Negli anni di MySpace, su internet girava una foto di una ragazza con la frangetta che mordeva il filo di un controller della Xbox, diventata emblema delle “gurl gamer”, giovani donne che per attirare le attenzioni dei maschi si atteggiano a esperte di videogame. Oltre a essere diventata oggetto di meravigliose parodie, la famosa fotografia aveva scatenato l’indignazione dei “veri” gamer: un’appassionata di videogiochi deve rispondere a un certo canone estetico e accettare una serie di valori morali per dimostrare di non essere un’attention whore. Le gamer, nell’immaginario comune, sono la trasposizione videoludica delle manic pixie dream girl: ragazze un po’ secchione e un po’ pazze, gregarie ma anche timide, maschiacce ma anche sexy. Ma c’è una bella differenza tra i sogni erotici di adolescenti nerd e la realtà dei fatti: tutti i dati di mercato statunitensi ed europei ci dicono infatti che circa la metà degli utenti di videogiochi sono donne, a differenza di quanto siamo portati a immaginare. Anche l’Italia replica la situazione degli altri Paesi: secondo il rapporto “I videogiochi in Italia nel 2019”, pubblicato da IIDEA (Italian Interactive Digital Entertainment Association), il 47% dei videogiocatori sono donne. Una platea di quasi 8 milioni di gamer su un totale di 17 milioni, che alimentano un giro d’affari di 1,8 milioni di euro.
Nonostante la forte presenza femminile, il mondo del gaming resta tenacemente ancorato a un immaginario machista, sia dal punto di vista della rappresentazione, sia per il trattamento che viene riservato alle videogiocatrici, specialmente a quelle che giocano online o fanno streaming su Twitch, una popolare piattaforma di broadcasting per videogiochi. Come ha spiegato la critica dei media Anita Sarkeesian nella sua serie YouTube “Tropes vs Women in Video Games” – protagonista di una brutta storia di molestie, perfetto esempio di come il gaming non sia affatto un ambiente inclusivo verso le donne – anche se inizialmente i videogiochi sono stati creati come un prodotto neutro dal punto di vista del pubblico. Infatti, i primi titoli, sia per computer che arcade, come Spacewar!, Pong e Space Invaders, non avevano alcuna connotazione di genere. Dalla metà degli anni Ottanta però, in parallelo alla diffusione del Commodore 64 e del Nintendo Entertainment System (NES), il marketing dei videogiochi ha assunto un punto di vista quasi esclusivamente maschile, nella convinzione che si trattasse del segmento di mercato più lucrativo. A partire da quel decennio, le pubblicità dei videogiochi e delle console hanno puntato tutto sull’oggettificazione sessuale che associa il corpo femminile a un giocattolo con cui divertirsi.
Parallelamente, anche il contenuto dei videogiochi è cambiato per soddisfare un punto di vista maschile, a partire da uno dei videogiochi più importanti e influenti di sempre, Donkey Kong. Sviluppato nel 1981 per arcade, è stato uno dei primi videogiochi platform con una trama: il gioco segue le avventure di Jumpman che, saltando da un piano all’altro, deve cercare di salvare una donna rapita dal gorilla Donkey Kong. Gli storici dei videogiochi considerano Donkey Kong una tappa molto importante per il consolidamento di uno dei temi più comuni dei videogiochi: quello della damigella in pericolo. Il creatore del gioco, nonché sviluppatore di alcuni dei più influenti videogiochi della storia, Shigeru Miyamoto userà questo topos narrativo altre volte: nella saga di Super Mario (che è l’evoluzione del Jumpman di Donkey Kong, e in cui la nuova damigella da salvare è la principessa Peach) e in quella di Zelda. Intervistato da Kotaku, Miyamoto ha spiegato di non aver mai preso in considerazione la possibilità di rendere giocabili i personaggi di Peach o di Zelda perché all’epoca solo i maschi erano interessati ai videogiochi, e quindi non c’era motivo perché volessero interpretare delle femmine. A onor del vero, Peach si può giocare in alcune edizioni di Mario Kart (dove però non c’è una dinamica di genere e dove è una pilota meno esperta degli altri) e in Super Princess Peach per Nintendo DS, l’unico gioco che vede la principessa protagonista in missione per salvare Mario, ma in cui i nemici non vengono sconfitti con la forza o con l’eroismo, ma con le emozioni.
Sebbene la saga dell’idraulico coi baffi si sia sempre mantenuta fedele alla sua estetica favolistica e colorata senza mai introdurre elementi esplicitamente misogini, lo stesso non si può dire di quella miriade di videogiochi che hanno associato il già problematico topos della damigella in pericolo all’oggettificazione sessuale. In particolare, la fanciulla in pericolo, oltre a essere rappresentata in modo sessualizzato con un abbigliamento succinto o in pose sexy, diventa una sorta di premio per l’eroe che l’ha salvata. “Questo topos inquadra il corpo femminile come qualcosa che si può collezionare, manovrare o consumare, e posiziona le donne come uno status symbol designato a confermare la mascolinità del presunto giocatore maschio eterosessuale”, sostiene Sarkeesian.
Anche se si analizza il problema in termini meramente quantitativi senza considerare il modo in cui le donne sono narrate, la popolazione femminile resta comunque sottorappresentata nei videogiochi. Un esteso studio del 2009 pubblicato sulla rivista New Media & Society ha confrontato le percentuali della presenza femminile e delle minoranze etniche in 150 titoli con quelle delle analisi di mercato dei videogiochi negli Stati Uniti. Nei giochi, la proporzione di genere tra i personaggi era di 85% uomini contro 15% donne, contro i reali 51% giocatori e 49% giocatrici. Nella stragrande maggioranza dei casi (l’89,5%), i personaggi maschili erano anche quelli giocabili. A questo si somma anche un problema razziale: i bianchi sono sovrarappresentati, mentre neri, ispanici e nativi americani appaiono molto raramente. L’unica eccezione è quella degli asiatici, la cui presenza nei videogiochi supera la percentuale nella popolazione americana, ma questo si spiega facilmente col fatto che moltissimi produttori di videogiochi sono giapponesi.
Lo sguardo dei videogiochi è quindi uno sguardo maschile, eterosessuale e bianco e ciò ha delle conseguenze importanti in un medium in cui, di norma, l’identificazione del fruitore con il personaggio è totale, in quanto il giocatore è responsabile delle azioni nello sviluppo della storia. Si tratta di una questione molto sentita dalla critica videoludica: secondo diversi studi, riuscire a riconoscersi in un personaggio, anche in un videogioco, aiuta a validare la propria personalità, specialmente nei più giovani. Tuttavia, questa rappresentazione è parziale e spesso condizionata dai pregiudizi. Anche quando la protagonista è una donna, accade di frequente che il modo in cui viene mostrata e narrata sia problematico. Lara Croft, protagonista della famosa serie di Tomb Raider nonché uno dei personaggi femminili più influenti di sempre, è sì una donna, ma risponde anche un immaginario maschile: è vestita in modo sexy, ha un seno enorme ed è una “badass”. Quando gli autori hanno deciso di rinnovare il personaggio per adattarlo all’attualità, anziché rendere la sua personalità più complessa o sfaccettata hanno pensato bene di creare una origin story in cui si scopre che Lara Croft è sopravvissuta a un tentato stupro: un espediente molto utilizzato in sceneggiatura per dare profondità a una donna, che però la riduce allo stereotipo di vittima. Al di là di questi problemi, quello di Tomb Raider resta uno dei rari casi di videogiochi mainstream in cui il giocatore è costretto a impersonare un personaggio femminile, e non ha possibilità di scelta. La situazione inversa, invece, è la normalità per le donne o per le minoranze sessuali appassionate di videogiochi. Come ha raccontato al podcast di The Vision AntiCorpi Luca De Santis, autore di Videogaymes. Omosessualità nei videogiochi tra rappresentazione e simulazione e curatore del progetto Geek Queer, “L’idea che i giocatori maschi etero non riescano a immedesimarsi in un personaggio femminile o in un personaggio gay è un falso problema. Io da persona gay ho passato quarant’anni a immedesimarmi nei personaggi etero e non ho avuto nessun problema”.
Col tempo la rappresentazione e la narrazione nei videogiochi delle donne e di altre minoranze, compresa quella LGBTQ+, è senz’altro migliorata. Oggi esistono moltissimi giochi con protagoniste femminili non stereotipate, oppure personaggi gay e trans. Da un lato internet ha reso sempre più visibile il pubblico femminile e le sue esigenze, ma dall’altro l’ha esposto a uno scontro diretto con i gruppi più ostili e tossici, come la cosiddetta “maschiosfera”. I dati italiani di IIDEA confermano che le donne sono più restie a giocare online rispetto agli uomini: se il 37% dei maschi ama giocare in multiplayer online, questa modalità è scelta solo dal 21% delle donne. Viceversa, l’88% delle donne predilige la modalità single player, contro il 78% degli uomini. Negli Stati Uniti, il gap dell’online gaming è ancora più vasto: 38% donne e 62% uomini. La ragione è facilmente intuibile: giocando con altri utenti, le donne sono molto più esposte agli insulti e alle molestie. Di conseguenza, moltissime giocatrici preferiscono giocare offline oppure si fingono uomini per sfuggire agli attacchi. In realtà, quello della violenza nella community del gaming non è un problema che sperimentano solo le donne: secondo un sondaggio dell’Anti-Defamation League, una Ong che combatte il cyberbullismo, più del 70% dei videogiocatori online ha subìto una qualche forma di molestia. Nel 53% dei casi, oggetto dell’attacco erano proprio caratteristiche come il genere, l’etnia o l’orientamento sessuale e le donne ricevono in media il triplo degli attacchi rispetto agli uomini. Molte donne inoltre subiscono vere e proprie aggressioni sessuali, come invio non consensuale di materiale sessuale, revenge porn e minacce di stupro. Per quanto siano numerose le donne che amano i videogiochi, continueranno a essere percepite e trattate come una minoranza.