Ogni generazione ha la sua serie tv sui “giovani d’oggi che bevono, si drogano e fanno sesso non protetto”. Se alla fine degli anni Novanta c’era Dawson’s Creek, che all’epoca era stato definito “il seriale più provocante e provocatorio del decennio”, alla fine degli anni Duemila è arrivato Skins, il teen drama per cui tutte noi ci siamo convinte che non struccarsi prima di andare a dormire fosse il modo migliore per avere lo stesso fascino consunto di Effy Stonem – che fece sembrare la serie di “a-do-wana-uei” un prodotto per educande. Oggi, alla fine degli anni Dieci, dobbiamo ricrederci su quanto fosse scioccante Skins, perché è arrivata una nuova serie che ha fatto rabbrividire gli adulti e sognare romanticamente gli adolescenti: Euphoria. Lo show, creato da Sam Levinson per HBO e prodotto, tra gli altri, da Drake, sta avendo un successo incredibile negli Stati Uniti e ha spaccato la critica in due, tra chi lo osanna come una serie rivoluzionaria e chi è decisamente più perplesso.
Euphoria racconta la vicenda di Rue, un’adolescente tossicodipendente interpretata da Zendaya che, dopo un’overdose e qualche mese in rehab, torna nella città natale con la mamma e la sorella minore. Rue, nata tre giorni dopo l’11 settembre 2001, è dipendente dagli psicofarmaci, che ha cominciato ad assumere da bambina per un disturbo ossessivo-compulsivo. Nonostante la morte scampata e la riabilitazione, la protagonista è tutt’altro che pulita: il suo disagio esistenziale, unito alla facile reperibilità della droga che assume (in una scena la vediamo, poco più che bambina, prendere le pillole di Xanax del padre malato di cancro mentre lo accudisce), la fanno sprofondare senza alcuna remora nella dipendenza. Il rapporto di Rue con le droghe e il modo in cui è rappresentato è molto realistico. Innanzitutto, rispecchia quanto dicono le statistiche sul consumo degli oppioidi tra gli adolescenti. In secondo luogo, il comportamento della protagonista – bugiarda, manipolatrice, fragile – è verosimile, come confermato anche da due giovani ex tossicodipendenti intervistate dal New York Times. Ultimo, ma non meno importante, una parte consistente di Euphoria non esita ad ammettere che le droghe non sono soltanto una disgrazia: come suggerisce il titolo, drogarsi può anche regalare la felicità, seppure se per pochi istanti. L’euforia delle sostanze viene trasposta sullo schermo con delle sequenze oniriche molto suggestive, in cui anche la voce narrante onnisciente di Rue si deforma e diventa del tutto inattendibile (dubbio che però si può nutrire anche nei momenti di “lucidità”).
Attorno a lei ruotano le vicende degli altri personaggi: c’è Jules, un’eccentrica ragazza trans appena trasferitasi in città, interpretata da Hunter Schafer; Kat, un’adolescente insicura che scrive fan fiction; e Nate, un ragazzo popolare, possessivo e con problemi di gestione della rabbia. Di ciascuno di questi personaggi ci viene raccontato – uno per puntata, un po’ come con Skins – il background, concentrandosi in particolare su un trauma infantile che avrebbe scatenato i comportamenti devianti che ciascuno di loro assume. Questo è un grosso limite della serie, che sembra voler ricercare per forza una causa probante per giustificare i comportamenti dei personaggi. In molti casi, la responsabilità è dei genitori: disattenti, alcolizzati, menefreghisti o al contrario iper protettivi, asfissianti. Tutti, però, incapaci di costruire un dialogo costruttivo con i propri figli.
Fin qui, Euphoria potrebbe sembrare una serie come tutte le altre del filone “signora mia, dove andremo a finire”: i giovani conflittuali che si drogano e si menano non sono certo il soggetto più originale del decennio. Quello che invece la rende interessante e distintiva è il modo in cui viene trattato il sesso, altro argomento cardine: per gli adolescenti della serie, il sesso è conquista, arma di ricatto, prova di coraggio, tentativo di sfuggire dalla noia. Il rischio di scadere nel moralismo è estremamente alto, ma Euphoria non lo fa mai. Si ferma un passo prima, ovvero quello in cui è la voce over di Rue a dirci se quello che vediamo sullo schermo è giusto o sbagliato. In questo caso vale la pena di citare due scene: la prima è la scena di sesso tra due dei personaggi secondari, Chris e Cassie. Chris a un certo punto mette la mano sul collo di Cassie, e comincia a strozzarla. Appena prima che la scena cominci a diventare disturbante, Rue la interrompe, per dirci che non si tratta di uno stupro, ma che Chris sta facendo questa mossa perché ormai nei porno è la norma. E infatti, quando Cassie gli chiede di fermarsi, il ragazzo toglie subito la mano, ma non capisce perché la partner abbia reagito in questo modo. I due si chiariscono, e continuano a fare sesso.
La seconda scena, ormai già diventata di culto, è la lezione di Rue, con tanto di slide, sulle dick pic. “Ci sono due tipi diversi di dick pic: richieste e non richieste,” spiega. “Quelle richieste costituiscono circa l’1% delle dick pic inviate e ricevute. Ma all’interno di quell’1% ci sono tre categorie: terribili, orribili e accettabili”. Quello dei nudes è infatti un tema molto sviluppato all’interno della serie perché, di fatto, costituisce un fenomeno sociale rilevante. Ormai da tempo si correla il fatto che i giovani facciano sempre meno sesso alla progressiva sostituzione delle relazioni amorose (e sessuali) con quelle virtuali, pornografia compresa. Ed Euphoria non nasconde questo aspetto: Jules conosce un misterioso “Dominant Daddy” su un’app di incontri, il video di Kat che perde la verginità (ripreso di nascosto) viene mandato a tutta la scuola, i ragazzi si passano i nudes di Cassie. La serie mostra come il sesso virtuale e i suoi correlati siano un gioco intrigante, ma anche pericoloso, e ne approfitta per dare una lezione sul tema del consenso, ancora riuscendo a evitare il tono paternalistico.
È di nuovo Rue ad assumersi questa responsabilità: “Questa è la cosa che mi fa incazzare del mondo. Ogni volta che le cazzate di qualcuno vengono leakate, che sia J. Law o Leslie Jones, tutti dicono: ‘Beh, se non vuoi che vengano diffuse, non farti fotografie nuda’. Mi spiace, so che la vostra generazione contava sui fiori e sul permesso dei genitori, ma è il 2019 e a meno che non siate degli Amish, i nudes sono la merce di scambio dell’amore. Quindi smettetela di rimproverarci. Rimproverate gli stronzi che creano dei database online protetti da password di foto di ragazze minorenni”. E qui viene però un altro dubbio: in questo caso il “voi” a cui si rivolge è chiaramente quello di un pubblico adulto: a chi vuole parlare Euphoria?
Secondo Vox, è come se la serie contenesse in sé due prodotti distinti: il primo è rivolto a un pubblico adulto ed è “il solito panico da ‘Perché i teenager sono così messi male?’, pensato per i genitori di bambini che sono quasi adolescenti”, sulla falsa riga di altri teen drama “scandalistici” come Thirteen – 13 anni o Kids. Questo approccio spiegherebbe perché la serie si sforzi continuamente di trovare delle cause alla noia che spinge all’estremo i personaggi. La seconda sotto-serie, quella che Vox giudica qualitativamente migliore, è quella che esplora “un’adorabile storia di formazione di due ragazze che si sostengono l’un l’altra quando ne hanno bisogno”. L’amicizia tra Rue e Jules è considerata, in modo unanime dalla critica, la parte migliore di Euphoria.
Jules è una ragazza trans (interpretata da un’attrice trans, cosa per niente scontata), e la cosa sorprendente è che la sua identità di genere non viene mai urlata in faccia allo spettatore e non ne fa menzione nemmeno la voce narrante di Rue. Nella prima puntata la vediamo mentre si inietta gli ormoni, ma chi non sa come funziona la transizione potrebbe non coglierlo immediatamente: il fatto che sia trans viene introdotto gradualmente, evitando un irrispettoso “effetto sorpresa”. La sua amicizia con Rue è tenera e spontanea, eccezionale e totalizzante come lo sono i rapporti a quell’età. Spesso costituisce un sospiro di sollievo in una serie che molto di frequente assume dei contorni disturbanti, o comunque cupi: non so quanto sia positivo il fatto che in un prodotto che fa di tutto per essere scioccante (dalla trama che in pochi episodi ha già sfoderato fin troppi plot twist, ai 30 peni in un solo episodio), l’unico momento di distensione sia la “semplice” amicizia di due ragazze.
Resta il fatto che Euphoria è un fenomeno interessante ma soprattutto ben costruito: visto il pilot, non si vede l’ora di andare avanti. È un’esperienza estetica che vale la pena di provare, anche se spesso diventa artefatta e anche un po’ voyeuristica. Tutto è eccessivamente curato: la colonna sonora, il trucco e gli outfit delle protagoniste, la fotografia, gli ambienti. Tutto è anche eccessivamente esplicito, e a un certo punto ci si chiede se sia giusto che degli adolescenti guardino una scena di uno stupro ai danni di un minore in cui si vede chiaramente la penetrazione, o che degli adulti guardino dei nudi frontali di ragazze che nella finzione hanno 15 o 16 anni. Il rischio che anche queste ultime scene ricadano nell’ambito delle prime non è da escludere.
Al momento, è difficile dire in che direzione andrà Euphoria, e se prevarrà l’aspetto glamour e pornografico, la classica discesa agli inferi della protagonista, o se si trasformerà in un Baby sotto Fentanyl. In ogni caso, questa serie difficilmente passerà inosservata e forse riuscirà, superandoli con arroganza, a ridefinire dei limiti nella rappresentazione degli adolescenti. Skins dopotutto ha plasmato un’intera generazione, e l’ha fatto anche perché il team di sceneggiatori si avvaleva della consulenza di veri ventenni. Euphoria, pur avendo autori più maturi, riesce a essere altrettanto credibile, perché “a differenza di altri show incentrati sulla Generazione Z, i liceali di Euphoria non parlano di Instagram, lo usano e basta”. E come una droga, una volta cominciato non si riesce più a farne a meno.