Esiste un’estetica femminile precisa, fatta di capelli a capitello dorico, parure di corallo, tailleur Luisa Spagnoli e linguaggio forbito. Nella maggior parte dei casi questo tipo di donna sulla sessantina – colta, educata, sempre truccata e profumata, con la piega fresca dal parrucchiere – si incontra a scuola, più di frequente alle medie, e nella maggior parte dei casi è una professoressa di lettere. Una figura che da un lato affascina per eleganza e compostezza, dall’altro mette in soggezione per la sua algidità, tanto da spingerti a raddrizzare la schiena e a buttare via la gomma da masticare. Franca Leosini è la quintessenza di questa declinazione umana, solo che invece di fare un concorso per l’insegnamento pubblico ha deciso di usare la propria laurea in lettere, la sua intelligenza e la sua ironia garbata per dare vita a uno dei format televisivi più interessanti di sempre, Storie maledette. Sono passati ventiquattro anni da quando la prima edizione è stata trasmessa su Rai 3 e, come nel caso di altri fenomeni simili tipo Un giorno in pretura, contro ogni logica di mercato che punta a un inseguimento forsennato al gradimento del pubblico e a ridicole svolte giovaniliste che intercettino le fasce più imberbi, questa trasmissione è rimasta con prepotenza ferma al suo posto, senza cambiare mai il suo aspetto o la sua sostanza.
Non c’è molto da inventarsi se la ricetta funziona bene: Franca Leosini è un cocktail perfetto di professionalità e teatralità che basta da solo a fare da colonna portante. Non è sufficiente parlare di cronaca nera per fare un prodotto televisivo che raccolga un consenso così trasversale, anzi; spesso proprio questi temi attirano un tipo di giornalismo che rasenta il livello di squallore e la morbosità di un guardone appostato dietro una macchina. Se la fanbase della Leosini reclama unita e compatta la sua identità – una fanbase che si è estesa fino allo storico locale romano Muccassassina che l’ha eletta icona gay – e se la sua trasmissione continua a essere così presente e venerata, non è per via dei plastici dei luoghi del delitto o delle narrazioni ricche di suspense, ma per una ragione molto più nobile. Franca Leosini, infatti, non ha scelto di creare una generica trasmissione di cronaca nera: c’è un filo conduttore tra tutti i protagonisti delle sue “storie maledette”, ed è l’umanità. L’umanità dell’errore, del pentimento, del senso di colpa.
Siamo abituati a guardare i cattivi da lontano, a metterli nella casella del male, a “sbattere il mostro in prima pagina” e a distanziarci dalle loro azioni, facendoli diventare altro da noi. Lo facciamo quasi inconsciamente, come meccanismo di difesa: se il male è estraneo e non ci riguarda, siamo tutti automaticamente assolti. Loro sono i cattivi, noi siamo i buoni, loro hanno sbagliato, noi ci comportiamo bene. Semplificando in questo modo la realtà, ci accomodiamo in un presunto stato di innocenza, ci inseriamo comodi in una favoletta manichea dove l’assassino non ha possibilità di assoluzione se non attraverso il nostro stesso sentimento di disprezzo. La grande intuizione di Franca Leosini consiste proprio nell’aver scardinato questo dualismo tra spettatore e criminale, dando una rappresentazione del secondo priva di giudizio, senza un’ipocrita indulgenza.
La scelta dei casi, infatti, è molto precisa (come ha spiegato lei stessa più volte): non ci sono serial killer, in quanto persone affette da disturbi precisi; non ci sono moventi di tipo economico; non ci sono professionisti del crimine. Ci sono solo storie con matrici passionali in cui gli attori coinvolti non hanno precedenti legali rilevanti. In sostanza, ci sono solo persone normali che si sono trovate in situazioni di anormalità. Ed è questo lo scacco allo spettatore che ha dato quel punto in più alla trasmissione: che succede se si comincia a empatizzare con il cattivo? Che succede se siamo in grado di capire il perché di certe azioni? Di solito, questa dovrebbe essere la base del perdono. Non di quello posticcio e perbenista di chi si mette in una posizione di superiorità, ma di quello più profondo che deriva dalla consapevolezza che quella cosa, magari, l’avresti potuta fare anche tu.
La teoria di Franca Leosini, dunque, sembra quella per cui tutti noi avremmo potuto essere protagonisti di una storia maledetta e siamo solo stati più fortunati. “La cicogna è un animale sbadato” è la sua metafora più famosa, ed è anche la più precisa a mio parere. Non si decide dove si nasce, come si nasce e cosa questo comporterà: ritrovarsi coinvolti in una situazione che si credeva impensabile non è così difficile, mentre prevedere quale sarà l’evento che potrebbe rivelare il proprio “cuore di tenebra” sì. Gli psicodrammi dei protagonisti di questa trasmissione diventano così un’occasione per ricalare nel contesto un’azione che invece, nella maggior parte dei casi, è riportata in modo secco, in medias res. Attraverso la ricostruzione soggettiva della vicenda – sempre ovviamente attenendosi agli atti processuali – quello che ci si para davanti non è più solo un volto slegato dalla sua storia e dal suo luogo di provenienza, facile da giudicare e comodo da accusare, ma un lungo e complesso ritratto che indaga su tutti gli eventi che hanno portato il colpevole ad agire in modo sbagliato. Non solo: Franca Leosini costruisce anche una vera e propria geografia del crimine, interpretando certe azioni e certe vicende attraverso il loro imprescindibile legame con il luogo in cui sono avvenute. C’è una bella differenza tra la vita di città, la vita in un paese del sud Italia o la vita in una provincia del nord Italia, tant’è che certi crimini avvengono guarda caso solo in ciascuno di questi posti.
È il caso per esempio della lunga puntata dedicata al delitto di Perugia: l’intervista nel carcere di Viterbo a Rudy Guede è una ricostruzione della biografia di questo personaggio coinvolto nell’omidicio di Meredith Kercher che non fa altro che restituire all’“ivoriano” – appellativo usato dalla cronaca per sottolineare anche la provenienza di questa persona con toni inquisitori – la sua identità. Gli errori, le bugie e le versioni contrastanti rimangono parte della storia, la verità di quella vicenda non è del tutto chiara, e non sarà certo un documentario di Netflix su Amanda Knox né un film con Hayden Panettiere dove i carabinieri parlano un inglese molto poco credibile a dare risposte precise. La dignità del ragazzo condannato per l’omicidio in concorso, invece, emerge tutta: non un drogato, né un ladro, né un violentatore seriale, ma una persona con una storia personale complessa, come è complessa tutta la vicenda dell’omicidio di Meredith. Un inno al principio “in dubio pro reo”. Un’idea della giustizia che si fonda su un’analisi dei singoli fatti che hanno portato alla commissione di un omicidio, meno superficiale di quella che usualmente viene condotta per rispondere alla sola esigenza di individuare un bersaglio a cui lanciare pietre.
Seduta faccia a faccia con il colpevole, dall’interno del carcere adibito a scenografia, Franca Leosini tira fuori il suo celebre quadernone in cui ha appuntato la partitura della sua intervista con tanto di metrica: comincia così un dialogo improntato sulla chance che dà al colpevole di rispondere delle proprie azioni di spiegarci perché ha fatto quello che ha fatto. Punto per punto si ricostruiscono le vicende che hanno portato agli eventi infausti, senza mai far prevalere il giudizio su quanto è successo, ma solo una limpida predisposizione all’ascolto e una cruda schiettezza nel porre le domande giuste. E non è solo attraverso i casi di cronaca più famosi – come quello di Perugia o quello molto discusso di Varani, per non parlare del suo contributo fondamentale nella ricostruzione dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini con le confessioni di Pino Pelosi – che la madre di Storie maledette costruisce il romanzo noir della realtà, “rubando l’anima all’intervistato per poi restituirgliela”, come descrive lei stessa. Ci sono anche quelle storie in penombra, magari dimenticate o mai ufficialmente entrate nella narrazione collettiva della cronaca nera.
Come per esempio la vicenda di Filippo Addamo, colpevole di aver ucciso sua madre per gelosia, protagonista di una storia d’amore impossibile e morbosa, culminata con un gesto imperdonabile prima di tutto da lui stesso, poi dalla legge e solo in un ultimo momento dal nostro giudizio esterno. Il caso di Addamo è la tragedia di un sentimento distruttivo, tanto forte da preferire la morte della persona amata alla sua vita, pur di non vederla in mano ad altri. E in questa storia c’è di mezzo il luogo da cui proviene con le sue regole e la sua mentalità che si tramanda, la mancanza di strumenti culturali (dovuta all’estrazione sociale) per capire cosa succedeva, l’impeto dell’età e della situazione in cui si è trovato che lo ha spinto ad agire in quel modo. La ricostruzione di Franca Leosini non serve a giudicarlo (per quello ci pensano già la sua coscienza e la legge) ma solo a comprenderlo. E cosa c’è di più umano della comprensione?
Per fortuna la televisione è fatta anche di queste cose: contro ogni pornografia della notizia, contro ogni facile strumentalizzazione della cronaca nera al solo fine di soddisfare il bisogno di un pubblico che non vede l’ora di lapidare il prossimo colpevole per sentirsi migliore, Franca Leosini ci mette davanti all’esercizio più difficile. Ci obbliga a immedesimarci e a chiederci nel profondo se siamo davvero così sicuri che noi, in quella stessa situazione, avremmo agito in modo diverso. Ci sprona a riconvertire il mostro in essere umano. Perché a pensarci bene, i colpevoli sono le prime vittime di loro stessi.