila anni fa.

La cosa bella di Irving è che, nonostante questo, riesce ad aggirare ogni convenzione e luogo comune, sfruttando gli stessi bias cognitivi che caratterizzano la mente dei suoi personaggi e della società in cui sono immersi come trampolini. In questo modo tutto risulta verosimile e al tempo stesso sorprendente. I suoi personaggi sono per lo più dei magnifici weirdo con lo sguardo profondamente buono. E infatti fu perfetta la scelta di Robin Williams per interpretare T. S. Garp nell’adattamento cinematografico diretto da George Roy Hill (regista tra gli altri di Butch Cassidy, Mattatoio 5 e La stangata) che fu fatto del romanzo nel 1982, e che valse una nomination agli Oscar come migliori attori non protagonisti a una giovane Glenn Close, al suo debutto nei panni della mitica Jenny Fields, e a John Lithgow, che interpreta invece un altro personaggio secondario ma indimenticabile, Roberta Muldoon, l’ex n. 90 delle Aquile di Filadelfia. Williams era semplicemente perfetto per essere Garp, perché è un impunito, e anche quando dice le peggiori porcherie, le dice come un bambino curioso di vedere l’effetto che fanno le sue parole sul mondo, e così se ne va in giro a ripetere cacca e culo. 

Garp è sensibile e gentile, istrionico, fantasioso, divertente, è una sorta di incantevole disadattato e il suo modo originale, sincero e stralunato di vedere il mondo lo rende inevitabilmente attraente. Il suo senso dell’umorismo e la sua immaginazione per qualche indefinibile alchimia lo mantengono sempre “sano”, profondamente connesso alla realtà, anche quando sprofonda nel suo mondo, anche durante i più improbabili voli pindarici. Man mano che Garp cresce, però, ed esce dalla scuola dove è cresciuto e ha studiato sotto l’ala protettiva della madre Jenny, impara a conoscere sempre meglio il mondo terribile da cui sua madre lo ha tenuto al sicuro (dandogli al tempo stesso tutti gli strumenti che aveva a sua disposizione per affrontarlo) e di cui ha avuto solo un piccolo assaggio frequentando i Percy, eredi nientemeno che degli Steering, i fondatori razzisti della scuola. Garp conosce il male, e pian piano esso intacca la sua capacità di immaginare la vita.

Come una sorta di Woody Allen, Garp è ossessionato dalla morte, dalla violenza e dalla loro totale casualità, che sembra impedire la validità e la solidità di qualsiasi tipo di progetto esistenziale e soprattutto inquinano ogni aspetto dell’esistenza con una paura paralizzante. Su questo tema si innesta poi quello del sesso, inteso come strumento di potere e di articolazione sociale, la lussuria come forza sovversiva che finisce per punire chi le cede e che, nel mondo secondo Garp – che in realtà almeno all’inizio è inevitabilmente il mondo secondo Jenny Fields – viene sempre e comunque dagli uomini. Ben presto, però, Garp scoprirà che non è affatto così, il desiderio abita anche le donne, ma esse, a differenza degli uomini, ne pagano uno scotto più alto. Le donne, nel mondo secondo Garp, sono esseri forti e liberi, molto più resilienti e resistenti degli uomini, ma alla fine per un motivo o per l’altro, nonostante i loro saldi propositi restano fregate. Cushie Percy, che si apparta sugli argini del fiume con i ragazzi (Garp compreso), morirà di parto; Robert Muldoon, una volta cambiato sesso, inizierà a soffrire per amore; e anche Helen, a sua volta, pagherà caro l’aver ceduto all’attrazione per un suo studente, pur avendo preso tutti gli accorgimenti del caso. Anche il destino, nelle infinite gradazioni tra la vita e la morte, sembra essere impari, proprio come se fosse ben più influenzato dalla società di quanto siamo disposti ad accettare.

Il desiderio o, per dirla col lessico fuori moda di Jenny, “la lussuria” è il motore che fa girare la giostra del mondo e da cui, in un modo o nell’altro, emergono tutte le nostre gioie e sofferenze; ma, soprattutto, sembra essere il veicolo stesso dell’inquietudine, di un’imprevedibile, invisibile e letale corrente di risacca, pronta a portarci via con sé in un attimo, o a ribaltare completamente le nostre esistenze, non importa quanto solide, sicure, controllate e ben costruite siano. Irving vuole mostrarci che siamo tutti scoperti, potenziali bersagli del bombardamento cieco e dissennato, che non importa quanto sia solida la casa di mattoni costruita dai tre porcellini della storia che ci hanno raccontato da bambini e che a nostra volta raccontiamo ad altri bambini, il lupo riuscirà lo stesso a buttarla giù. E se non lo farà il lupo – o la risacca (undertow) o il “Sotto Rospo” (undertoad) – lo farà comunque la morte.

Come dice Jenny Fields a Garp all’inizio dell’adattamento cinematografico: “Tutti muoiono Garp, […] anch’io morirò, anche tu. Il punto è viversi la vita prima di morire, e può essere una grande avventura una vita da vivere”. Sembra allora che Jenny, con la sua inedita e coraggiosa visione del mondo, voglia mettere al mondo un figlio per dargli l’occasione di vivere una propria storia e di poterla vivere al meglio, con la libertà che lei ha dovuto ottenere calpestando ogni norma sociale e famigliare dell’epoca. Jenny finisce per essere una femminsta per caso. Lei non si proclama mai tale, e anzi, certe sue idee potrebbero anche essere quantomeno discutibili; non dice di esserlo per dare alla propria identità una causa (come le “ellen-jamesiane”); eppure lo è così intimamente (prima di diventarlo politicamente) che tutte le altre donne la riconoscono indubitabilmente come tale. Jenny, infermiera per lavoro prima e vocazione poi, infatti, ha fatto delle sue convinzioni una prassi a tutti gli effetti, e solo dopo le ha trasformate in slogan, non ha mai avuto paura di agire le proprie idee, e così, senza curarsi del giudizio del mondo, è riuscita a cambiarlo.

Questa storia tocca temi enormi, ma la grande consolazione che porta, insieme all’umorismo, come strumento per rendere la vita sopportabile, è la fiducia nella famiglia allargata, altro concetto estremamente avanti per l’epoca. Il messaggio finale che Jenny sembra allora portare a Garp è proprio quello dell’amore inteso come cura, come unica possibilità di rendere migliore la società: pari, generosa e inclusiva, al di là di qualsivoglia ideologia e desiderio egotico di affermazione personale, anche quando si traveste da causa collettiva.

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