Chiunque nella sua vita abbia mai avuto paura di volare sa bene che ci sono piccoli trucchi che si imparano col tempo per alleviare questo stato di angoscia tanto immotivato quanto reale. Nella mia esperienza, per caso, mi sono accorta un po’ di anni fa che guardando Friends durante il volo quello stato di alterazione a volte incontrollabile diventata molto più facile da gestire. Avevo tutte e dieci le stagioni sul computer perché le ho guardate da grande e non negli anni in cui erano state trasmesse, visto che nel 1997 avevo cinque anni. Mentre volavo verso casa, ne ho aperta una, e non solo ho cominciato a calcolare il tempo che mi mancava per l’arrivo in base alla durata – circa venti minuti – di ogni episodio, cosa di per sé già in qualche modo rassicurante, ma mi sono anche resa conto che nonostante sapessi benissimo quello che stava succedendo ero comunque divertita come la prima volta, e per questo rasserenata: un piccolo miracolo per chi passa le ore ad alta quota a pensare di essere a un millimetro dalla morte. Grazie all’aviofobia dunque, ho avuto modo di rendermi conto quanto fosse efficace e intramontabile questa sitcom americana che il 22 settembre ha compiuto venticinque anni dalla sua prima messa in onda. Un quarto di secolo dopo, non solo io ma intere generazioni continuano ad amare Friends proprio come venticinque anni fa. Senza bisogno di doverlo guardare durante un attacco di panico come calmante.
I motivi per cui questa serie rimane inossidabile non sono pochi – nonostante le molteplici critiche che le sono state mosse per colpa dell’abitudine di interpretare le opere del passato con la morale del presente, non tenendo conto di quanto sia cambiato l’Occidente in soli 25 anni – e per questo continua a piacere ancora a un pubblico molto vasto sebbene si tratti di una normale sitcom americana anni Novanta. Friends, infatti, rappresenta la quintessenza della serialità da situation comedy statunitense, sebbene sia stata preceduta da altre serie riconducibili a questo genere e poi diventate cult, come nel caso di Seinfield. Eppure, sembra che le sue colleghe di format – anche le più popolari come How I Met Your Mother, che vedendola alla luce di Friends impallidisce, per quanto si tratti di una sitcom di tutto rispetto – non riescano mai ad arrivare a un picco altrettanto alto di diffusione, gradimento e immortalità. E non è soltanto una sensazione ma un dato, considerato che si stima che Friends non sia solo tra gli show più pagati da Netflix – che ha sborsato cento milioni di dollari alla WarnerMedia per mettere in streaming le sue dieci stagioni per dodici mesi – ma anche il secondo più guardato sulla piattaforma nel 2018. Non è così scontato che un prodotto creato così tanto tempo fa generi tanto richiamo, anche perché nonostante tutto ci sono al suo interno anche una serie di spunti a cui ci si può aggrappare per criticarlo alla luce del presente, come battute oggettivamente omofobe e transfobiche, eppure coerenti con un periodo della storia in cui semplicemente non si era ancora sviluppata una sensibilità e una coscienza collettiva e narrativa rispetto a queste tematiche come oggi.
A rendere così attraente Friends, dunque, è senza dubbio la combinazione di una scrittura brillante e di un cast decisamente fortunato, sia per quanto riguarda gli attori – che sono rimasti nel firmamento imperituro delle star di quegli anni, in particolare Jennifer Aniston – che per i creatori, David Crane a Marta Kauffman. Il fatto poi che tutte e dieci le stagioni si distribuiscano su due livelli – una macro-narrazione fatta di una storia orizzontale condivisa dai sei amici e tante piccole micro-narrazioni verticali “quotidiane” che compongono poi l’essenza del singolo episodio, espediente tipico della sitcom – ha reso possibile ai due autori di creare un mondo a cui fosse facile affezionarsi, ma anche fruibile in una formula saltuaria. Friends si basa infatti su un senso di immedesimazione ed empatia sempre tenuto alto, motivo per cui puoi ritrovarti a essere la fan numero uno di Ross e due puntate dopo chiederti come hai fatto a non concentrarti di più su Phoebe. Nessuno dei protagonisti è indispensabile, eppure tutti sono necessari: c’è come un tappeto di fondo che fa da paracadute per qualsiasi momento delle dieci stagioni, ossia il fatto che prima o poi ciascuno dei personaggi in qualche modo ti farà ridere nel suo modo unico; e quando ti chiederanno qual è il tuo personaggio preferito risponderai sempre con tentennamento ed esitazione perché in effetti non puoi avere un personaggio preferito, sono stati creati in modo così verosimile ed equilibrato da poterti immedesimare di volta in volta in ciascuno di loro. Certo, è vero poi che Rachel Green ha ispirato generazioni di donne grazie al suo ormai storico Rachel’s cut, ma si tratta più di un fattore estetico che di un vero e proprio elemento della narrazione.
Mentre Monica, Rachel, Phoebe, Chandler, Joey e Ross vivono ognuno la loro vita da mid-twenties, affrontando ognuno le proprie vicissitudini esistenziali, sentimentali e lavorative, noi che guardiamo ci facciamo trascinare da un racconto che si basa su un principio di totale inverosimiglianza. Se la sospensione di incredulità di cui parlava Coleridge nel Diciannovesimo secolo dovesse avere un nome e un luogo, probabilmente questo sarebbe il Central Perk: tutto nella vita di questi giovani newyorkesi è implausibile, costruito, distante anni luce dalla vita di una persona di quell’età che fa lavori simili ai loro – escluso forse Chandler, unico personaggio relegato a una dimensione economica vagamente meno surreale e per questo deriso. Nessun venticinquenne può permettersi di passare tutte quelle ore a bere caffè e mangiare muffin con i suoi migliori amici a meno che non si tratti di un mantenuto e anche piuttosto viziato; nessuna cameriera può pagare l’affitto di una stanza a Manhattan come quella di Rachel e al contempo vestirsi ogni giorno come se fosse una fashion icon; nessuno “studioso di dinosauri” – fa ridere già così – si ritrova in una condizione di stabilità economica come quella di Ross, per non parlare della vita di Monica che non solo ha trasformato il suo corpo da obesa ad angelo di Victoria’s Secret ma è anche riuscita a trasformare un disturbo alimentare in una fonte di guadagno a dir poco soddisfacente per una vita nel pieno centro di New York. Normalmente, un’accozzaglia di elementi implausibili così densa dovrebbe provocare fastidio, ma nel caso di Friends è l’esatto opposto, si compie questo piccolo miracolo. Ed è proprio in questo suo essere così esageratamente irreale – sebbene abbia tutti gli elementi per essere iper-reale, visto che non ci sono draghi né magia – che risiede un enorme punto di forza della sitcom più amata di sempre.
Quando, ad esempio, guardi le avventure di Joey che prova a diventare un attore nonostante i suoi enormi limiti e il fatto di essere sempre al verde, sai bene che alla fine in qualche modo ci riuscirà, e che anzi, è proprio dallo svantaggio e dall’equivoco che nasce l’espediente narrativo dell’episodio. Friends ci racconta una realtà utopica in cui tutti vorremmo trovarci, un ponte esistenziale tra l’adolescenza e l’età adulta pieno di possibilità, cambiamenti, scelte di vita e rivoluzioni e che grazie alle risate registrate e a un set riconoscibile a chilometri di distanza diventa un momento da godersi completamente. Tutti i problemi dei personaggi rimangono su uno stato di superficie: sappiamo sì che sono gravi, intensi – e dunque reali, condivisibili – ma non andiamo mai a fondo, ci fermiamo un attimo prima. Guardare Friends è come sbirciare da un balcone di vetro la profondità di un canyon alto centinaia di metri. Sai che è tutto là sotto, ma perché buttarticisi se invece puoi guardarlo dall’alto senza farti male e provando lo stesso brivido senza conseguenze? Friends è uno specchio messo di fronte all’idea di famiglia, ai legami che ci lasciamo alle spalle una volta usciti da casa e a quelli che ci costruiamo per crearne una nuova, ma senza mai spingersi tanto in là da includere davvero i drammi individuali che questa fase della vita può comportare. Rende tutto leggero, digeribile e divertente, una versione caramellata e colorata di un momento che tutti attraversiamo, rinforzata dalla combinazione di gag che esaltano i difetti e le piccole psicosi di ognuno dei suoi personaggi che in questo modo si trasformano in qualcosa di umano e divertente: Ross che fa cose come sbiancarsi troppo i denti per un appuntamento e che divorzia ogni tre per due, Monica che tartassa tutti con la sua eccessiva pignoleria, Chandler che non si sa mai che lavoro faccia, Rachel che piange in continuazione, Phoebe che fa canzoni orrende e dice cose shanti shanti in tempi non sospetti e Joey che importuna tutte con il suo tanto famoso quanto fallimentare “How you doin’?”.
I Beatles hanno composto duecento e rotti brani, Friends ha 236 episodi; credo che entrambi questi enormi fenomeni pop, sebbene appartengano a due forme d’arte e a due epoche diverse, abbiano alcuni aspetti in comune che ne determinano la grandezza e il successo. Come spiega Luca Barra in un articolo sulla sitcom del Central Perk e dello “Smelly Cat”, Friends si basa su un principio di medietà, da non confondere con un principio di mediocrità. Così come tutte e duecento e passa le canzoni dei Beatles hanno una leggerezza e una capacità di trasporto inspiegabilmente universali, facili da capire ma al contempo molto raffinate nella loro semplicità, allo stesso modo questo mantenersi su uno stato non abbastanza profondo da essere grave né abbastanza frivolo da essere stupido ha reso la serie un caposaldo per il modo in cui si può raccontare la vita di alcuni amici, attraverso una quotidianità basata su un desiderio – il nostro da spettatori – di immedesimarci in vite vissute con piacevole e catartico divertimento. Non a caso infatti ogni puntata, nella versione originale della serie, ha un titolo neutro e molto riferibile – “The one with the Prom Video”, “The one when Ross and Rachel… you know” – proprio come racconteresti anche tu che stai guardando un aneddoto che ti è capitato con qualche amico, “quella volta che”. In tutto ciò, mentre le cose succedono fuori e dentro al Central Perk, ogni stagione è arricchita con la presenza di diversi tormentoni e situazioni memorabili – il “We were on a break” di Rachel e Ross forse è il più famoso, ma ci sono anche il “Pivot”, il “Meat sweat”, “Unagi” e veramente molti altri – che ci legano ancora di più a questo gruppo di sconosciuti che non esistono ma con cui siamo portati in modo naturale a empatizzare. Perché tutti abbiamo un racconto “The one with…” da tirare in ballo con il nostro gruppo di amici preferiti, vera famiglia che ci costruiamo dopo essere andati via di casa.
Friends, in sostanza, è immortale perché è la versione semplificata e divertente di un momento dell’esistenza di ognuno in cui si cominciano a palesare problemi di ogni tipo, in cui si esce dalla spensieratezza tormentata dell’adolescenza per rendersi conto che ci sono cose serie a cui pensare, come il lavoro. E infatti, “So no one told you life was gonna be this way” è l’intro della sigla che apre la serie con la frase chiave di quello che queste dieci stagioni saranno. In ognuno dei suoi personaggi, Friends ripone caratteristiche caratteriali universali, affidando a ciascuno dei sei amici vizi e virtù che rendono possibile questo costante passaggio di staffetta da un focus all’altro: per questo si possono riguardare le puntate mille volte anche se le si conoscono a memoria, perché puoi scegliere ogni volta da che punto di vista guardarla e ogni volta provare qualcosa di nuovo. Ci sarà un momento nella tua vita in cui ti sentirai di poter empatizzare perfettamente con Ross che ha un crollo nervoso perché un collega ha mangiato il suo sandwich, un altro magari in cui capirai perfettamente la frustrazione di Joey nel fallire sempre tutti i provini a cui partecipa, un altro ancora in cui invece potrai identificarti nel riscatto di Rachel che da ventenne viziata diventa sì una donna di successo ma colleziona una serie di fidanzati improbabili. Che ci siano dei punti criticabili rispetto al modo in cui Friends rappresenta certe categorie – le persone di colore, gli omosessuali, i trans, le persone obese – non è un mistero; ma tutto ciò fa parte proprio di quel cambiamento sociale che stiamo vivendo. Friends è la rappresentazione televisiva con le risate in sottofondo e il set sempre uguale dell’alba della modernità: gli anni Novanta stavano finendo lasciandosi alle spalle un secolo molto intenso e “breve”, il Duemila è arrivato con le Torri Gemelle e internet. Ross, Rachel, Joey, Phoebe, Monica e Chandler sono la generazione che ha fatto da ponte tra un momento e l’altro, e se guardando le loro storie abbiamo la percezione che non sia quello il modo di trattare certi temi vuol dire solo che siamo andati avanti. Nel frattempo, Friends continua e continuerà anche nel futuro a essere così bello per un semplice motivo, che va al di là degli errori e delle possibili correzioni: è bello perché fa ridere.