Contagion è da rivedere non solo perché parla di una pandemia

Nel 2000 l’Occidente si preparava a veder saltare in aria tutta la tecnologia esistente per colpa del famoso Millennium Bug. Nel 2012, invece, aspettavamo tutti che arrivasse il 21 dicembre per confermare la profezia dei Maya, pronti ad affrontare la fine del mondo a colpi di post ironici su Facebook. Senza bisogno di tornare indietro alle profezie disastrose che costellano la storia del genere umano, sappiamo che il senso di apocalisse e di fine ineluttabile ci caratterizza come specie vivente, fa parte del nostro modo di stare al mondo immaginare un momento in cui tutto ciò che conosciamo muore. Il 2020, un anno che già di per sé si presta bene anche solo graficamente a ipotesi disastrose o a cambi epocali – giusto perché è la cifra tonda di un sistema di conteggio degli anni che noi stessi abbiamo inventato – sta facendo di tutto per entrare nella lunga lista dei cataclismi, visto che in meno di tre mesi dal suo inizio ha dato spazio a scenari come quelli degli incendi in Australia, a ipotesi di terza guerra mondiale e ora, come sappiamo tutti, è al rischio pandemia. Finché si scherza e si immaginano asteroidi da disaster movie americano è un conto, quando siamo noi stessi a sperimentare una situazione inedita, però, la questione si fa più complessa. Anche perché, a supporto delle nostre supposizioni da cittadini che non possono fare altro che attenersi alle regole dettate dall’alto per fare sì che tutto si risolva nel migliore dei modi possibili, arriva appunto il cinema, con il suo bagaglio di immagini e suggestioni che ci determinano inevitabilmente.

Tutti noi usiamo il cinema per soddisfare quel bisogno di catarsi da tragedia greca, è un impulso necessario a sentirci meno soli e, paradossalmente, più sicuri: non è strano dunque che proprio in queste settimane in cui la diffusione di un virus sconosciuto tanto contagioso sia tornato in auge un film del 2011 che racconta una situazione molto simile a quella che stiamo vivendo oggi. Si tratta di Contagion, diretto dal regista americano Steven Soderbergh, ed è una pellicola che già all’epoca della sua uscita aveva suscitato piuttosto interesse, ma che di certo nessuno si aspettava avrebbe scalato le classifiche in modo repentino sulle piattaforme di streaming quasi un decennio dopo. Non so dire se quella di riscoprire opere che trattano temi delicati e attuali proprio nel momento dell’emergenza sia una buona abitudine o un modo più veloce per far crescere ansia e paranoie, ma se l’opera in questione è fatta bene può essere interessante notare le corrispondenze che ci sono tra la realtà e il modo in cui la raccontiamo. Non si tratta né di profezie in stile Simpson che prevedono fatti che poi succedono, né di “realtà che supera l’immaginazione”, ma semplicemente di meccanismi umani, sociali e naturali che ci appartengono al di là della finzione e che si innescano in modo più o meno forte sia nel mondo che viviamo che in quello che ci piace raccontare attraverso il cinema o qualsiasi altra forma d’arte. Contagion, infatti, non va visto come una sorta di testamento per il futuro che verrà, anche perché nessuno di noi sa veramente come andrà avanti questa situazione, dal momento che siamo passati da una percezione lontana e irreale della questione, quando era tutto confinato lontano in Cina, a sperimentare in prima persona cosa significa il lockdown del Paese.

Contagion racconta in modo molto lineare e con un cast d’eccezione tutti i momenti che portano alla diffusione di una pandemia e che vanno ben oltre la semplice trasmissione di un virus. Vedendo in modo così concatenato i passi di una situazione come quella che stiamo vivendo oggi, anche la nostra realtà attuale assume per certi versi un po’ più di chiarezza, per quanto la differenza tra un film e la verità degli eventi rimane comunque fondamentale. Nel caso del virus raccontato da Soderbergh infatti, i sintomi si manifestano molto più violentemente, e la morte arriva quasi subito, con pochissime possibilità di guarigione. Il Coronavirus, come sappiamo bene, non agisce in modo tanto repentino, ma questo non significa che non sia un pericolo per la nostra comunità. La cosa che però hanno in comune i due virus è la provenienza: entrambi partono dalla Cina e, nel film, da un pipistrello, ipotesi che è stata avanzata anche per il Coronavirus. La Cina intesa come scenario in cui l’Occidente si immagina i peggiori scontri tra natura e uomo, il luogo per eccellenza dove l’industrializzazione spietata si dispiega senza sosta è un topos narrativo dei nostri tempi esattamente come poteva essere la Russia dei cattivi nei film americani. Questa sua presenza assente nella nostra vita che si concretizza solo attraverso la sua produzione materiale di ciò di cui è fatto il presente – la tecnologia in primo luogo – la rende misteriosa e al contempo minacciosa, come se si trattasse di un’entità altra che fa parte del nostro Pianeta ma vive con regole diverse. In pochi la conoscono davvero, tutti invece abbiamo un’opinione vaga a riguardo e la battuta sul fatto che a breve ci “conquisterà” l’abbiamo sentita milioni di volte.

Ma se la Cina di questo racconto appare esattamente come quel mix di giungla selvaggia e umida, metropoli di cemento inquinate e miliardi di persone ammassate, dunque proprio come ci potremmo immaginare quel mercato di Wuhan dove si ipotizza sia cominciata l’epidemia, non è tanto su questi aspetti più scenografici che dovremmo soprattutto concentrarci. L’elemento più interessante di un film come Contagion, al di là delle sue esagerazioni spettacolari e della leva che fa sull’ignoto di posti in cui da Occidentali convinti di essere i protagonisti del mondo conosciamo solo quasi esclusivamente stereotipi, è quello della catena di causa-effetto che genera una società in cui la comunicazione e la connessione sono ormai capillari. Nel 2011 infatti, internet aveva da poco assunto quel valore centrale che ha oggi nella nostra vita, e il modo in cui questo si interseca con la storia di un virus e della sua diffusione è piuttosto emblematico anche di tutto ciò che stiamo provando ora nell’affrontare questa crisi con un telefono sempre in mano che ci riempie di notizie discordanti ogni secondo. In Contagion infatti, ci sono tanti personaggi e tanti punti di vista che danno vita a una storia corale e ognuno di loro rappresenta una categoria sociale diversa – Matt Damon per esempio è “l’uomo comune”, mentre Kate Winslet è la dottoressa che si sacrifica per il bene degli altri – ma tra tutti, il più paradigmatico della realtà di oggi è il blogger interpretato da Jude Law.

Alex Krumwiede, così si chiama il personaggio, contiene in nuce l’essenza di tutto ciò che di sbagliato c’è stato nell’enorme problema di comunicazione che ha accompagnato e continua ad accompagnare la vicenda che stiamo vivendo oggi. Il suo ruolo infatti è proprio quello di approfittare della moltitudine di messaggi e informazioni che abbiamo a disposizione grazie a internet per generare caos, quanto di più rischioso in un momento in cui i dati che dovremmo avere a disposizione dovrebbero essere chiari, comprensibili e soprattutto utili a evitare le conseguenze più immediate, ossia quelle generate da psicosi di massa. Nel caso di Contagion, il giornalista blogger utilizza la propria visibilità per diffondere notizie false su medicinali omeopatici che curerebbero la malattia, diffondendo l’idea per cui la scienza ufficiale ci nasconde qualcosa: una facile metafora di internet e dei mostri che ha generato stimolando quel cortocircuito epistemologico per cui siamo tutti medici, siamo tutti ingegneri, tutti esperti di qualcosa che nemmeno conosciamo bene solo perché possiamo cercarla su Google. La velocità e la viralità con cui si diffondono informazioni false, opinioni fondate sul nulla – anche pareri scientifici che si scontrano con caratteri gonfi di egomania – e paura per ciò che sta succedendo, fanno sì che il modo in cui si vive un’emergenza così grande diventi di fatto un incubo, cioè quello che stiamo vivendo oggi con il Coronavirus e con la quantità enorme di impulsi contrastanti che riceviamo che si combinano con la paura dell’ignoto e l’esigenza di trovare un capro espiatorio.

Non penso che “il vero virus” sia la disinformazione, come ha detto qualcuno; credo che il vero virus sia, appunto, il virus stesso che ci sta contagiando e di cui, se tutto va bene, in relativamente poco tempo riusciremo a liberarci. Piuttosto, una situazione come quella che stiamo vivendo ha fatto sì che si scoperchiasse il vaso di Pandora e che tutte le storture della società in cui viviamo che di solito rimangono taciute venissero a galla: la sanità pubblica è un valore fondamentale su cui dovremmo investire molto più di quanto facciamo e forse in modo diverso; le carceri non sono discariche per esseri umani; le città non sono parchi giochi per turisti. Ci sono tantissimi problemi che stanno saltando fuori in questo momento di crisi così forte dopo essere stati ignorati per anni, ognuno dei quali è un tema su cui l’Occidente evoluto e civile ha il dovere di lavorare.

Il Coronavirus ci ha sbattuto sotto agli occhi l’importanza centrale della comunicazione ai tempi di internet, quando anche una nota vocale finta può scatenare un’isteria collettiva e farci riversare per strada a svuotare i supermercati. In Contagion, quando Jude Law si definisce “uno scrittore”, il ricercatore che stava tampinando per aver informazioni sul virus gli risponde che “Blogging is not writing, is tweeting with punctuation”: ritornare ad attribuire il giusto valore alle cose, alle competenze e alla correttezza dell’informazione sarebbe una conquista enorme per il nostro Paese. La responsabilità di chi si trova tra le mani oggi dei canali di informazione enormi, dai giornali agli influencer, è quella di dare un peso sensato e corretto a ciò che abbiamo tutti il diritto di sapere, senza speculare né innescare reazioni a catena folli dettate dalla paura. Se l’origine del virus non è una metafora ma un problema che non ha un colpevole intenzionale ma una semplice reazione causa-effetto naturale, tutto il resto invece, a partire dal contenimento del contagio, passando per la mancanza di attrezzatura in ospedale, alla tragica situazione delle carceri, essendo in una democrazia dipende anche da noi, e i responsabili esistono eccome.

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