Un paio di mesi fa, il Saturday Night Live ha trasmesso un numero musicale intitolato Murder Show che ironizza sulla tipica serata solitaria delle donne: guardare programmi true crime mentre il marito non c’è e ascoltare storie terribili di squartamenti mentre si chatta con la sorella o con la mamma. Negli ultimi anni, in effetti, il genere ha conosciuto un vero e proprio boom: le vendite di libri che hanno per oggetto fatti di cronaca reali sono in aumento; gli show true crime restano fra i più visti di Netflix, così come i podcast; di recente sono nati anche generi più ibridi: il canale YouTube “Murder and Makeup”, dove la makeup artist Bailey Sarian si trucca mentre racconta efferati omicidi, ha 5 milioni di iscritti. Il fatto curioso, come rimarca la scenetta del SNL, è che a fruire di questi prodotti sono appunto in larghissima maggioranza donne. Anche secondo le statistiche di Spotify, il pubblico femminile dei podcast di true crime è in costante aumento. Le autrici di Wine & Crime, che parlano di assassini mentre bevono vino in allegria, hanno recentemente dichiarato che l’85% del totale dei loro ascoltatori è donna. La fiera del settore CrimeCon attira poi un pubblico per l’80% femminile e circa il 70% delle recensioni di libri true crime è scritto da donne. Questi numeri sembrano contraddire il luogo comune secondo cui solo gli uomini siano interessati alle storie di violenza, come sembrano suggerire videogiochi o film d’azione.
Le storie di omicidi realmente avvenuti hanno sempre fatto parte delle narrazioni popolari, intessendosi spesso con leggende e fiabe dal contenuto perturbante, ma il genere true crime vero e proprio – che combina il racconto di un omicidio con la ricostruzione di tipo investigativo sul come è avvenuto – nasce e si sviluppa con il giornalismo. Il romanzo di Truman Capote A sangue freddo, uscito originariamente a puntate sul New Yorker nel 1965 e incentrato sull’uccisione dell’intera famiglia Clutter in una tenuta del Kansas, è generalmente riconosciuto come il capostipite moderno del genere, non solo perché racconta nei dettagli un omicidio particolarmente violento, ma anche perché cerca di assumere il punto di vista dell’assassino. L’analisi psicologica dell’omicida, spesso arricchita da elementi di fiction è infatti ciò che caratterizza maggiormente il genere e lo differenzia dal semplice giornalismo investigativo o dalla cronaca nera. Negli anni Settanta e Ottanta, a causa della risonanza di alcuni casi come l’eccidio di Cielo Drive o l’arresto di Ted Bundy e grazie alla nascita della tecnica del profiling (come racconta anche la serie Mindhunter), la figura del serial killer diventa la protagonista del true crime. In quei decenni, infatti, vengono pubblicati diversi libri di successo, come quelli di Ann Rule, scrittrice che per anni frequentò Bundy senza sapere nulla dei suoi crimini e nascono i primi programmi e serie tv sul tema, come America’s Most Wanted, andato in onda dal 1988 al 2012.
Dal punto di vista psicologico, il successo del true crime è stato spiegato attraverso l’archetipo dell’ombra di Jung: tutti abbiamo in noi una componente oscura e rivederla negli altri ci rassicura. Un’altra teoria per spiegare l’ossessione per il true crime è la cosiddetta ipotesi del mondo giusto, cioè la convinzione che nel mondo regni una sorta di giustizia per cui le cose brutte accadono solo alle persone brutte: in altre parole, vedere che un destino così orribile tocca sempre a qualcun altro, rafforza la nostra convinzione che non toccherà mai a noi. Tuttavia, queste ipotesi non sembrano spiegare perché il true crime affascina nello specifico le donne.
Secondo la psicologa Amanda Vicary dell’Università dell’Illinois, una possibile spiegazione è che queste storie insegnano alle donne a sopravvivere, dal momento che le vittime predilette dei serial killer sono quasi sempre femmine. “Le caratteristiche che rendono i libri [di true crime] così attraenti per le donne sono tutte molto importanti nella prevenzione o nella sopravvivenza a un crimine”, scrive Vicary. “Per esempio, capendo perché un individuo decide di uccidere, una donna può imparare a riconoscere segnali preoccupanti in un amante geloso o in un estraneo”. Vicary fa anche notare come la paura di essere vittima di un serial killer sia paradossalmente in contrasto con la reale probabilità di morire in quel modo: sono infatti gli uomini le principali vittime di omicidio, ma soprattutto crimini come quelli commessi dagli assassini seriali sono estremamente rari (meno dell’1% del totale dei crimini commessi negli Stati Uniti).
Anche se non sono molto frequenti, però, casi di questo tipo sono molto radicati nel nostro immaginario. Come scrive Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare, se è vero che le storie ci aiutano a evadere dal quotidiano, le storie dell’orrore ci piacciono così tanto perché ci mettono di fronte a un ordine di problemi, minacce e paure che possiamo vivere a distanza di sicurezza. Ci mettono di fronte, insomma, a una parte di noi che sappiamo essere presente ma che allo stesso tempo vogliamo tenere lontana. Per questo alcune immagini sono particolarmente significative: la giovane vergine morta, ad esempio, assume una grande importanza come simbolo archetipico dell’innocenza perduta. Questa immagine ritorna nei miti, nelle fiabe, nei romanzi, nei dipinti, fino ad arrivare agli horror slasher, dove il furioso omicida solitamente fa fuori per prima la ragazza più giovane e ingenua mentre è impegnata a fare sesso o si è appartata con il fidanzato. I crimini più brutali diventano anche una lente, a volte inconscia, per incanalare ed esorcizzare la paura che le donne hanno di fare quella fine.
Il true crime è un genere complesso che porta con sé una serie di problemi etici. Al di là della domanda se sia giusto o sbagliato intrattenersi consumando storie di dolore, c’è anche un enorme problema legato alla mancanza di consenso delle persone coinvolte. Ad esempio, la famiglia di Teresa Halbach, vittima delle vicende raccontate nella famosa docuserie Making a Murderer, prima che la serie andasse in onda si disse “rattristata di sapere che singoli individui e aziende continua[ssero] a creare intrattenimento e a fare profitti dalla [loro] perdita”. Se non si riescono a coinvolgere i parenti più prossimi, di solito infatti produttori trovano qualche amico o parente lontano e la serie può andare avanti. Certamente, fenomeni come il binge watching non contribuiscono a sollevare problemi del genere.
D’altro canto, la massificazione del fenomeno ha portato con sé anche un pubblico più vasto e variegato, che sempre più spesso non si limita a fruire passivamente delle storie, ma vuole avanzare le proprie ipotesi e contribuire alla narrazione: un numero sempre maggiore di donne non solo fruisce di opere true crime, ma le produce. Con i loro podcast o libri, molte autrici sono determinate a ridare una storia anche alle vittime degli omicidi. In alcune occasioni, infatti, il tentativo di far empatizzare lo spettatore con il serial killer finisce per cancellare quasi del tutto dalla storia le vittime, indugiando sui dettagli più morbosi o facendo vero e proprio victim blaming.
L’interesse crescente del pubblico femminile verso il true crime può essere quindi letto come il desiderio di riappropriarsi di una storia in cui le donne sono sempre stati oggetti e mai soggetti, provando a riscrivere le regole di un genere che se ne è servito abbastanza.