Perché “La paura mangia l’anima” di Fassbinder è ancora oggi il film più efficace sul razzismo

Quando il 10 giugno del 1982 fu trovato senza vita nella sua casa di Monaco, stroncato da un’overdose di sostanze stupefacenti, Rainer Werner Fassbinder aveva solo trentasette anni. Icona del Nuovo Cinema Tedesco, autore incredibilmente prolifico dallo spirito radicale e anticonformista, Fassbinder ebbe comunque il tempo di realizzare circa una quarantina di opere, tra film e lavori per la televisione, lasciando il proprio indelebile marchio nella storia del cinema grazie a un’eccentrica personalità e a una sferzante visione artistica. Ciò che rende così affascinante il cinema di Fassbinder si potrebbe rintracciare innanzitutto nella strenua ricerca, che pervade la sua intera filmografia, di rappresentare la feroce potenza dei sentimenti umani sempre a partire dalle dinamiche sociali, nelle quali essi si trovano necessariamente a essere repressi e in seguito a esplodere. Solo in questo senso si può comprendere a pieno la sostanza che anima il cinema di Fassbinder, il quale più volte dichiarò di essere interessato a “sfruttare i sentimenti”, qualunque fosse lo sfruttatore e in qualunque modo fosse possibile farlo.

Fin dagli inizi in teatro, l’autore bavarese dimostrò un’ardente volontà di riflettere sulle contraddizioni storiche e morali di una Germania, quella degli anni Settanta, borghese e benpensante, mai del tutto riappacificata col demone del nazismo e incapace di prendere responsabilmente coscienza delle sue fratture identitarie. La paura mangia l’anima – opera del 1974 premiata a Cannes, che fece conoscere Fassbinder al grande pubblico – è forse l’esempio più emblematico in questo senso: un saggio di fulminante lucidità ed efficacia su quanto il razzismo fosse figlio, oltre che di pregiudizi e cattiveria, anche e soprattutto di quelle strutture e di quei meccanismi di oppressione sociale che spesso regolano lo stesso vivere comunitario.

Il film, riprendendo chiaramente l’impianto narrativo dei melodrammi hollywoodiani di Douglas Sirk che Fassbinder adorava, narra la storia di Emmi, una donna tedesca sulla sessantina, che si innamora di Alì, un prestante immigrato marocchino di almeno vent’anni più giovane di lei. Dal primo fortuito incontro in un bar alla repentina decisione di sposarsi, l’inusuale relazione fra l’anziana vedova e lo straniero scuoterà il microcosmo che circonda la coppia, provocando ostilità e tensioni. Girato a Monaco in sole due settimane con un budget molto limitato, La paura mangia l’anima è innanzitutto il racconto di due solitudini che Fassbinder non perde occasione di rappresentare, anche visivamente, attraverso precise scelte di regia, unite contro il soffocante ambiente che le condanna.

Emmi fa le pulizie in uno stabile, vive da sola dalla morte del marito e soffre per il difficile rapporto che ha con i suoi tre figli, i quali, pur vivendo nella stessa città, si preoccupano di vederla il meno possibile. In Alì, invece, emerge evidente il conflitto che lo sovrasta e lo pone a disagio nei confronti di un Paese che non è il suo e non riconosce come ospitale. “I tedeschi sono padroni e gli arabi non sono umani in Germania”, confiderà a Emmi poco dopo averla conosciuta, nel suo tedesco grammaticalmente scorretto ma al contempo gravido di saggezza e vitalità da conferirgli un’insondabile aura magnetica. Alì divide una stanza in periferia con altri cinque uomini, lavora tutto il giorno in un’officina e ogni sera va nello stesso locale in compagnia di alcuni colleghi stranieri per respirare aria di casa e cercare rifugio alle difficoltà della sua condizione di emarginato. Come sia possibile che due persone fra loro così diverse per cultura e radici si innamorino l’una dell’altra è un quesito che Fassbinder lascia irrisolto poiché non costituisce il centro della sua riflessione. Ciò che vuole indagare è piuttosto l’altrui reazione all’inconsueto, ovvero i processi di difesa e a volte di violenta discriminazione che vengono attuati dagli individui nel momento in cui si trovano a fare i conti con la gravosa scoperta di un inaudito che non hanno gli strumenti per comprendere e accettare.

Attraverso il suo caratteristico stile – curato nella composizione estetica, ma minimale nella messa in scena – in cui straniamento e realismo si compenetrano, i campi sono perlopiù medi e ogni lento movimento di macchina è emotivamente risonante. Fassbinder redige una sorta di fenomenologia per immagini del razzismo, intendendo con tale formula la cruda analisi di ciò che in realtà lo sottende, lo origina e lo alimenta. Ecco allora che dietro ai pettegolezzi insinuanti che le condomine di Emmi si scambiano non appena la vedono salire a casa con Alì, capiamo celarsi una triste invidia per l’amore che la loro coetanea ha di nuovo la fortuna e il coraggio di provare, così come solo una bieca ignoranza può essere alla base delle sprezzanti parole che Emmi si sente rivolgere dalle sue colleghe riguardo ai più infamanti luoghi comuni sugli stranieri in Germania e sulle donne tedesche che accettano la loro compagnia.

Astio, rabbia e terribile frustrazione guidano invece gli atteggiamenti dei figli della donna quando scoprono che la madre ha sposato un immigrato. Essi rappresentano alla perfezione quella nuova borghesia, criticata da Fassbinder e cresciuta dalle ceneri di Hitler, che considera alla stregua di una minaccia da isolare qualsiasi individuo o categoria possa rappresentare una messa in discussione dei propri privilegi. Lo stesso personaggio interpretato dal regista, che era solito ritagliarsi un ruolo nei suoi film e che in questo incarna il genero della protagonista, odia gli immigrati solo perché il suo capo è uno di loro, e ogni volta che gli ordina di fare qualcosa contribuisce ad accrescere il suo risentimento e la sua insoddisfazione per un lavoro che non lo gratifica, ma che non è in grado di cambiare, rendendolo aggressivo. Un discorso simile e svilito da una ancor più banale malvagità può essere riferito al commerciante che verso la metà del film si rifiuta di servire Alì, pur capendo benissimo quali sono le sue richieste, rimproverandolo con arroganza di non parlare bene il tedesco. Rifiuto, rancore, viltà: tutto ciò ci dice poco di Alì, ma molto di chi lo discrimina. “La paura mangia l’anima” non è solo il titolo del film, ma una frase che Alì rivolge a Emmi la sera del loro primo incontro: un monito da custodire e diffondere attraverso l’esempio del proprio comportamento. In questo senso l’intero percorso della coppia può essere inteso come il travagliato processo di liberazione di un affetto dai vincoli di natura economica e culturale che sono soliti ancora oggi imbrigliare gli individui e regolare i loro rapporti in disuguali rapporti di potere.

Una volta fornite queste innumerevoli chiavi di lettura, la narrazione però vira bruscamente e tutto sembra capovolgersi in maniera ideale, spiazzando di nuovo lo spettatore. Al ritorno da un breve viaggio di nozze, la coppia viene infatti accolta con benevolenza da chi prima la osteggiava, tanto che nulla sembra più ostacolare il suo amore. Tuttavia, a questo punto l’intenzione di Fassbinder e del suo sguardo analiticamente rivolto ai legami di forza che governano le nostre emozioni, è quella di avvertirci e farci riflettere su come sia facile cadere nelle stesse retoriche che riteniamo orgogliosamente di combattere. Chi nell’ultimo atto del film denigra Alì, trattandolo come un bel trofeo da esibire alle amiche, è proprio Emmi, la quale, non più soggiogata dal peso del giudizio altrui, inizia a esercitare a sua volta un potere indebito su corpo del suo amato. Tale umiliazione porta Alì ad allontanarsi dalla moglie, deridendola quando lei pentita va a trovarlo al lavoro e finendo per tradirla con la barista che, simbolicamente, per prima cosa gli cucina proprio quel couscous che tanto gli ricorda la sua terra d’origine e che Emmi invece era stanca di preparare perché “troppo poco tedesco”. Se i due nel finale, in seguito a un drammatico e improvviso peggioramento della salute di Alì e a una rinnovata promessa d’amore, si ritroveranno ancora vicini, sarà possibile solo perché avranno pagato le conseguenze della loro fuoriuscita dall’ordinario e sovvertito, per quanto in loro potere e nella misura consentita, i rigidi dettami della paura.

“Voglio raccontare solo degli episodi che mi sembrano importanti. Importanti non nel senso che chiudono le cicatrici della società, ma perché permettono ai personaggi di esprimere la sofferenza in tutta libertà”. In queste parole, da lui stesso pronunciate, risiedono la grandezza e l’eredità di Rainer W. Fassbinder: l’ostinato slancio verso l’oltre e il disagevole, nonché il ripudio di comode rassicurazioni o parziali risposte ai problemi che di volta in volta si affrontano, guidati dalla consapevolezza di quanto questo possa limitare e rendere infruttuoso qualsiasi esame critico dell’esistente.

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